Cresce il nervosismo: il viaggio di Trump in Medio Oriente si avvicina
Analisi di Mordechai Kedar
(Traduzione dall’ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yehudit Weisz)
Se non ci saranno cambiamenti dell’ultima ora, il Presidente Trump sta preparando una visita di Stato in Medio Oriente che includerà Israele, l’Autorità palestinese e l’Arabia Saudita. Ci saranno lunghe file di persone in attesa di stringere la mano al visitatore importante, all’uomo più potente del mondo, convinte che Trump riuscirà ricordare tutto quanto gli verrà detto, tra gli spintoni dei vicini e i gomiti degli addetti alla sicurezza. I suoi interventi vengono preparati con estrema cura e attenzione, per renderli adeguati ad ogni tappa e a ogni tipo di pubblico. Ma una cosa è certa: una settimana dopo la sua visita Trump non ricorderà una sola parola dei testi che avrà letto. Una settimana? Così tanto? Devo essere proprio un inguaribile ottimista. E’ chiaro che Trump conosce poco i problemi del Medio Oriente e non ha la più pallida idea di dove cercare e come trovare una soluzione, soprattutto se messo a confronto con i Presidenti che lo hanno preceduto, che avevano dedicato molto tempo per conoscere i problemi in questione e investito molta fatica nel tentativo - poi fallito - di trovare le soluzioni. I primi 100 giorni di Trump alla Casa Bianca hanno presentato al mondo un leader intriso di senso del potere, che agisce secondo il proprio istinto e che reagisce in modo imprevedibile. Mentre scrivo queste righe, Trump ha licenziato il capo dell’FBI, ma qualcosa mi dice che non è stato il risultato di una lunga e attenta analisi nel considerare la situazione. Israele progetta un itinerario per l'ospite d'onore in cui sono inclusi lo Yad Vashem, il Muro Occidentale, la Casa del Presidente, Masada e una cena con il Primo Ministro. Il percorso è pieno di simboli, Gerusalemme è centrale, la sua storia ebraica antica e recente, e l’obiettivo è quello di rafforzare la consapevolezza di Trump sul legame tra la nazione ebraica, la sua capitale e il dovere per il mondo e gli Stati Uniti in particolare, di proteggere questo legame e consolidarlo. Naturalmente, è impossibile includere lunghe, profonde discussioni in un viaggio di così breve durata, e in ogni caso, dubito che Trump abbia speso molto tempo a discutere seriamente i problemi del Medio Oriente. Tra i suoi consiglieri non c’è nessuno che abbia competenze professionali o esperienza specifica per quanto riguarda il Medio Oriente, quindi nel migliore dei casi, i risultati rischiano di essere superficiali. La cosa principale che temono i governi mediorientali che ospiteranno Trump, è una combinazione di tre fattori: il primo è il modo di pensare di Trump da uomo d’affari, che lo porta a voler concludere un accordo ad ogni costo, anche a scapito di aspetti della massima importanza per i suoi partner. Il secondo è l’aggressività che caratterizza il suo comportamento di fronte a amici e nemici, il terzo è l'impulsività che connota le sue azioni: una caratteristica che solleva dubbi circa l’efficacia delle soluzioni che potrebbe suggerire. In questo tipo di situazione, in particolare tenendo conto della sua mancanza di conoscenza e di esperienza del Medio Oriente, i suoi consiglieri diventano sempre più importanti, in particolare le loro relazioni reciproche e la delimitazione dei confini delle aree di responsabilità di ognuno. Penso che ad ogni tappa di Trump, i suoi ospiti si stiano preparando per discutere proposte su cui non sono d'accordo, ma che ascolteranno senza respingerle, in modo da non creare fratture. Prepareranno relazioni che gli faranno piacere, discorsi che lui desidera sentire, qualsiasi cosa per evitare che si arrabbi se i suoi progetti non andranno nel modo che lui vorrebbe ( questa possibilità è piuttosto prevedibile). Probabilmente si verificherà in Arabia Saudita. Trump dovrebbe essere l’ospite d’onore in una Conferenza di leader delle nazioni islamiche, riuniti a Riad per discutere sull’estremismo che ha impregnato la società araba e islamica e per suggerire le misure più opportune per affrontare questo fenomeno. La motivazione che spinge Trump a essere coinvolto nel problema dell’estremismo islamico deriva dal suo istinto - e non si sbaglia – avendo la convinzione che l'ostilità estrema verso gli attuali regimi nei paesi islamici, possa