Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/05/2017, a pag. 3, con il titolo "Sull’antiterrorismo decidete da che parte stare, intima Nuriel", l'analisi di Daniel Mosseri.
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Daniel Mosseri
Nitzan Nuriel, research fellow all’Istituto internazionale per l’antiterrorismo di Herziliya
Berlino. Il terrore cerca un nuovo 11 settembre, un colpo forte da assestare all’occidente. Eppure Nitzan Nuriel, research fellow all’Istituto internazionale per l’antiterrorismo di Herziliya, si dice ottimista. “I terroristi non vinceranno mai: noi siamo attaccati alla vita, loro no”. Star della lotta all’insicurezza globale, il generale di brigata israeliano è impegnato in un tour europeo e al suo pubblico propone un mix di soluzioni pragmatiche “che in Israele ci ha permesso di azzerare il numero degli attentati suicidi”. Oggi Nuriel teme un attentato su grande scala con armi chimiche contro il Vecchio continente: “E’ questione di mesi”. Il suo non è un racconto di fantascienza, mette in chiaro, ma storia: nel 1995 Aum Shinrikyo attaccò la metropolitana di Tokyo con il sarin, e anche oggi è più facile spostarsi con alcune fialette di agente paralizzante che con un bazooka. A spingere l’Isis verso una nuova azione spettacolare non c’è solo la progressiva perdita di posizione in Siria e Iraq.
“Dalle Torri gemelle in poi i terroristi non sono più riusciti a mettere a segno un attacco di grandi dimensioni in occidente”. Il generale vede l’Europa come il ventre molle della sicurezza globale per “i troppi errori dei politici, per la presenza di ampie comunità islamiche presso le quali i terroristi possono trovare sostegno, e non ultimo per il nostro rapporto con la Turchia”, descritta da Nuriel come un hub del jihad globale. Per il generale l’immigrazione islamica è un problema, ma è gestibile. Nel maggio del 2000, ricorda, Israele si ritirò dal Libano portandosi dietro “oltre seimila cittadini libanesi preoccupati del possibile ritorno al potere di Hezbollah”. Parte di loro erano persone che Israele conosceva, con altre aveva combattuto. Nuriel ricorda che i libanesi furono sistemati e rifocillati, “ma nel giro di tre mesi li avevamo intervistati uno per uno con l’aiuto della nostra intelligence e alla luce delle informazioni ricavate da ciascuno degli ospiti”.
Gli intervistatori stabilirono chi poteva restare e chi doveva lasciare il paese: il contrario di quanto successo, per esempio, fra il 2015 e il 2016 in Germania. In quel periodo la Repubblica federale ha accolto un milione di rifugiati mediorientali senza filtri. “Eppure noi già nel 2010 avevamo sollecitato l’Europa a stabilire procedure e creare strutture per la selezione degli immigrati: l’ospite non ideale, abbiamo suggerito, doveva poter restare per cinque anni al massimo”. Secondo Nuriel di recente l’approccio di Berlino è cambiato, ma ci vorrà tempo per riparare agli errori. In Italia il generale vede invece una contraddizione: “Avete servizi di intelligence e di polizia preparati, ma siete un paese molto naïf”, dice al Foglio. Il generale critica la tendenza italiana a trattare “un criminale o un innocente allo stesso modo”.
Poi parla fuori da denti: “Dovete decidere da che parte stare”. A cominciare dal rapporto con Erdogan, “che secondo me è parte del problema, mentre molti in Europa pensano sia parte della soluzione”. E’ anche per sfiducia verso i politici confusi e relativisti che al primo posto nella sua dottrina antiterrorismo Nuriel non mette polizia e intelligence, ma i sindaci. Il primo cittadino, osserva, conosce il territorio e i cittadini, e vuole essere rieletto. E’ con il sindaco di Cannes che l’ufficiale classe 1950 ha pianificato la sicurezza del Festival del cinema all’indomani della strage sul lungomare di Nizza. Perché è il sindaco e non l’intelligence “che sa se nei pressi del Festival ci sono appartamenti vuoti” che potrebbero risultare utile ai terroristi; ed è ancora il sindaco “che in poche ore mi può fornire dei camion per bloccare l’accesso ad alcune strade, facendo da barriera contro eventuali tir in corsa”. Da cui il suo auspicio affinché i primi cittadini “siano sempre meno politici, e sempre più leader”.
Il suo vademecum impone pragmatismo nella reazione a un attentato: “Non chiediamoci perché il terrorista l’ha compiuto, ma come ci sia riuscito; occupiamoci di logistica”. Quanto al rischio dei cosiddetti lupi solitari attivi sui social media, Nuriel consiglia di andarli a trovare a casa, di farli sentire osservati. “Molto meglio che metterli in carcere dove fanno rete con altri come loro”. Importante poi è il “desk concept”, un tavolo al quale ogni agenzia si sieda con l’altra, guardando a ogni problema da un’angolatura diversa. Anche l’esistenza di una catena comando chiara e ininterrotta si rivela fondamentale: “In Francia ho fatto notare a un sindaco che nella stazione della sua città c’erano quattro ufficiali armati di quattro forze diverse, slegati gli uni dagli altri”. Davanti al terrore ogni protagonismo è bandito: “In Israele un militare non può chiederti i documenti, ma se ha un sospetto avvertirà un poliziotto che lo farà per lui”. E la tecnologia di punta spesso non serve: “E’ più importante sapere quali sono le nostre debolezze, e porvi rimedio, anziché affidarsi alle telecamere”.
Attività sotto copertura e resilienza
Ecco perché Nuriel chiede più esercitazioni per incidenti su larga scala assieme all’impiego del “red team”: una squadra che pensa e agisca da terrorista per mettere in luce i gap del piano di sicurezza preparato dall’altra. Il generale chiede anche più attenzione contro le minacce interne: “Occorrono piani per controllare chi dall’interno delle nostre agenzie decida di passare dall’altra parte”. Last but not least, Nuriel menziona due misure “delicate” e difficili da implementare, “che spesso richiedono nuove procedure legali”, ma che danno frutti importanti: il monitoraggio dei social media e le attività sotto copertura nel campo del nemico. Ogni attività, avverte, perde efficacia se non è supportato dalla volontà di vincere. E cita un termine spesso abusato ma molto calzante in questo caso: la resilienza. “Anni fa in Israele ci volevano otto ore per far sparire le tracce di un attentato per strada e tornare alla normalità”. Quella normalità che i terroristi vorrebbero fare fuori. “Oggi invece ci bastano tre ore”. E conclude: “La vittoria più grande dei terroristi in Belgio si è verificata dopo l’attentato all’aeroporto di Bruxelles, quando lo scalo restò chiuso per tre settimane”.
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