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La Stampa Rassegna Stampa
09.04.2017 Assad dopo l'attacco, biografia di McMaster, consigliere di Trump per la sicurezza
Cronaca di Giordano Stabile, ritratto di Gianni Riotta

Testata: La Stampa
Data: 09 aprile 2017
Pagina: 6
Autore: Giordano Stabile-Gianni Riotta
Titolo: «Le grandi potenze pronte a creare zone cuscinetto per contenere Assad-La lezione dello stratega di Trump»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/04/2017, due servizi di Giordano Stabile e Gianni Riotta. Il primo sul dopo-attacco americano in Siria, il secondo un ritratto di McMaster, consigliere per la sicurezza di Trump, di Gianni Riotta.

Giordano Stabile:" Le grandi potenze pronte a creare zone cuscinetto per contenere Assad"

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Giordano Stabile

Il blitz sulla base di AlShayrat, tornata operativa già ieri con un raid sulla cittadina colpita dall'attacco chimico, Khan Sheikhoun, ha soltanto scalfito le capacità offensive dell'aviazione siriana. L'avvertimento sulle armi chimiche è arrivato. La strategia del dopo non è ancora chiara. Se l'azione si ferma qui i più importanti alleati degli Usa nella regione saranno delusi. Israele, Turchia e Paesi del Golfo vogliono un'azione più incisiva che dia garanzie sugli assetti regionali alla fine della guerra civile. Ma le tre potenze hanno anche obiettivi strategici molto diversi. L'unico punto in comune è la convergenza verso le «safe zone», cioè zone cuscinetto da dove l'aviazione e l'esercito di Bashar al-Assad sarebbero esclusi. E' una versione ridotta della no-fly-zone su tutta la Siria proposta per esempio dal senatore repubblicano John McCain già cinque anni fa. Ma può consentire di cogliere più risultati. Per Israele è strategico impedire che Hezbollah e le milizie fedeli all'Iran si installino sul confine Sud della Siria. I media israeliani hanno rilanciato ieri «indiscrezioni» provenienti dall'entourage di Benjamin Netanyahu. II premier ha chiesto alla Casa Bianca due zone cuscinetto: una al confine fra Siria e Israele, lungo le alture del Golan, l'altra al confine fra Siria e Giordania, nella provincia di Dama. Le «buffer zone» sarebbero tutte in territorio siriano e senza la presenza di soldati israeliani. L'ipotesi più plausibile è che siano sul modello del Libano, con un contingente Onu a far da cuscinetto fra le forze siriane e le milizie sciite e gli eserciti israeliano e giordano. In questo modo, secondo Israele, si limiterebbe la capacità di Hezbollah di lanciare un attacco, e su un fronte molto più ampio di quello libanese. Le ambizioni di Erdogan Molto diversa è la «safe zone» che ha in mente il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. L'attacco chimico a Khan Sheikhoun gli ha dato l'occasione di smarcarsi da Mosca, tornare ad attaccare Assad e allargare le sue ambizioni nel Nord della Siria. Anche perché la sua operazione «Scudo dell'Eufrate» non ha raggiunto l'obiettivo di respingere i curdi a Est dell'Eufrate e prendere la città di Manbi j, proprio per l'opposizione della Russia. Ora il leader turco, alla vigilia del referendum costituzionale di domenica 16 aprile, punta a estendere l'influenza turca nella provincia di Idlib. Pub contare sull'alleanza con il gruppo salafita di Ahrar al-Sham, presente nella provincia di Idlib assieme ai qaedisti di Hayat al-Tahrir alSham. Ma proprio la forza delle formazioni jihadiste rende molto più problematico un ingresso delle truppe turche. II Kurdistan siriano Con il riallineamento della Casa Bianca sulle posizioni antiAssad, Erdogan spera ora di ridimensionare il potere del miss di Damasco, nemico dei Fratelli musulmani e dell'islam politico. E' il modello che vorrebbe esportare in tutto il Medio Oriente. L'altro avversario da ridimensionare sono i curdi. Ma qui la «safe zone» che hanno in mente gli americani si scontra frontalmente con quella di Erdogan. Anche se la scelta definitiva su chi debba entrare a Raqqa, dove ieri è stato compiuto un raid della coalizione a guida Usa che avrebbe causato anche 20 vittime civili, non è stata ancora presa, è chiaro che i curdi dello Ypg sono in pole position. Con Raqqa, e forse Deir ez-Zour, il Kurdistan siriano avrebbe dimensioni simili a quello iracheno, in marcia verso la piena indipendenza. Washington ha promesso molto ai curdi e difficilmente si potrà tirare indietro. Con il Nord alla Turchia, il Nord-Est ai curdi e il Sud sotto controllo internazionale, la spartizione della Siria sarebbe un realtà. Soprattutto senza Assad al potere e con un governo centrale dominato dall'opposizione islamica sunnita filo-saudita (o in alternativa Mo-Qatar). Ma arrivare a questo occorre smantellare le difese aeree russe per poter distruggere l'aviazione di Assad. II problema è militare e politico. Vladimir Putin ha schierato il meglio della tecnologia anti-aerea russa: l'ultima versione degli S300 e gli S400. Per l'analista militare Alex Kokcharov, dell'IHS Maarkit, questi sistemi sono «pienamente in grado» di intercettare i missili Cruise Tomahawk e la maggior parte dei cacciabombardieri americani, a parte gli invisibili F-22. Se venerdì gli 5300 non hanno abbattuto i Tomahawk è perché i russi «hanno scelto di non farlo». Imporre le zone cuscinetto implica un impegno militare americano di proporzioni molto più vaste. Uno scontro aperto con la Russia. L'alternativa è concedere una «safe zone» anche a Mosca: il nucleo duro del potere alawita, Tartus e Lattakia, e magari anche Damasco, con un Assad dimezzato.

