Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 10/04/2017, due servizi di Paolo Rodari (a pag.2 l'intervista a Philip Jenkins) e l'analisi di Jason Burke a pag.5). Dopo la strage al Cairo, il tema controverso della 'guerra di religione' e una valutazione superficiale del terrorismo islamico.
Paolo Rodari:" Questa è una guerra di religione, vogliono spazzarli via,come in Iraq"
Philips Jenkins
Philip Jenkins sarà anche "uno dei più grandi studiosi di cristianesimo contemporaneo oggi ", come lo presenta Rodari, ma identificare il terrorimo islamico soltanto nella guerra di religione è un errore che tutti pagheremo caro, non solo i cristiani, che sono oggi la preda più facile, privi come sono di protezione, sia dai paesi cristiani che dal Vaticano, dove il Papa si scaglia contro le armi, evitando ogni riferimento a chi le usa in nome dell'islam,
una 'religione di pace' come non si stanca di ripetere Papa Bergoglio.
I terroristi sanno che ogni tentativo di sterminio in Israele lo pagherebbero molto caro, per questo hanno anticipato la'domenica' al 'sabato'. Fare stragi di cristiani è facile, l'Occidente sta iniziando soltanto ora a usare la mano pesante contro il terrorismo, ci riferiamo all'America, non ai paesi europei, che credono ancora nei sogni dell'integrazione e del multiculturalismo, ovvero la barbarie dell'islam a braccetto con la democrazia.
Ecco l'intervista:
"Non credo che questi attentati siano direttamente connessi con la visita del Papa di fine aprile. Piuttosto, credo nascano da divisioni presenti da tanto tempo in Egitto a seguito del rovesciamento del governo dei Fratelli Musulmani avvenuto nel 2013».
Così Philip Jenkins, uno dei più grandi studiosi di cristianesimo contemporaneo oggi, recente autore per l'Editrice Missionaria Italiana de "La storia perduta del cristianesimo", libro tradotto in più lingue.
Cosa vogliono gli attentatori?
«Mirano a creare una rivoluzione; e attaccando le chiese copte ad avere molti vantaggi per sé. L'obiettivo degli islamisti è quello di distruggere la comunità copta, proprio come è avvenuto con i cristiani in Iraq. Ciò significa far andare via, o uccidere, circa otto milioni di credenti cristiani».
Perché agiscono proprio ora?
«Nel 2013 scrissi circa l'imminente aumento di guerriglieri islamisti in Egitto: il primo segno della loro presenza sarebbe stato un aumento di attentati suicidi. Data la forza dei militari egiziani, e le loro reti di intelligence, questi attacchi si sarebbero diretti verso bersagli facili, in luoghi mal difesi, con l'obiettivo di uccidere il massimo numero di civili. I turisti occidentali sarebbero stati certamente degli obiettivi. Ma poi sarebbero scelte le Chiese cristiane copte e le loro comunità in tutto il Paese. Questi attacchi avrebbero diviso l'Egitto lungo linee religiose e settarie. E avrebbero messo le forze di sicurezza egiziane di fronte a un dilemma terribile: come reprimere il terrorismo sanguinario senza sembrare di stare troppo dalla parte dei cristiani e contro i musulmani? Tutto ciò è oggi più che mai vero».
Francesco è una minaccia per gli islamisti?
«I campi di battaglia strategici del conflitto religioso si trovano nel sud del paese, nell'Alto Egitto. Non credo che Francesco sia una minaccia per gli islamisti. Tuttavia, lo vedono come un simbolo di propaganda prezioso per le idee "crociate" occidentali. Quando lui arriverà in Egitto, saranno certamente lanciati attacchi contro altre Chiese cristiane, in Egitto come in altre parti del Medio Oriente, e probabilmente anche in Europa. Sarà un momento molto pericoloso».
Come fermare le violenze?
«Difficile rispondere. Il grande pericolo per i cristiani nel Paese è che, aggrappandosi al governo per essere protetti, siano identificati con esso. E quando questo governo cadrà i cristiani saranno incolpati e subiranno altre persecuzioni. Forse ciò potrebbe segnare l'inizio della fine dell'antica comunità cristiana copta».
Gli attacchi hanno motivazioni soltanto religiose?
«Naturalmente sì. Si tratta di una guerra di religione».
Jason Burke: " Destabilizzare l'Egitto, un obiettivo per l'Isis. La sfida dei jihadisti tornati dalla guerra"
Jason Burke
Anche Jason Burke è un esperto di terrorismo internazionale, così lo introduce Repubblica. Da Wikipadia apprendiamo che è stato corrispondente politico del Guardian e che ha ricevuto lodi sperticate per il suo lavoro da Noam Chomsky, due referenze che fanno dubitare assai della sua capacità di di valutare il reale stato di pericolo del terrorismo. Il suo resoconto, per quanto letto benevolmente, non è niente di più di un riassunto, fin troppo assolutorio nei confronti dei Fratelli Musulmani.
