Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/04/2017, a pag. 3, con il titolo "Egiziani in cerca di soldi e alleati per la guerra all’Isis nel Sinai ", il commento di Francesca Paci.
Francesca Paci
Terroristi dello Stato Islamico nel Sinai
Quando dopo gli attentati della Domenica delle Palme il presidente egiziano al Sisi annunciò tre mesi di stato di emergenza, la creazione di un consiglio supremo contro il terrorismo e una serie di leggi per proteggere i luoghi pubblici (chiese comprese) e combattere il radicalismo, i media governativi descrissero le novità come parte della strategia illustrata a Washington una settimana prima. Durante l’incontro con Trump, al Sisi aveva spiegato il pugno di ferro imposto al Paese con l’urgenza di combattete l’Isis e i suoi derivati. E Trump, pur non concedendo lo sperato aumento rispetto agli 1,3 miliardi di dollari americani annui di aiuti militari, si era congratulato con il partner tanto inviso al suo predecessore. Quello del 9 aprile è il terzo attacco contro le chiese copte in 4 mesi, il climax di una offensiva contro i cristiani promessa dagli affiliati dello Stato Islamico nel Sinai, l’angolo buio del Paese.
Da quando al Sisi è salito al potere nel 2013, deponendo il democraticamente eletto Morsi e bandendo i Fratelli Musulmani (e poi gli altri oppositori), la penisola desertica al confine con Israele è diventata la spina nel fianco di un regime che giustifica con l’insicurezza il triste livello di repressione definito da Human Rights Watch «il peggiore della storia egiziana». Costretto alla ritirata in Siria, in Iraq e Libia, l’Isis si è rafforzato in Sinai investendo su un territorio non controllabile dal potere centrale, la volubilità delle tribù beduine e il malcontento della parte più giovane della Fratellanza per la fallimentare via politica intrapresa dalla vecchia guardia.
Sebbene ci sia in ballo anche il confine libico, per sigillare il quale l’Egitto conta sull’alleanza con il generale Haftar, al Sisi si gioca in Sinai la credibilità che a febbraio ha messo sul tavolo internazionale equiparandosi alla Francia e alla Germania nella lotta al terrorismo. È in Sinai che, secondo il Tahrir Institute for Middle East Policy, il numero di attacchi jihadisti è passato da 143 nel 2014 a 681 nel 2016.
La strategia di al Sisi parte dal basso - la promessa di 2 milioni di posti di lavoro per il Nord Sinai e la ricerca di una sponda in Al Ahzar per deradicalizzare la religione - ma punta in alto. L’Egitto attraversa una fase economica critica, con il pound svalutato e l’inflazione oltre il 30%, e ha bisogno di partner internazionali differenziati (oltre a Washington e Riad si è rivolto a Mosca). Sembra che a Washington abbia chiesto (invano) il ripristino di quanto Obama tagliò nel 2015, quel «cash-flow financing» che permetteva di comprare hardware militare a credito per 10 anni.
«L’Egitto è in prima linea nella lotta contro il male terrorista» ha ribadito al Sisi a Papa Francesco. Il nodo è come. Secondo Michel Dunne del Carnagie Endowment for International Peace la repressione fa dell’Egitto attuale «un produttore seriale di jihadisti» mentre a detta di David Shenker del Washington Institute for Arab Politics il problema è «investire nella contro-guerriglia» anziché in tanks, F16 e missili. L’alleanza con i cristiani, oltre il 10% della popolazione, è conditio sine qua non.
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