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Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.05.2017 Il terrorismo sarebbe gemello della globalizzazione
Il commento superficiale e inaccettabile di Donatella Di Cesare

Testata: Corriere della Sera
Data: 06 maggio 2017
Pagina: 44
Autore: Donatella Di Cesare
Titolo: «Quant'è moderno il Califfato»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/05/2017, a pag.44, con il titolo "Quant'è moderno il Califfato", l'analisi di Donatella Di Cesare.

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Da Heidegger al Califfato, dal nazismo al terrorismo, un'altra serie di commenti che stupisce leggere su un giornale serio. Ecco, tra i tanti, alcuni  strafalcioni della Nostra:
1. Il terrore sarebbe gemello della globalizzazione, della quale sarebbe anche l'effetto.
2. Che il terrorista si faccia esplodere per mischiare i resti del proprio corpo con quelli degli infedeli che ha appena ucciso, è una novità assoluta. Forse la Di Cesare ignora che il 'martire' prima di diventare tale, provvede a una purificazione totale del proprio corpo per presentarsi 'puro' alle 77 vergini che lo attendono nel paradiso di Allah, altro che mischiarsi con i corpi di coloro che ha appena eliminato.
3. Non poi vero che è difficile definire il terrorista, visto chre obbedisce all'ordine islamico di conquistare quella parte del mondo che islamico non è. Tragica è invece l'attitudine occidentale di trovare giustificazioni sociali o psicologiche per spiegare gli atti criminali che i terrorsiti compiono.
4. Ridicola, se non fosse totalmente priva di senso,  la frase "..
quel sentimento di inimicizia verso l'Occidente che si andava diffondendo nel mondo islamico..." Sentimento di inimicizia?
5. Il giudizio sul "
capitalismo sfrenato" che avrebbe generato il terrorismo è anch'esso indice della superficiale inclinazione della Di Cesare, in cerca  dell'applauso delle frange più ideologizzate della politica italiana.
5. "
i poveri sono le prime vittime del terrore". Ma quando mai? L'islam che mira a conquistare il mondo fa strage di cristiani, ebrei e anche di musulmani, se serve a impadronirsi di governi e stati.
6. Non poteva mancare il pistolotto contro l'islamofobia, accusando la "
laicità di essere illuminata e progressista ",quindi priva del rispetto dovuto a una religione - l'islam - che invece vuole imporci la sharia.

Ci auguriamo che le opinioni della Nostra rimangano sue e non influenzino più di tanto i lettori del Corriere, ai quali vorremmo chiedere di scrivere al direttore Luciano Fontana o a Aldo Cazzullo, che cura la pagina delle lettere, per conoscere la loro opinione.