Gianni Riotta:" La lezione dello stratega di Trump"

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Gianni Riotta                       Il generale McMaster con Donald Trump

Il professor Alain Enthoven, esperto di sistemi complessi a rete a Stanford University, è celebrato per le teorie sulla sanità nel mondo post industriale. Nessuno ricorda però che fu proprio Enthoven, trentenne sottosegretario alla Difesa col ministro McNamara, 1965, a convincere il presidente Johnson che la guerra in Vietnam fosse un’equazione, introdotte variabili e incognite, la soluzione poteva essere tratta dai colossali computer Ibm del tempo. Fu il brillantissimo Enthoven, fresco di studi a Oxford e al Mit, a ideare il concetto di «body count», contare i morti: se gli Usa avessero inflitto abbastanza sofferenze al Vietnam, il nemico sarebbe corso al tavolo delle trattative. Non funzionò, e a indicare per primo il ruolo nefasto di intellettuali e militari nella disastrosa strategia Usa contro Hanoi è stato un colonnello dell’esercito, presto mobilitato in Iraq contro Al Qaeda, H.R. McMaster, oggi consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Trump. Scrivendo la sua tesi di dottorato all’Università della North Carolina, il colonnello McMaster cambia l’orientamento della storiografia Usa. Da Hollywood, ai giornali, agli accademici la «colpa» della sconfitta nelle risaie era attribuita sempre alla politica, prima il presidente Kennedy, poi Johnson, non avevano ascoltato società civile e stato maggiore, portando con superbia il Paese alla disfatta. Ancora in divisa, McMaster rompe il tabù e attacca i superiori: pubblicata nel 1997, la tesi diventa un libro dal titolo micidiale come una fucilata, «Dereliction of duty», abbandono, tradimento del proprio dovere. A commettere il tradimento, scrive McMaster, fu il vertice dell’esercito, i generali. Per cupidigia di promozioni, carriera, per incapacità di comunicazione, non seppero superare la diffidenza di Kennedy e Johnson, dissero docili di sì, anche quando sapevano benissimo quanto i numeri di Einthoven e McNamara fossero spazzatura. «La passione di Einthoven, risolvere i problemi con l’analisi quantitativa, era superata solo da una cosa: la sua arroganza», annota il dottorando McMaster, che chiude con un appassionato appello, i militari devono dire la verità ai politici, a qualunque costo. In campo in Iraq nel 2005, il colonnello McMaster comanda il III Reggimento Corazzato di Cavalleria nel deserto a Nord Ovest di Baghdad, per strappare ad Al Qaeda la città di Tal Afar. Prima impone ai soldati di imparare un po’ di arabo, fa lezioni di storia locale, infine chiede rinforzi. Il suo superiore glieli nega senza appello. Non ha letto «Dereliction of duty», perché in uno dei passaggi chiave McMaster ricorda il luglio 1965, quando Pentagono e generali chiedono a Johnson di mobilitare 100.000 uomini della Riserva, per contenere i vietnamiti e dare coscienza al Paese di una guerra aspra. Johnson, impegnato nelle riforme contro la povertà, boccia l’idea e in un meeting decisivo il capo di stato maggiore, generale Wheeler, si dichiara d’accordo: intorno al tavolo tutti sanno che mente per ipocrisia, nessuno ha il coraggio di contraddirlo. Sono i due capi delle forze armate di allora, Wheeler e il predecessore Maxwell Taylor, gli imputati di McMaster, sicofanti e servili. In vista della roccaforte islamista di Tal Afar, McMaster fa quel che la storia gli ha insegnato, disobbedisce al diretto superiore, propone l’invio dei rinforzi al comando a Baghdad, e mette le basi del «surge», la controguerriglia, condotta poi con successo dal generale Petraeus. L’indipendenza di giudizio va di moda a Silicon Valley, non nell’esercito, e per due volte i generali, che hanno sfogliato la sua tesi, negano a McMaster la promozione a generale. Toccherà a un altro anticonformista, Petraeus, concedergli in ritardo le stellette. Ora il calvo, solido, H.R. McMaster fa da coscienza pragmatica al focoso Trump, ed era col presidente sull’Air Force One in volo da Washington a Mar-a-Lago in Florida, quando è stato deciso il blitz limitato contro la base siriana di Shayrat, rappresaglia contro la strage di civili con i gas. Il raid raffredda il clima tra Usa, Putin e Assad, e merita al Presidente imprevedibili elogi di parte liberal, dall’ex sottosegretario di Stato della Clinton, Anne Marie Slaughter, al columnist NYTimes Kristof, mentre la destra isolazionista dà in escandescenze sul web. Molti, vedi lo studioso Robert Kagan, si chiedono cosa accadrà adesso, se Trump andrà avanti con la campagna, come reagirà Putin - che non strappa con Washington, vedrà il segretario Tillerson e magari, sotto sotto, apprezza la strigliata al riottoso alleato Assad, che non vuole saperne di negoziati -, se l’Iran lancerà all’offensiva le milizie sciite in Iraq. Ogni opzione è aperta, ma per capire cosa abbia in mente McMaster non avete che da leggerne la tesi, certi che solo quella ruvida verità proporrà al presidente Trump, costi quel che costi.

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