rivolgersi contro gli Stati Uniti, che di questi regimi sono un amico e alleato. Tutto questo è già successo nei primi anni di questo secolo - in particolare l’attacco del 9/11 da parte di Bin Laden e Al Qaeda - ed è così che ha continuato ad essere fino ad oggi. Il problema che sta di fronte a Trump e alla conferenza, è che sullo sfondo vi è la crescente tensione tra i sauditi sunniti e l’Iran sciita e le guerre sanguinarie scatenate da questi due antagonisti in Yemen, Siria, Iraq e Libano. L’unico modo in cui i sauditi e altri Paesi sunniti possono affrontare l’Iran senza provocare una guerra diretta, è tramite i gruppi salafiti sunniti, come ad esempio quelli che operano in Siria e Iraq, che stanno combattendo l’Iran e i suoi alleati (Hezbollah, Assad e Russia). Come può il Presidente americano affrontare un Iran che sta aumentando costantemente i propri armamenti e la sua forza, senza ricorrere alle organizzazioni “estremiste” finanziate dall’Arabia Saudita? Questa è la ragione per cui si pone la possibilità di inviare “uomini sul campo”, il che significa che truppe americane saranno inviate in aiuto dei jihadisti del Medio Oriente, per promuovere la sicurezza americana, mentre già in questo momento ci sono soldati americani in Siria, Iraq, Afghanistan e, per quanto ne sappiamo, in altre regioni di guerra. Trump ha bisogno della collaborazione del blocco islamico per le operazioni degli Stati Uniti contro lo Stato Islamico e l’Iran. Il problema è che questa situazione contiene un paradosso interno: l’Iran sciita è quello che ha più da guadagnare dall’eliminazione del Daesh, una forza sunnita: la sua distruzione permetterà all’Iran di restituire al suo alleato Assad, le aree in Siria conquistate dal Daesh nel 2014. Inoltre, i sauditi sono stati e sono tuttora i principali sostenitori del Daesh (dietro le quinte, naturalmente). Questo è il motivo per cui, a Riad, Trump ascolterà con molta attenzione la traduzione in cuffia dei discorsi dei leader che sono tutti uniti contro “l’estremismo e il terrorismo”, ma alcuni di loro sono anche i finanziatori (e non solo finanziatori) di quelle stesse organizzazioni contro le quali si parlerà in quel convegno. Nel viaggio di Trump non è previsto l’Egitto, apparentemente per motivi di sicurezza, ma Trump potrebbe incontrare il Presidente egiziano Al Sisi in occasione della conferenza di Riad. Forse un incontro a margine della Conferenza è già stato pianificato. E’ chiaro che questo tour ha lo scopo di far progredire in Medio Oriente un’alleanza pro-USA, quella che gli americani pensano riuscirà a produrre una forza contro l’asse Russia-Iran e di cui la Turchia è un membro non trascurabile. La coalizione filo-americana che Trump sta cercando di costruire, includerà i sauditi, la Giordania, l’Egitto, Israele, l’Autorità palestinese e le organizzazioni curde che cercano di ottenere libertà e indipendenza nelle regioni curde della Siria, nonostante la fiera opposizione del Presidente turco Erdogan. Per consentire la formazione di quest’alleanza, le parti devono trovare soluzioni ad alcuni problemi “accessori” che esistono tra loro, come ad esempio la creazione di uno Stato palestinese e la pace con Israele. Questo è ciò che sta dietro la“campagna sorrisi e pace” mostrati da Mahmoud Abbas e l’altro atto messo in scena dal re di Giordania Abdullah, che sostiene che il suo Paese sarà il prossimo obiettivo del Daesh. In queste due presentazioni di figura, i fatti non sono di alcuna importanza, perché in ogni caso Trump non verifica la verità di ciò che gli verrà detto; un esempio eloquente di questo è la presentazione del tutto falsa di Abbas riguardo all’ ‘educazione alla pace’ dell’ Autorità Palestinese. Ne segue che la visita in Medio Oriente del Presidente Trump sarà giudicata dai suoi risultati e non dalle parole mielate che ascolterà durante il viaggio nella regione. E’ qui, nelle piccole ed esasperanti cose, che si annida il male. Possiamo solo augurare a Trump, ai suoi consiglieri, agli Stati Uniti e al mondo intero, di poter raggiungere una profonda comprensione dei problemi del Medio Oriente e trovare le giuste soluzioni che possano davvero essere efficaci, non solo scritte sulla carta, per quanto importanti e positive possano sembrare.
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
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