Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/04/2017, a pag. IV, con il titolo "Viaggio tra 'i cespugli' high-tech delle startup di Israele", l'analisi di Daniel Mosseri.
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Daniel Mosseri
La formula è sconosciuta, benché gli ingredienti non siano né segreti né impossibili da replicare. Il risultato è ancora unico nel suo genere: nel giro di qualche decennio Israele, un paese con poco più di sette milioni di abitanti, è diventato una startup nation, se non startup nation per antonomasia. Nel piccolo stato mediorientale l’innovazione è di casa: automobili senza pilota; occhiali che leggono volti, etichette, giornali e banconote ai non vedenti; nanoparticelle che abbattono l’utilizzo di anticrittogamici in agricoltura; applicazioni smartphone per ridurre gli incidenti stradali o per aiutare tassisti a trovare nuovi clienti. Sono tutti prodotti ai quali lavorano giovani imprenditori e scienziati israeliani uniti per fare impresa. Fra i seimila startupper l’età media è piuttosto bassa. Se un italiano di 35 anni spesso non è in condizione di lasciare la casa paterna, questi alle spalle hanno studi di alto livello, almeno tre anni di servizio militare in zone di guerra, come minimo un paio di figli e altrettanti tentativi – più o meno fruttuosi – di fondare aziende innovative. Il confronto con l’Italia è impietoso ed è forse più opportuno paragonare Israele alla Silicon Valley, che però ha alle spalle i 39 milioni di abitanti della California (e i 324 degli Stati Uniti) e non confina con paesi ostili. C’è chi attribuisce proprio al servizio militare il successo di centinaia di aziende israeliane quotate al Nasdaq o rilevate direttamente da parte di giganti esteri – a metà marzo Intel ha incorporato MobilEye (produttore dei sensori per auto driverless) per 15,3 miliardi di dollari.
C’è chi plaude alle istituzioni accademiche di alto livello, chi alla presenza di un’infrastruttura di sostegno finanziario che, fra incubatori e venture capital, favorisce la deposizione e la schiusa di tante uova con la sorpresa dentro. E c’è chi come Chemi Peres ha smesso di interrogarsi sui perché e i per come del miracolo tecnologico, dedicandosi più empiricamente a sostenerlo. Terzo figlio di Shimon Peres, classe 1958 e un passato da pilota di jet, Chemi è il cofondatore di Pitango Venture Capital, il primo fondo israeliano VC con oltre 1,8 miliardi di dollari investiti in duecento compagnie locali scaturite dall’intuizione di un accademico, dalle necessità di un addetto della difesa o da quelle di un disabile. Nel riassumere le quattro fasi storiche dell’innovazione in Israele, Chemi Peres ricorda suo padre per il modo in cui usa la gentilezza trattenendo a stento il proprio entusiasmo. “Già nei primi anni dopo la fondazione, è stato necessario innovare per ottenere raccolti da una regione arida, dove il principale fiume, il Giordano, ha più storia che acqua”. In quegli anni i tecnici israeliani hanno inventato l’irrigazione a goccia e sviluppato progetti di dissalazione, “cosic - ché oggi l’acqua non scorre più da nord a sud ma da ovest a est”. Poi è arrivata la fase in cui l’innovazione nella difesa ha permesso la deterrenza – e perciò la sopravvivenza – dello stato ebraico.
“Sono gli anni di Dimona”, spiega riferendosi alla capitale del programma nucleare così fortemente voluto da suo padre, “un progetto avanzatissimo se si pensa alla giovane età dello stato nel quale veniva sviluppato”. Questo passaggio hi-tech si è poi rivelato centrale nella fondazione dell’economia odierna.
L’importazione del mercato
Un paese circondato da nemici e privo di risorse naturali non avrebbe potuto vivere di agricoltura, “e l’intuizione di Shimon Peres è stato puntare su scienza e tecnologia”. Pungolate anche da un settore difesa mai sazio di novità, le università hanno fatto il resto sfornando ingegneri di alta qualità. Mancava però l’accesso al mercato globale, che alla fine è stato importato. “Abbiamo offerto il bene più ricercato: lavoratori qualificati, a basso costo e fedeli. Fedeli perché Israele è un’iso - la difficile da lasciare”. Dal canto loro le grandi corporation in cerca d’innovazione hanno risposto aprendo i propri centri R&D sul suolo israeliano. “Oggi ne abbiamo più di 350”, sottolinea Peres. Un po’ alla volta gli ingegneri locali hanno fatto proprio il know-how trasferito da grandi aziende come Ibm e Intel: appreso l’abc delle imprese, hanno poi imparato a diventare gli imprenditori di se stessi. La fondazione di startup tecnologiche è stato il passo successivo: creare un’azien - da per risolvere un problema è diventato un tratto caratteristico della cultura israeliana. Oggi decine di giovani appena usciti dalle università e dalle Israeli Defense Forces (Idf) si lanciano nell’imprenditoria, sostenuti da un canale di finanziamento in grado di irrorare questo ecosistema “con sei miliardi di dollari l’anno, una cifra in crescita costante”. Sulla pervasività dello spirito imprenditoriale per una volta gli israeliani si trovano tutti d’accordo. La pensa così anche Eran Shir, fondatore di Nexar, un’azienda hi-tech che punta a trasformare ogni smartphone in uno strumento di prevenzione degli incidenti stradali. “A noi non piace rispondere agli ordini”, scherza, “e l’unico modo di non obbedire a nessuno è diventare imprenditori”. Alla sua terza esperienza da creatore d’impresa, Eran non attribuisce l’esplosione dell’ecosistema startup al ruolo delle forze armate – “quell’impulso è superato da tempo”, afferma, “e tuttavia l’innovazione è anche una risposta allo stress” – ma riconosce come queste abbiano contribuito a plasmare la mentalità degli israeliani. “Nelle Idf esistono reparti in cui le menti migliori lavorano tutte insieme: è come essere in una pentola a pressione puntata su obiettivi precisi”.
