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La Stampa Rassegna Stampa
23.04.2017 Ong, scafisti e criminali libici: come funziona il traffico umano nel Mediterraneo
Editoriale di Maurizio Molinari, commento di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 23 aprile 2017
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari - Francesca Paci
Titolo: «La sfida dei clan agli Stati - Le sigle sotto accusa: 'Salviamo vite umane'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/04/2017, a pag. 1, con il titolo "La sfida dei clan agli Stati", l'editoriale di Maurizio Molinari; a pag. 3, con il titolo "Le sigle sotto accusa: 'Salviamo vite umane' ", il commento di Francesca Paci.f

E' ormai comprovato l'appoggio fornito da alcune Ong al traffico umano di cui sono responsabili gli scafisti nel Mediterraneo. Sarebbe ora di cominciare a prendere provvedimenti verso chi collabora con la criminalità.

Ecco gli articoli:

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Migranti in arrivo in Italia

Maurizio Molinari: "La sfida dei clan agli Stati"

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Maurizio Molinari

Le indagini della Procura di Catania su possibili legami fra i network criminali ed alcune organizzazioni non governative (ong) aggiungono un tassello di valore strategico allo scontro in atto fra clan e Stati sovrani per il controllo delle acque nel Mediterraneo.

Accertare l’eventualità che i clan adoperino un numero limitato di ong come una sorta di «Cavalli di Troia» per penetrare le rotte è nell’interesse del nostro Paese e rientra nella definizione di una nuova dottrina di sicurezza capace di fronteggiare i pericoli generati dalla decomposizione degli Stati arabo-musulmani. Il nemico da cui dobbiamo proteggerci sono i network criminali che gestiscono il traffico di esseri umani, alleandosi con clan, tribù e milizie di ogni genere. Si tratta di un avversario spietato, dotato di ingenti risorse finanziarie ed umane, capace di gestire complesse operazioni logistiche, abile nel far fruttare le rotte per i disperati attraverso il Sahara ed ora intento a costruirsi una sorta di ponte sul Mediterraneo per facilitare il loro arrivo sulle nostre coste, ovvero in Europa.

I finanziamenti ad alcune ong al centro delle indagini sarebbero finalizzati a far salvare - consapevolmente o meno - dalle loro unità i profughi in arrivo sui barconi salpati dalle coste libiche. Con questo espediente il crimine organizzato punta ad assicurarsi il controllo dell’ultimo miglio di percorso verso il territorio europeo. Se un trafficante, salpando dalla Libia con un barcone di migranti, telefona ad una ong facendo sapere in che direzione navigherà si può assicurare che vadano a prendere il suo carico in mezzo al mare. È un metodo, cinico e spregiudicato, per sfruttare a proprio vantaggio la legge del mare sull’obbligo umanitario al salvataggio di chi si trova in pericolo di vita. Tutto ciò svela l’esistenza di un disegno dei clan che ha tre aspetti convergenti. Primo: conferma la loro capacità di sfruttare a proprio favore le vulnerabilità dei sistemi democratici. Secondo: si propone di moltiplicare gli arrivi di migranti nel nostro Paese in tempi rapidi. Terzo: è destinato a generare flussi imponenti di proventi illeciti destinati ad alimentare ogni sorta di attività criminali, jihadismo incluso, che minacciano più nazioni. Davanti a tale scenario l’interesse italiano è tutelare i propri cittadini, accogliere i migranti e combattere i criminali privandoli anche dell’accesso alle ong. Ciò significa far coesistere i valori dell’accoglienza e della solidarietà, fondamento dell’integrazione dei rifugiati, con il più rigido rispetto della legge contro pirati e trafficanti. In ultima analisi il braccio di ferro in atto fra il nostro Paese e i trafficanti di uomini è un tassello del più ampio scontro sui nuovi equilibri di forze nel Mediterraneo, dove la contesa è fra Stati nazionali e gruppi criminali. Questi ultimi, che già controllano ampi spazi di territorio nel Nordafrica, puntano ad estendere il loro potere su alcune rotte marittime per avere dei corridoi di penetrazione verso l’Europa continentale «bucando» le difese nazionali. Se dovessero riuscire nell’intento verrebbe indebolita la sovranità dei Paesi Ue - a cominciare dall’Italia - negli spazi marittimi centrando un obiettivo che i pirati del Maghreb perseguono dalla fine del Settecento, quando scorribande, sequestri e violenze diventarono di entità tale da spingere, nel 1801, il presidente americano Thomas Jefferson ad allearsi con la Svezia ed il Regno delle Due Sicilie facendo sbarcare i Marines sulle spiagge di Tripoli per garantire la sicurezza delle rotte dai pirati libici, algerini e tunisini. Allora come oggi, la posta in gioco è la stabilità del Mediterraneo che i clan vogliono sconvolgere e gli Stati tentano di proteggere.

