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Il Giornale-Corriere della Sera Rassegna Stampa
10.04.2017 Non è soltanto guerra di religione: il pericolo è a 360 gradi
Commenti di Gian Micalessin, Pierluigi Battista

Testata:Il Giornale-Corriere della Sera
Autore: Gian Micalessin-Pierluigi Battista
Titolo: «La complicità dell'Occidente indifferente con i fratelli copti-La guerra di religione che stiamo vivendo»

Riprendiamo dal GIORNALE (a pag.5) e dal CORRIERE della SERA (a pag.31) di oggi, 10/04/2017, due commenti sull'attentato nella chiesa copta del Cairo.
Definire 'guerra di religione' quella in corso non è però sufficiente per comprendere il pericolo globale rappresentato dall'islam.  E' vero che, attraverso la sharia, si propone la sottomissione mondiale alle sue barbare usanze, ma ritenere che di mezzo ci sia solo la religione impedisce, a noi che viviamo nei paesi laici e perciò democratici, di valutare che non è soltanto questione di predominio di una fede sulle altre, la guerra abbiamo di fronte è politica. Ed è ciò che l'Occidente sta cominciado a capire da quando alla Casa Bianca c'è Donald Trump. Altro che 'attacco fake' alla Siria, come scrive qualcuno stamattina, dimenticando le navi da guerra americane e il loro significato politico. Per la Siria e la Corea del Nord. Con l'Iran per ora solo parole, ma il loro senso è chiaro.

Il Giornale-Gian Micalessin:" La complicità dell'Occidente indifferente con i fratelli copti"

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Gian Micalessin

Potremmo parafrasare Joseph Conrad e scrivere «sotto gli occhi dell'Occidente». Ma non sarebbe abbastanza. La doppia strage della domenica delle Palme in Egitto, i 45 cristiani copti straziati dalle bombe dell'Isis nella chiesa di San Giorgio a Tanta e nella cattedrale di San Marco ad Alessandria, non va semplicemente derubricata alla voce indifferenza. Quei morti, quei fratelli di cui ci ricordiamo esclusivamente quando sono ormai pezzi di carne dilaniata, non sono soltanto la cartina di tornasole della nostra apatia. Sono anche il presagio del nostro destino. Oggi qualsiasi copto, qualsiasi cristiano iracheno o siriano potrebbe dirci: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi». La gran parte dei cristiani europei non identificherebbe in quella frase il passo del Vangelo di San Giovanni, ma riconoscerebbe la stoltezza di un'Europa e di un Occidente intenti a perpetrare il proprio suicidio. Un suicidio perseguito con lente, ma inesorabili tappe. Una, assai recente, è il generale plauso garantito alla decisione di Donald Trump di bombardare Bashar Assad. Quell'atto e il consenso con cui è stato accolto, nonostante la totale mancanza di prove in grado d'incastrare dittatore siriano, sono la migliore conferma dell'autolesionismo con cui ci prepariamo a subire supinamente la sorte dei fratelli cristiani d'Egitto e Medioriente. Con quel plauso dimostriamo di  tener in maggior conto la parola di Jabhat Al Nusra, costola siriana di Al Qaida che non quella dei cristiani di Siria ormai stufi di spiegarci - dopo sei anni di persecuzioni - perché Bashar Assad rappresenti l'ultima diga di fronte all'egemonia del terrore jihadista. Un'ottusità sottolineata con drammatica sincronia dalla strage jihadista nel cuore di una Stoccolma da sempre solerte nel garantire benessere e accoglienza ai più incalliti estremisti islamici. E anche l'atteggiamento dell'Europa nei confronti dei copti egiziani rientra perfettamente in questa dinamica autodistruttiva. Un'Europa che durante le primavere arabe scelse d'interpretare come sinceri aneliti di libertà le mosse di una Fratellanza Musulmana pronta a trascinare l'Egitto verso l'oscurantismo della sharia. Un'Europa che non degnò della minima attenzione gli esponenti copti che c'invitavano a guardare dietro quell'ipocrisia di facciata. Analogamente nel 2013 non abbiamo perso tempo nel liquidare come un nuovo dittatore quel generale Sisi ricorso a un colpo di stato accompagnato da un larghissimo consenso popolare per sottrarre l'Egitto alla Fratellanza Musulmana. Non paghi degli errori del passato nei mesi scorsi abbiamo assistito con annoiata noncuranza al susseguirsi di omicidi di fedeli copti rivendicati dall'Isis nella penisola del Sinai. Per settimane nella città di Al Arish e dintorni sono stati ritrovati i cadaveri carbonizzati, mutilati e massacrati di cittadini cristiani colpevoli soltanto di professare la propria fede. Minacciate da quello stillicidio di morte centinaia di famiglie cristiane si sono ritrovate costrette ad abbandonare un Sinai conosciuto, prima delle Primavere Arabe, come un'oasi di pace e tranquillità e convivenza.
Oggi, però, è tardi per lamentarsi. Le bombe di ieri come quelle che a dicembre fecero strage nella chiesetta adiacente la Cattedrale Copta di San Marco al Cairo sono la dimostrazione di una verità ormai consolidata. L'Egitto come la Siria, come l'Irak non sono più Paesi per cristiani.
Grazie all'indifferenza e agli errori dell'Occidente e dell'Europa sono diventati terre dove portare la croce e pregare il nostro stesso Dio equivale a rischiare la vita. Ma questa verità, tanto tragica quanto evidente, non sembra eppure scalfire i cuori europei. Impegnati a garantire accoglienza indiscriminata a chiunque bussi alle nostre porte non siamo più in grado di riconoscere, apprezzare e aiutare quei fratelli cristiani che professano la nostra stessa fede, credono nei nostri stessi valori e cercano protezione dai nostri stessi nemici. Prigionieri della nostra noncuranza abbiamo dimenticato il millenario avvertimento custodito nel Vangelo. «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi».