Un suo commilitone, ricorda Eran, a soli 21 anni era responsabile di un progetto da 700 milioni di dollari e lui stesso era responsabile di un programma multimilionario per la difesa missilistica. “Eravamo undici ventenni con responsabilità critiche”. I legami che si formano sotto le armi, riflette, “danno poi vita a reti che fuori richiederebbero anni per essere costruite. Secondo una mia ricerca i gradi di separazione fra le persone in questo paese sono al massimo 2,6: l’ho calcolato mappando tutte le telefonate fatte in Israele in un anno”. Eran racconta anche del suo progetto di collaborazione con una grande compagnia assicuratrice italiana, interessata alla potenzialità di Nexar. “L’applicazione è in grado di ridefinire il profilo dell’autista: ieri era legato al numero degli incidenti; oggi invece siamo in grado di capire chi guida con prudenza, tenendo per esempio la distanza dal veicolo che lo precede”.
Agli autisti virtuosi individuati da Nexar, l’assicurazione intende offrire uno sconto. Vista da Israele l’Italia non è solo il paese del cibo e dello stile nel vestire bensì, “è il mercato in cui la telematica ha un penetrazione superiore al 10 per cento, la percentuale più alta al mondo”. Da noi le black boxes per individuare i veicoli e vedere come si muovono sono già una realtà e non si tratta di una moda ma della risposta a uno dei mercati assicurativi più cari in Europa.
Un computer che prende decisioni
Eran non è il solo a credere che il futuro di Israele sia nelle mani dei giovani. Per Benjamin Soffer “in Europa ci sono foreste di grandi aziende secolari e un neo ingegnere, italiano o tedesco, può sperare di essere assunto da una di queste. Da noi queste foreste mancano, ci sono però tanti piccoli cespugli”. Soffer è il ceo del Technion Technology Transfer (T3), una struttura del Technion di Haifa – tre premi Nobel per la Chimica fra il 2004 e il 2013 – dedicata a “facilitare la trasformazione delle idee innovative in prodotti e aziende di successo sul mercato globale”. Se dei giovani brillanti vogliono coltivare un cespuglio, c’è chi come Soffer lavora per portare le loro idee fuori dai laboratori. Anche Chemi Peres è convinto che il futuro sia nelle mani dei trentenni. La chiave è la liquefazione digitale e la prova è lo smartphone che abbiamo in tasca.
“Ogni telefono è anche un registratore audio e video, una calcolatrice, una torcia, un quotidiano, una rivista, una macchina fotografica e un videogioco: ma non lo è in modo molecolare bensì digitale”. Il settore delle comunicazioni è stato uno dei primi a essere “disrupted”, ossia travolto e riorganizzato dalla tempesta dell’innovazione. Basti pensare al VoIP, il protocollo per le comunicazioni vocali via internet inventato non a caso in Israele. L’onda digitale non si è fermata e punta adesso verso il settore medicale. Grazie alla digitalizzazione dei dati clinici di tutti gli israeliani una ventina di anni fa, ricercatori e informatici hanno a disposizione un’enorme banca dati nella quale far girare le loro macchine e farle diventare sempre più precise, intelligenti, pensanti. E’ quello che ha fatto Mobileye con le sue automobili capaci di destreggiarsi nel traffico da sole ed è quello che fa Ibm dai suoi laboratori di Haifa. Il nostro progetto riguarda il futuro, “inse - gnare cioè ai computer a imparare in maniera autonoma facendo propri i meccanismi cognitivi”, spiega al Foglio il direttore di Ibm Research, Oded Cohn. “Uno dei progetti che sviluppiamo qua è insegnare ai computer a prendere decisioni”. Domani saranno delle macchine ad aiutarci a scegliere se acquisire quell’azien - da, se prendere quel medicinale o se scegliere quella scuola per i nostri figli. Distratti dai nostri telefonini, non ci siamo accorti che il futuro era già arrivato. Per Chemi Peres il cambiamento è epocale e ci stiamo avviando verso un’èra in cui i governi avranno sempre meno potere, mentre i ceo aziendali ne avranno sempre di più.
“Perché le soluzioni a problemi come cambiamento climatico e migrazioni non arriveranno dalle istituzioni ma dalla spinta delle imprese per l’innovazione”. Nel frattempo la digitalizzazione non si ferma e travolge oggi anche finanza e assicurazioni, altri due settori destinati a essere dominati dai trentenni. “Ogni banca”, osserva Peres, “si sta trasformando in un’azienda digitale con il suo cloud e le sue questioni di sicurezza”. Pane per i denti dei neo ingegneri e informatici israeliani. “Tutto è ormai hi-tech”, conclude, “e chi sa cavalcare meglio l’onda sono i giovani”.
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