Francesca Paci: "Le sigle sotto accusa: 'Salviamo vite umane' "

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Francesca Paci

Chi c’è dietro i «taxi del Mediterraneo», come vengono definite alcune Organizzazioni non governative impegnate nel salvataggio dei migranti? C’è «Proactiva Open Arms» per esempio, ci dice al telefono da Barcellona la portavoce di questa giovane sigla spagnola, Laura Lanuza: «Siamo un piccola Ong nata un anno e mezzo fa a Lesbo, in Grecia. Quando la rotta balcanica è stata chiusa abbiano lasciato un presidio lì e ci siamo spostati dove c’era bisogno di aiuto. Insieme alle altre organizzazioni svolgiamo il ruolo che era di Mare Nostrum, non siamo noi a spingerci avanti ma sono Frontex e l’Europa a tirarsi indietro». E i soldi? Il j’accuse obietta una certa opacità nella raccolta fondi, che pure nel caso di Medici senza Frontiere, Save the Children e Moas vede tra i donors nomi come quello del filantropo George Soros, bestia nera del premier ungherese Viktor Orban. Laura risponde come hanno fatto nei giorni scorsi i colleghi tedeschi e olandesi durante le audizioni al Senato: «Ci finanziano i privati, al momento abbiamo oltre 15 mila donatori, siamo un gruppo ristretto, quasi tutti i 16 membri del nostro equipaggio sono volontari».
La «Proactiva Open Arms» è una delle nove Ong messe all’indice dall’agenzia europea Frontex. Dispone di un ex peschereccio da circa 300 posti, la Golfo Azzurro, che al momento è in revisione in Spagna e tornerà in acqua nel giro di una settimana. In quello che la legge del mare chiama «Sar zone» (Search and Rescue), un enorme quadrante a ridosso delle acque internazionali tra Italia e Libia, una decina di imbarcazioni si tengono pronte a fare quanto dopo Mare Nostrum hanno fatto per un po’ di tempo i natanti commerciali: rispondere alla chiamata della Guardia costiera italiana e soccorrere i naufraghi abbandonati tra le onde.

«Non riceviamo direttamente le telefonate come avveniva a volte in passato, ci chiama la Guardia costiera, coordina in maniera lodevole i nostri spostamenti a seconda della capienza dell’imbarcazione e ci indirizza al porto d’accoglienza» continua Laura Lanuza. Altri, come i veterani di Medici senza Frontiere che operano sulla Prudence e sulla Aquarius di proprietà della Ong italo-franco-tedesca Sos Mediterranée, portano come prova dell’impegno nel Canale di Sicilia il lavoro decennale svolto nei Paesi da cui parte chi sogna di arrivare in Europa: «Ci accusano in modo cinico e strumentale invece di sollevare il vergognoso fallimento delle istituzioni e delle politiche che non sono state in grado di fermare questo massacro nel Mediterraneo».

A muoversi nella «Sar zone» ci sono sigle notissime e altre meno note come Sea Watch Foundation, Life Boat, Sea-Eye, Jugend Rettet e la maltese Moas. Su queste ultime in particolare si appuntano i sospetti di un più o meno volontario coordinamento con scafisti e trafficanti d’uomini. Loro, tutti, non rispondono negando esplicitamente gli interventi straordinari oltre il confine delle acque internazionali (già dai tempi di Mare Nostrum, si fa ma non si dice) ma citando i dati: «Nel 2016 ci sono stati 25 mila sbarchi e quasi 900 morti, adesso siamo a 35 mila soccorsi e lo stesso numero di vittime. Vuol dire che serviamo».
La forza dei numeri è l’argomentazione utilizzata anche da Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni: «La presenza delle Ong è utilissima, senza di loro ci sarebbero più morti. Dei 35 mila migranti arrivati in Italia circa 13 mila sono stati salvati dalle Ong, 9700 dalla Guardia Costiera e il resto da Triton e altri interventi».

È possibile che qualcosa o qualcuno sfugga a questa logica? Che organizzazioni minori siano meno impermeabili a infiltrazioni interessate al business? I volontari ammettono che può esserci un po’ di confusione, che le sigle più giovani possano strafare in termini di battage sui social network finendo o per confondere le informazioni o per tenere aggiornatissimi i trafficanti sui movimenti delle imbarcazioni, che il bisogno di farsi pubblicità per incoraggiare i donatori possa portare a sovraesposizioni mediatiche tipo la denuncia di presunti naufragi in realtà mai avvenuti. Il resto viene liquidato come «cinica speculazione».

«Se dovessero emergere le prove di un rapporto tra traffico di migranti e business criminale dell’accoglienza saremmo i primi a reagire, ma fino a quel momento dobbiamo solo essere grati alle Ong che si sono inventate un ruolo nel Mediterraneo e rispondono sì alle chiamate ma delle vittime e non dei carnefici» osserva il direttore generale di Amnesty International Italia, Gianni Rufini.

La domanda a chi conviene la storia dei «taxi del Mediterraneo» trova molte risposte differenti. Quella delle Ong è un invito diffuso ad andare a verificare sul campo: «Frontex ci vuole mandar via perché portiamo a bordo i giornalisti e salviamo tante vite, tra Mare Nostrum e noi c’è stato un vuoto di informazioni per cui non si sapeva più nulla. Chi non si fida salga a bordo e verifichi».

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