Affermare che gli egiziani non sono estranei alla violenza islamica vorrebbe dire minimizzare. Cinquanta anni fa il Paese è stato il crogiolo della militanza islamica contemporanea. Se negli ultimi venti ha sofferto meno di altri paesi mediorientali, nessuno ha mai pensato che il problema fosse scomparso del tutto. Gli attentati di ieri sono opera dello Stato Islamico, gruppo con origini in Iraq ma trapiantato in tutto il mondo musulmano - Egitto incluso. Gli attentati non dimostrano necessariamente che lo Stato Islamico sta vincendo la sua campagna di violenza contro le autorità e la comunità egiziane, ma portano alla ribalta l'enorme entità della minaccia che il gruppo rappresenta. Nel corso della Storia, in Egitto si sono susseguite varie ondate di militanza islamista e ciascuna di esse ha lasciato profonde cicatrici. L'ondata più recente di attentati ha avuto origine dalla Penisola del Sinai in seguito alla deposizione nel 2011 di Hosni Mubarak.
Da tempo rancori e malcontento contro il potere al Cairo, una storia decennale di ribellione e una più recente esplosione della violenza islamista hanno preparato un fertile terreno per i reclutatori e gli aspiranti leader estremisti.
La violenza si è inasprita dopo che nel 2013 Abdel Fatah al-Sisi ha destituito il presidente Mohammed Morsi appartenente ai Fratelli Musulmani. All'inizio del 2014 lo Stato Islamico ha iniziato a prendere contatti con le fazioni locali nel Sinai, riuscendo a stringere alleanze che alla fine di quell'anno hanno portato alla costituzione della neo-proclamata "Provincia del Sinai" dello Stato Islamico.
Benché presa di mira da una feroce campagna delle forze armate egiziane, la "Provincia del Sinai" ha riscosso alcuni successi. Se non altro, è sopravvissuta. La sua operazione più spettacolare senza dubbio è stata l'abbattimento l'anno scorso di un aereo di linea che portava a casa i turisti russi dal Mar Rosso. Tuttavia, il suo impegno più evidente è quello diretto al cuore stesso dell'Egitto, con attentati mirati nelle città più importanti, con omicidi di funzionari ed esponenti di alto grado e, in particolare, con il terrore seminato nell'antica minoranza copta della nazione.
A dicembre il gruppo ha rivendicato la responsabilità dell'attentato nella cattedrale copta del Cairo che ha provocato la morte di oltre 25 persone, mentre gli attentati di ieri sono stati perpetrati al termine di varie settimane di violenze contro i cristiani nella Penisola del Sinai stessa che hanno costretto centinaia di persone ad abbandonare le loro case. Questo nuovo attentato sembra motivato da un insieme di finalità globali e locali. Quasi certamente è stato perpetrato nella Domenica delle Palme per riscuotere la massima attenzione possibile da parte dei media internazionali.
Un altro obiettivo potrebbe essere quello di dimostrare a tutto il mondo che lo Stato Islamico non è finito, malgrado la sua ininterrotta ritirata dalle roccaforti in Siria e in Iraq. Gli attentati sono stati rivendicati subito dal gruppo, e le parole utilizzate indicano che i comandanti supremi dell'organizzazione erano a conoscenza dell'operazione.
Gli attentatori sono stati definiti membri di una cellula segreta": questa volta non è stata usata la formula soldati del Califfato", come avviene di solito quando si vuole definire un attentato ispirato" dall'organizzazione. Gli attentati dell'Isis degli ultimi giorni - in Russia, in Svezia e ora in Egitto - evidenziano come il costante declino dello Stato Islamico in Iraq e in Siria quasi certamente porterà a un'impennata di attentati sul breve periodo in Medio Oriente e in Occidente.
C'è un precedente storico da segnalare a questo proposito: alla fine del 2001, quando fuggirono dalle loro basi in Afghanistan in seguito all'invasione guidata dagli Stati Uniti, i cervelli di al-Qaeda incaricarono i loro affiliati di compiere attentati in tutto il mondo. Ne risultò un'ondata di violenza per tutto il 2002 e il 2003. Adesso lo Stato Islamico farà qualcosa di simile e buona parte delle sue azioni saranno mirate a destabilizzare i paesi vicini. Proprio come l'Egitto.
