Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 10/05/2017, a pag. IV, la recensione a "Sotto una stella crudele", di Heda Margolius Kovály, a cura di Roberto Persico.
La copertina (Adelphi ed.)
Impressiona, la disarmante semplicità con cui Heda Margolius Kovály, nata Bloch, ebrea praghese, racconta le vicende più terribili. La morte, nel ghetto di Lodz dove è stata deportata con tutta la famiglia, del cugino Jindrisek, sedici anni, consumato dalla fame e dalla tubercolosi. “Il blocco di Auschwitz, le baracche affollate di un migliaio di ragazze con la testa rasata, che ululavano sotto le frustate come un branco di lupi”. La lucida determinazione con cui durante l’ultima marcia verso Bergen-Belsen decide la fuga: “Finché marciavamo insieme alle altre, avevamo la consolazione di non essere sole. Ma se ci fossimo liberate… Allora capii: un solo gesto, una sola decisione sarebbero bastati per raggiungere la più grande libertà che chiunque, in quel momento e in quel luogo, avrebbe mai potuto ottenere”.
Heda Margolius Kovály
La scoperta che a Praga, dove riesce a tornare, nessuno ha il coraggio di rischiare per ospitare un’ebrea fuggiasca. Il senso di esaltazione che, a guerra finita, porta molti dei giovani migliori ad abbracciare il sogno della rivoluzione proletaria: “Molti dei nostri diventarono comunisti non tanto per ribellarsi al sistema politico esistente quanto per ribellione nei confronti della natura umana, che dopo la guerra mostrò il peggio di sé”. La disillusione che ben presto segue, quando scopre che nel partito dominano “i collaborazionisti, i borsaneristi e i truffatori, i burocrati corrotti e, naturalmente, il grande esercito degli ‘umiliati e offesi’, i quali, per incompetenza, non avevano mai concluso nulla, e sapevano che nel Partito i loro difetti potevano trasformarsi in pregi. Non ci volle molto perché le portinaie diventassero la spina dorsale del Partito. Regnavano con pugno di ferro non solo sui loro palazzi, ma su intere vie, e la loro vita diventò un’inebriante orgia di spiate e di delazioni”.
Il buco nero in cui finisce la sua vita quando il marito, Rudolf Margolius, viceministro, uno che nell’ideale non ha mai smesso di credere, viene accusato di tradimento e condannato all’impiccagione nel Processo Slansky, e la moglie del “nemico del popolo” si ritrova disprezzata da chi il giorno prima la omaggiava, licenziata e buttata fuori di casa con un figlio da mantenere, ammalata e curata a stento da medici che ondeggiano fra timore ideologico e un residuo di etica professionale. Il cinismo con cui i funzionari di partito le comunicano, una decina d’anni più tardi, che il marito è stato riabilitato, ma nessuno pagherà per questo se non lei. Sì, è nata sotto una stella crudele, Heda Margolius Kovály. Ha vent’anni quando i nazisti occupano la Cecoslovacchia e quasi cinquanta quando la invadono i sovietici e lei sceglie la via dell’esilio. Ma non si è lasciata piegare: “Non riuscivo a seguire il consiglio di chi continuava a ripetermi che l’unico modo per tornare a vivere era dimenticare. Volevo conservare tutto, non insabbiare niente, non abbellire niente, tenermi dentro i fatti così com’erano avvenuti e imparare a conviverci. Volevo vivere perché ero viva, non solo perché, per puro caso, non ero morta”.
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