Riprendiamo da LIBERO di oggi, 23/04/2017, a pag. 24, con il titolo "La più grande bufala? La scrittura creativa", l'intervista di Alvise Losi a Abraham B. Yehoshua.
Abraham B. Yehoshua
Abraham Yehoshua è un signore di 80 anni dall'aria simpatica e che ama conversare, molto lontano dall'immagine che alcuni scrittori della sua fama possono costruirsi nell'arco di una carriera tanto lunga e di successo. A 40 anni esatti dalla pubblicazione del suo primo romanzo L'amante, lo abbiamo incontrato a Tempo di Libri, dove ha parlato del suo ultimo libro La comparsa (12,50 euro, 260 pp, Einaudi, 2015).
Signor Yehoshua, come è cambiato il suo modo di lavorare rispetto a 40 anni fa? «Quando ero giovane per mantenere la mia famiglia non potevo basarmi solo sulla mia ispirazione letteraria e avevo un altro lavoro, quindi decisi che avrei scritto solo ciò che avessi davvero voluto e soprattutto che avrei voluto scrivere bene. Poi iniziare a lavorare in università mi consentì di avere più tempo per scrivere ma anche di non sentirmi mai costretto a scrivere per guadagnare. Anche se in questa professione non abbiamo pensione, quindi persino ora a 80 anni non posso smettere di scrivere (ridacchia, ndr)».
L'ultimo romanzo di A.B. Yehoshua (Einaudi ed.)
Lei si prende parecchi anni tra un libro e il successivo, mentre altri scrittori ogni anno pubblicano qualcosa. «Ci sono due tipi di scrittori: quelli che hanno un mondo da esplorare dentro cui poi ambientano le loro storie e quelli che invece lavorano su soggetti ogni volta diversi. Io appartengo al secondo tipo. Ecco perché ogni volta per me è una sfida fare ricerca per ambientare le mie storie: il protagonista del mio prossimo romanzo sarà un ingegnere che costruisce strade».
Come docente universitario il contatto con nuove generazioni di studenti l'ha aiutata nel processo creativo? «A dire il vero non sono mai stato un professore guru, anzi ho sempre cercato di mantenere un rapporto non dico distaccato, ma di certo non intimo con gli studenti. E poi ho sempre evitato di insegnare la cosiddetta scrittura creativa che adesso va tanto di moda. Non ci credo molto, ma non posso dirlo ad alta voce perché molti giovani scrittori stanno avendo molto successo proprio grazie a essa. Le nuove generazioni preferiscono scrivere che leggere».
E chi legge i libri oggi? «Questa è la vera domanda. Ormai pubblicare un libro costa sempre meno e si stanno perdendo i criteri di selezione e giudizio del lavoro. Su Internet o Facebook chiunque può scrivere una recensione. Mentre una volta aspettavamo con tensione i grandi critici, come Pietro Citati, che avrebbero scritto i loro articoli per valutare il nostro lavoro. E l'Italia è uno dei luoghi in cui la letteratura israeliana è stata più apprezzata».
Legge autori italiani? «Ho cominciato tre settimane fa a leggere Elena Ferrante su suggerimento del mio editore. So che sta vendendo molto in tutto il mondo. Preferisco non giudicare, anche se devo dire che ha una scrittura molto facile, ha molta immaginazione e riesce a giocare come vuole con i personaggi».
Quanto è importante la religione nel suo lavoro? «La religione ebraica è stata il centro della nostra identità per gli ultimi duemila anni: senza un territorio e un'unica lingua era il solo collante. Io non sono religioso, sono ateo, ma cresciuto in famiglia moderatamente religiosa e per la mia storia, a differenza di alcuni amici di sinistra che arrivano da famiglie assolutamente non religiose, non posso limitarmi a odiare la destra religiosa. Devo provare a capirla».
Quanto ha contribuito alla sua opera vivere in un Paese in perenne conflitto? «Mi ha aiutato ad andare a fondo e approfondire i temi cruciali dell'ebraismo, come l'Olocausto, che per noi è stato un terribile fallimento perché non ci si può limitare ad accusare i tedeschi ma bisogna capire le origini dell'antisemitismo, o il Sionismo, che è stata una grande rivoluzione e ho provato a capirla e proteggerla perché credo sia stata una normalizzazione per gli ebrei. Con la letteratura però è diverso: in un romanzo devi avere profondità maggiore e i miei protagonisti non sono mai soli, ma sempre connessi alla società e quindi anche alla situazione in Israele».
La guerra in Siria riguarda Israele da vicino. Crede che con Donald Trump si risolverà? «La responsabilità del caos nel mondo arabo è degli Stati Uniti, perché la guerra in Iraq nel 2003 ha distrutto gli equilibri in Medioriente. Come israeliani possiamo credere che questo caos ci tuteli perché non dobbiamo più combattere, ma mi preoccupa l'influenza che ha avuto sul nostro rapporto con i territori palestinesi: la nostra è un'occupazione di 50 anni e per ora sempre più. A differenza del colonialismo, è qualcosa che accade accanto alle nostre case, un cancro nella democrazia israeliana».
È ancora favorevole alla soluzione dei due Stati? «L'ho sostenuta per 50 anni, ma da qualche mese ho iniziato a pensare che non sia più attuabile proprio a causa degli insediamenti dei coloni. Ora sto riflettendo su come sia possibile creare un unico Stato con due nazionalità. Sono sempre stato di sinistra, ma devo dire ai miei amici di sinistra che dobbiamo pensare a nuove soluzioni che non siano i due Stati. Dobbiamo essere capaci di cambiare, perché è proprio il cambiamento che differenzia la sinistra dalla destra. Se oggi dagli Stati Uniti all'Europa sta vincendo la destra non possiamo semplicemente credere che le persone siano diventate pazze».
Lei ha vissuto in Francia, cosa pensa accadrà alle elezioni presidenziali di oggi? «Non ne ho idea: già non pensavo che Trump avrebbe vinto. Il punto però è che la sinistra non può limitarsi a dire che Marine Le Pen è terribile, ma deve capire i problemi delle persone e provare a dare delle risposte di sinistra. Dobbiamo iniziare a pensare secondo nuovi canoni».
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