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Sono tre i paradigmi che prevalgono nell'interpretazione del terrorismo attuale: lo «scontro di civiltà», secondo la fortunata formula di Huntington, la lotta di classe e, più in generale, l'idea che siano le forti diseguaglianze economiche ad alimentare la violenza, infine la guerra del «sacro» che chiama in causa la religione. Tutti e tre questi paradigmi, pur contenendo giuste intuizioni, spunti fecondi, si rivelano inadeguati e offrono una visione semplificata, talvolta pericolosamente riduttiva, di un fenomeno molto complesso. Il terrorismo è strettamente connesso con la globalizzazione, di cui non è solo l'effetto, ma anche, in certo modo, il vettore trainante. Se da un canto proclama il suo «no» al pianeta unificato, dall'altro, però, fa saltare i confini, cancella i limiti, annulla le differenze: tra guerra e pace, militari e civili, emergenza e normalità. Il terrorista è un agente d'ibridazione. La macabra scena dell'autoesplosione è fortemente simbolica: deflagrando il «martire» frammenta le membra proprie e altrui, provoca un miscuglio di sangue e corpi, sino a impedire l'identificazione. Confonde, dissimula, mimetizza l'identità. Questo spiega perché sia difficile definire una volta per tutte il «terrorista», a meno di non ripiegare su una delle numerose scorciatoie che ne fanno un mostro sanguinario o uno psicopatico. Altrimenti si possono fornire diverse interpretazioni, sempre parziali e sommarie: i terroristi sono vittime della crisi economica, prove viventi del naufragio dell'integrazione, novelli erostrati in cerca di celebrità, figli di Internet e dei videogiochi, prodotti della so- cietà dello spettacolo. E l'elenco potrebbe proseguire. Nel delineare lo «scontro di civiltà», Huntington ha avuto forse il solo merito, come ha notato Appadurai, di aver colto per tempo quel sentimento di inimicizia verso l'Occidente che si andava diffondendo nel mondo islamico. Ma è inaccettabile anzitutto la sua idea monolitica e fissa di «civiltà», da cui viene espunta la storia. Come se l'Occidente — per limitarsi alla filosofia — non fosse debitore all'islam dei testi aristotelici, e come se la mistica islamica fosse immaginabile senza Platone. Nel mondo globalizzato l'immagine di due blocchi monolitici, circoscritti per di più con criteri di razza, di territorio, di religione, appare non solo errata, ma anche nociva. L'effetto immediato, quello più noto, è condannare tutto Il variegato mondo musulmano, tacciandolo di essere arcaico e antiprogressista. Più che di «scontro di civiltà» si dovrebbe parlare di una civiltà degli scontri che attraversa il pianeta e produce i focolai di una guerra a bassa intensità. A ciò ha contribuito in modo determinante il potere sfrenato del capitalismo globale che, favorendo uno sparuto gruppo di vincitori, dietro di sé ha lasciato e lascia masse di perdenti, non solo esclusi da ogni possibilità di emancipazione, ma anche profondamente umiliati. Tuttavia disagio, povertà, disoccupazione non sono cause dirette, molle che spingono immediatamente a quella scelta estrema e che potrebbero chiarirla. Né la giustizia sociale, un tempo bandiera di organizzazioni combattenti, viene oggi esplicitamente rivendicata. I poveri sono le prime vittime del terrore. A gettare l'ombra di altri interessi non è solo il ruolo ambiguo di Paesi come l'Arabia Saudita o il Kuwait. La questione è ben più complicata, se si considera l'inquietante convergenza tra flussi del capitale finanziario e terrorismo transnazionale che, favoriti dalla comune struttura reticolare, sfiorano la complicità. Basti pensare all'enorme traffico di armi. Non meno riduttivo è il terzo paradigma che interpreta il terrorismo come sinonimo di fondamentalismo, una peripezia semantica ingiustificata, che provoca ulteriori gravi slittamenti. Si può essere fondamentalisti, radicali e radicalizzati, senza per ciò essere «terroristi». Di qui a incolpare l'islam il passo è breve. L'islamofobia diventa a portata di mano. Se però si prende di mira l'islam, perché risparmiare cristianesimo ed ebraismo? Ecco che íl fronte si amplia. Viene rispolverato lo scontro di civiltà che, in una nuova versione, si presenta come il conflitto tra la laicità, illuminata e progressista, contro il «sacro», cioè la religione che, riaffiorata nello spazio pubblico, sarebbe pronta, in tutte le sue tradizioni, a un nuovo sterminismo teocratico. La «religione è guerra» — recita un primordiale stereotipo mai venuto meno. Di monoteismo in monoteismo, di testo in testo, si risale fino all'Antico Testamento, dove si immagina di rinvenire le prove di quella «teologia del terrore», causa di tutti i mali, passati, presenti e futuri. Questo paradigma, suffragato anche dal clash of monotheisms, dall'attrito fra i tre monoteismi, sembra ormai il più diffuso. Se non si può negare che la violenza jihadista abbia una matrice religiosa, d'altra parte è inaccettabile sia l'amalgama tra islam e terrore, sia la criminalizzazione dei monoteismi. Si tratta ancora una volta di un tentativo, drastico e schematico, per orientarsi nel tormentato scenario contemporaneo cercando un fronte netto, una frontiera certa, là dove invece le linee dei conflitti si intersecano, si legano, si saldano.

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