Corriere della Sera-Pierluigi Battista: "La guerra di religione che stiamo vivendo"

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Pierluigi Battista

Ma come, dicono stupefatti dopo l'attentato di Stoccolma, perché colpiscono la Svezia con quel modello di integrazione avanzata, quel Welfare che funziona, con un grado di benessere sociale che dovrebbe attutire ogni pulsione violenta? E certo, ci si stupisce perché davvero non si riesce a uscire dal rassicurante ritornello secondo cui «la religione non c'entra» (non c'entra nemmeno in Egitto, dove fanno strage nelle chiese copte nella Domenica delle Palme?), come se il terrore jihadista fosse riconducibile alle categorie più note e collaudate, come se fosse un prolungamento in versione ventunesimo secolo della lotta di classe, una protesta contro la diseguaglianza che solo per una trascurabile differenza ha scelto di usare come suo manuale ideologico il Corano anziché un testo di Lenin. Come se non riuscissimo a liberarci dalla prigionia di criteri che non spiegano niente ma almeno ci sono più familiari. Perché Stoccolma? E perché Parigi e Dacca, la Nigeria e gli Stati Uniti, Nizza e Londra, un treno regionale in Germania e un museo a Tunisi? Perché Bruxelles e il Pakistan, Tel Aviv e Oslo, il Cairo e San Pietroburgo e Istanbul? Perché una spiaggia o una discoteca, una via elegante dello shopping o uno stadio, un teatro o un bistrot, un ristorante etnico o un aeroporto, un treno o un supermercato, un mercatino natalizio o un ponte? Perché, che c'entra con la protesta sociale, anche violenta, estremista, e forse terrorista nelle sue manifestazioni più oltranziste? A questi «perché» non riusciamo, non vogliamo mai rispondere. Cerchiamo di cancellare la realtà, di attenuarla. Temiamo le conseguenze di ciò che potremmo dire: non perché non siano vere, ma perché sono pericolose. Non riusciamo a concettualizzare una guerra culturale, scatenata contro un intero sistema di vita, al Nord come al Sud, all'Est e all'Ovest, contro i cristiani, gli ebrei e i musulmani di altra confessione, fatta per motivi ideologici e dove questa ideologia si chiama islamismo fondamentalista, radicale, integralista. E le sue armi sono cinture esplosive, coltelli, asce, tritolo, Suv, camion, kalashnikov, gli stessi corpi di chi semina il terrore. Il welfare svedese non c'entra niente e il multiculturalismo inglese non è diverso, per i terroristi, dallo statalismo repubblicano della Francia. Una guerra ideologica, culturale, di religione. SI, di religione.

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