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Corriere della Sera Sette Rassegna Stampa
07.04.2017 Il contributo del Gran Muftì alla Shoah: un crimine impunito
Recensione di Diego Gabutti di 'Bambini in fuga', di Mirella Serri

Testata: Corriere della Sera Sette
Data: 07 aprile 2017
Pagina: 48
Autore: Diego Gabutti
Titolo: «Il Gran Muftì alleato di Hitler nell'Olocausto nazista»

Riprendiamo da SETTE di oggi, 07/04/2017, a pag. 48, con il titolo "Il Gran Muftì alleato di Hitler nell'Olocausto nazista", la recensione. molto accurata, di Diego Gabutti.

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La copertina (Longanesi ed.)

Quando capita d'evocare la sinistra figura di Amin al-Husseini, fondamentalista nazi-islamico e Gran Muftì di Gerusalemme tra le due guerre, c'è sempre qualcuno che nega con sdegno politically correct una sua diretta o anche solo convinta partecipazione all'Olocausto. Si nega, soprattutto, che il Gran Muftì — braccato dagl'inglesi, ospite di Mussolini a Roma, poi di Hitler a Berlino — abbia mai premuto sui nazisti incitandoli a uccidere senza pietà tutti i «giudei» e «sionisti» d'Europa allo scopo di precludere loro ogni via di fuga e tenerli lontani dalla Palestina. C'era dentro, invece, e fino al collo, come racconta nel suo ultimo libro Mirella Serri.

Bambini in fuga è la storia bella e terribile d'un gruppo di bambini e adolescenti ebrei alla macchia in territorio nemico. Sono accuditi da un ragazzo di poco più anziano, Josef Indig, membro delle associazioni sioniste giovanili. Tedeschi e polacchi, austriaci e jugoslavi, sono tutti orfani. Molti hanno visto i genitori e i fratelli morire nei rastrellamenti, uccisi per strada a calci e pugni, abbattuti col calcio dei fucili, falciati da raffiche di mitra. Per anni si muovono sotto il fuoco nemico, clandestini e invisibili, nel labirinto dei visti d'ingresso e dei permessi di transito, ogni tanto qualche notizia dai parenti finiti nei campi nazisti, un pacco-viveri, un rifugio temporaneo, un incontro inatteso, uno sguardo d'odio, più raramente un sorriso. Affamati e terrorizzati, mai un momento di quiete, viaggiano attraverso la Germania genocida, poi nella Croazia degli ustascia e dei partigiani titini, quindi nell'Italia delle leggi razziali (dove per un po' trovano scampo, tra italiani brava gente) e infine in Svizzera e in Francia. Su di loro, come il ghigno dello scienziato pazzo nei manifesti dei film espressionisti, non incombono soltanto le ombre di Hitler, Eichmann e Himmler, ma anche l'ombra di al-Hussein, cacciatore d'ebrei, grande assassino.

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Il Gran Muftì con Adolf Hitler

I prodromi di Fatah e Olp. Quella dei bambini in fuga, nel racconto di Mirella Serri, è inevitabilmente anche la storia del Gran Mufti di Gerusalemme, uno dei più appassionati tifosi del genocidio. È possibile che persino qualche alleato di Hitler abbia distolto lo sguardo dall'Olocausto, non sopportandone la vista. Amin al-Husseini no; lui non fece che invocare la soluzione finale. Anni prima, aveva fatto tradurre in arabo i Protocolli dei Savi di Sion. Voleva sempre più cadaveri, e sempre meno emigrati ebrei in Palestina. Nel luglio del 1944 «scrisse a Jacob von Ribbentrop», ministro degli esteri della Germania hitleriana, «per lamentarsi di scambi d'ebrei e di militari tedeschi prigionieri che si erano verificati circa una ventina di giorni prima. Sottolineò che non bisognava dimenticare che il Reich s'era impegnato a combattere l'ebraismo mondiale. Ancora due giorni dopo si lamentava con Himmler che vi erano stati nuovi scambi e che questo permissivismo avrebbe "incoraggiato anche i Paesi balcanici a inviare i loro ebrei in Palestina"».

Dieter Wisliceny, il vice di Eichmann poi giustiziato per crimini di guerra, confidò nel giugno del 1944 al leader ebreo ungherese Rudolf Kastner che al-Husseini «aveva avuto un ruolo nella decisione di sterminare gli ebrei d'Europa e che era stato collaboratore e consigliere di Eichmann e di Himmler nell'esecuzione di questo piano». Promotore d'attacchi suicidi contro gl'inglesi, creatore della divisione musulmana Handschar (o «scimitarra») delle Waffen-SS, zio (o cugino, non è chiaro) del leader di al-Fatah e dell'Olp Yasser Arafat, il Gran Mufti praticò la jihad ben prima dell'Isis e di al Qaeda. 

Stragismo islamico. Anche il Gran Mufti di Gerusalemme sopravvisse alla guerra. Fuggì in Francia, poi in Egitto, dove fu accolto col presentat'arm dai Fratelli musulmani, tuttora campioni d'islamismo radicale e antiebraico. Benché se la fosse ampiamente meritata, per Amin al-Hussein non ci fu una Norimberga. Un po' tutti, anzi, dai russi agli americani e agl'inglesi (Churchill escluso) se lo tennero buono per arruffianarsi la nazione araba. Fu tutto dimenticato: la divisione Handschar delle Waffen-SS, le proteste per gli scambi di prigionieri tedeschi con ebrei destinati alle camere a gas, la traduzione in lingua araba del Protocolli dei Savi di Sion. Tranne che in Israele, non s'accennò più al fatto che il Gran Mufti, nei primi anni di guerra, aveva chiesto a Hitler di prestargli Eichmann, a guerra finita e vinta dall'Asse, per esportare la soluzione finale nei Luoghi Santi, tra gli ebrei già emigrati.

Al-Husseini morì nel 1974. Due anni prima, nel 1972, Ali Hasan Salameh — capo di Settembre Nero, uno dei bracci militari di al-Fatah, e figlio di Shaykh Hassan Salameh, fidato luogotenente del Gran Muftì — aveva organizzato e diretto l'assalto dei terroristi palestinesi al villaggio olimpico di Monaco di Baviera. Undici atleti ebrei vennero uccisi dai feddayn: fu un'altra caccia, come quella voluta del padre con i bambini ebrei.

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