Questo picco di violenza finirà, probabilmente, ma non prima di aver provocato molte morti. C'è poi la diaspora dei combattenti che verrà a crearsi quando il Califfato crollerà. Anche se al-Baghdadi e i suoi collaboratori si nasconderanno in Iraq, alcuni militanti dello Stato Islamico faranno il possibile per raggiungere altre zone nelle quali sono ancora in corso violenze, per esempio la Libia, il deserto del Sinai, il Sahel, lo Yemen, l'Afghanistan e altri Paesi ancora.
Anche in questo caso ci sono dei precedenti: alla fine degli anni Ottanta e nei primi Novanta, un gruppo di veterani che avevano combattuto contro i sovietici in Afghanistan inasprì i conflitti in Algeria, Yemen, Caucaso, Indonesia, Africa orientale, Balcani, ed Egitto. Si calcola che gli egiziani che si sono spinti fino alle terre del Califfato siano tra i 600 e i 1200. Alcuni sono sopravvissuti. Alcuni torneranno in Egitto.
Perfino i non-combattenti possono diventare una minaccia: Abu Musab al-Zargawi, il fondatore del gruppo, diventato poi lo Stato Islamico, non combatté direttamente contro i sovietici in Afghanistan, limitandosi a pubblicare articoli di impronta jihadista nel vicino Pakistan ben dopo che le truppe di Mosca erano ripiegate in patria.
Al-Zarqawi in seguito è tornato in Giordania per lanciare un fallito complotto. Adesso, molti dei tantissimi stranieri che hanno combattuto al fianco dello Stato Islamico si sparpaglieranno nel mondo islamico. Altri "foreign fighters" arriveranno da diversi territori ora sotto pressione.
Lo Stato Islamico ha perso le sue roccaforti chiave in Libia. Durante i combattimenti a Sirte all'inizio di quest'anno, i combattenti locali hanno detto di essere così vicini ai loro nemici da riuscire a distinguere chiaramente il loro accento egiziano.
Benché da sondaggi del 2014 sia emerso che soltanto un esiguo tre per cento della popolazione egiziana guarda favorevolmente all'Isis, l'Egitto di certo è afflitto da tutte le piaghe che favoriscono il reclutamento di nuovi estremisti e la violenza estremista. Si calcola che la disoccupazione giovanile sia superiore al 40%. C'è un problema legato agli alloggi, che impedisce a molti giovani di mettere su famiglia. La libertà di espressione e associazione sono limitate. Un tempo i servizi di sicurezza egiziani erano noti per la loro brutalità ed efficienza. Oggi sono noti soltanto per la loro ferocia.
Ieri pomeriggio al-Sisi ha ordinato alle truppe e alle forze speciali di proteggere i luoghi più importanti e vulnerabili del Paese. Ciò è tanto verosimilmente inutile per risolvere il problema nelle città quanto la possente campagna nel Sinai è inverosimilmente utile a portare la pace nel deserto.
Una delle grandi incognite è l'evoluzione in futuro dei Fratelli Musulmani, il cui primo ramo fu fondato in Egitto nel 1928. Essa ha sistematicamente avallato il ricorso alla violenza, ma per lo più ha perseguito il potere, cercando di esercitare la sua influenza con l'attivismo sociale e il richiamo alle urne. Questa è una delle ragioni per le quali Ayman al'Zawahiri, l'ex pediatra egiziano che oggi guida al-Qaeda, non ha mai smesso di attaccare l'organizzazione.
In seguito alla deposizione di Morsi nel 2013, al-Sisi ha dato il via a una repressione che ha preso di mira i Fratelli Musulmani e altri oppositori. Da allora sono state incarcerate decine di migliaia di persone, centinaia sono state uccise. Il fallito tentativo di mantenere il potere ed esercitare la repressione ha provocato spaccature all'interno della Fratellanza: i membri più anziani, che cercano ancora di trovare compromessi con i regimi della regione, contro i giovani, che cercano alternative alla strategia dei più anziani.
Tutto ciò assume grande importanza in Egitto, dove i Fratelli Musulmani hanno una massa considerevole di seguaci. Nel corso degli ultimi dodici mesi c'è stata un'impennata delle reti violente estremiste non affiliate e non collegate né allo Stato Islamico né ad al-Qaeda. Alcuni analisti credono che queste reti siano collegate o ai Fratelli Musulmani o a persone che appoggiano la Fratellanza.
La militanza islamica in Egitto risale agli anni Cinquanta e Sessanta, quando alcuni elementi dei Fratelli Musulmani si dettero alla violenza sotto la guida di Gamal Ab el-Nasser. Altri gruppi distaccati innescarono violenze per tutti gli anni Settanta e Ottanta. Anche se fosse soltanto una minoranza della nuova generazione di Fratelli Musulmani a perpetrare attentati e impegnarsi nei combattimenti, da adesso in poi il futuro dell'Egitto sarà sanguinoso. (Traduzione di Anna Bissanti)
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