Riprendiamo da DOPPIOZERO, con il titolo "Enzo Bonaventura e la psicoanalisi", la recensione di Pietro Barbetta del volume "La psicoanalisi" di Enzo Bonaventura , a cura e con introduzione di David Meghnagi.
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La copertina (Marsilio ed.)
Quel che mi è accaduto ha dell’incredibile. Una vicenda che ha qualcosa di misterioso e attraente mi spinge a scriverci sopra. Ma cominciamo dall’inizio. È uscita dopo molti anni, per Marsilio, una nuova edizione critica del libro di Enzo Joseph Bonaventura (1891-1948): La psicoanalisi, a cura e con introduzione di David Meghnagi. Bonaventura non era medico, era laureato in filosofia e si occupava di psicologia sperimentale. A quei tempi la psicologia sperimentale era altra cosa rispetto alle attuali “scienze cognitive”. In quegli anni gli autori più importanti, i fondatori della psicologia sperimentale, erano Wilhelm Wundt (1832-1920) e Franz Brentano (1838-1917). Brentano, era, a sua volta, maestro di Edmund Husserl (1859-1938), il fondatore della filosofia fenomenologica, e di Sigmund Freud (1856-1939), il fondatore della psicoanalisi. Entrambi, Husserl e Freud, avevano ascoltato Brentano a lezione.
Di particolare importanza era la nozione di “intenzionalità”, che Brentano aveva ripreso dalla filosofia medievale, distinguendola dal concetto di “intenzione”. Il tema dell'intenzionalità sarebbe stato al centro della filosofia di Husserl, fino al concetto di Einfühlung, oggi tradotto con “empatia”. In psicoanalisi questa ricerca filosofica assumerà la denominazione di “traslazione”, o “transfert”. Grazie a questa sua formazione filosofica, Bonaventura rileva la scarsa conoscenza da parte degli psicoanalisti medici riguardo alla psicologia sperimentale che, dalla psicologia della percezione alla psicologia sociale, aveva avuto un'impostazione marcatamente fenomenologica, per esempio con la psicologia della Gestalt di Max Wertheimer (1880-1943) e Wolfgang Köhler (1887-1967) e la teoria del campo di Kurt Lewin (1890-1947). In altri termini, proprio passando attraverso la psicologia sperimentale di quel tempo, che traeva spunti e fondamenti dalla filosofia fenomenologica, si chiariva un punto chiave della psicoanalisi: la relazione terapeutica, che i medici tendevano a trascurare a vantaggio di una concezione oggettivante del “paziente”.
Enzo Bonaventura
Tuttavia questo libro ha per me un suo fato. Mesi fa discussi una tesi con uno studente ebreo, Mirco Ferrari, sulla vita e l'opera di Silvano Arieti, amico e collega di Bonaventura. Tra le sue opere, Arieti scrisse una memoria sul caso clinico del Parnàs, Abramo Giuseppe Pardo, Presidente della Comunità ebraica di Pisa. Pardo soffriva di una grave forma di fobia che gli impediva di uscire di casa per il timore di venire sbranato da animali domestici. La sua auto-reclusione facilitò la cattura e la sua uccisione da parte dei nazifascisti nel 1944, poco prima della liberazione della città. Proposi a Ferrari di intervistare David Meghnagi, che, oltre a essere il massimo studioso italiano riguardo ai rapporti tra ebraismo e psicoanalisi, ha indagato a fondo proprio la patologia del Parnàs a partire dall'opera di Arieti. Mirco Ferrari va a Roma per parlare con Meghnagi, per la tesi. Durante il colloquio Meghnagi gli parla di un altro psicoanalista ebreo: Enzo Bonaventura, forse perché in quel momento è impegnato a lavorare su questo libro, oppure perché Bonaventura e Arieti erano in rapporto di amicizia tra loro, per contiguità. Durante la giornata di martedì scorso ricevo in università la nuova edizione Marsilio di La psicoanalisi, con l'introduzione di Meghnagi. Rientro a casa e trovo un pacco con dentro l'edizione Arnoldo Mondadori del 1950 dello stesso libro, insieme a una lettera di Mirco Ferrari, che, tra le altre cose, mi scrive:
Nella Torah troviamo scritto “Tzedeq, Tzedeq, Tirdof” (Deu: 17:2). Letteralmente significa “la giustizia, la giustizia inseguirai”. Tramandando la memoria di Bonaventura e di Arieti e del Parnàs, inseguendo la loro storia e tentando di comprendere la loro vita, noi partecipiamo attivamente a un cambiamento di cui il mondo necessita ancora oggi, attraverso questo nostro agire stiamo inseguendo la giustizia. Una curiosa coincidenza, una sincronicità junghiana, una convergenza di interessi che confluisce in un martedì particolare, una “buona ventura”, una catena che risale da Bonaventura ad Arieti, da Arieti al Parnàs, poi a Meghnagi e a Mirco Ferrari, oppure da Arieti, analista di Luigi Boscolo, fino a Luigi Boscolo, il mio primo analista. Dopo avere letto il libro, guardo l'edizione del 1950, è certo appartenuta a qualcuno. Trovo una piega al margine destro di pagina 205. Date le circostanze, già così misteriose, mi affido; come Agostino al momento della conversione: prendo e leggo il primo paragrafo della pagina a fronte, la 204 (pagina 153 della nuova edizione).
La nascita ha il suo simbolo nell'acqua. Secondo il Freud, questa è la semplice trascrizione per cui il feto nel seno materno è immerso nel liquido amniotico, sì che la nascita è un vero uscir dall'acqua. La mitologia offre numerosi esempi a controllo di questo simbolo: si pensi tra l'altro alla nascita di Venere che sorge dalla spuma del mare, come nella mirabile figurazione di Sandro Botticelli; si pensi ai molti racconti di eroi che appena nati sono stati “salvati” dalle acque, come Mosè nel racconto biblico, Romolo e Remo nella leggenda latina, Sargon in quella babilonese. Uno studioso psicoanalista, O. Rank ha raccolto in un volumetto gran miti di tutti i popoli intorno alla nascita degli eroi, confermando la generalità del simbolo. Nel sogno salvare una persona dall'acqua significa riconoscere un rapporto di maternità con quella persona.
Oltre che nei contenuti, la prosa di questo testo riserva una serie di ammaestramenti letterari su quel modo di scrivere che caratterizza la saggistica a cavallo tra Otto e Novecento, dove l'articolo determinativo davanti al nome (“il Freud”) mostra la deferenza dovuta verso l'autore così come l'uso di espressioni eleganti, come “mirabile figurazione”, o il troncamento dei termini, come in “uscir dall'acqua” rende alcune sonorità poetiche dell'italiano di quei tempi. Tzedeq, Tzedeq, Tirdof, giustizia, giustizia inseguirai: La psicoanalisi di Bonaventura esce nel 1938, nello stesso anno in cui vengono introdotte le leggi razziali e il fascismo si allinea pienamente alla politica di sterminio programmata da Hitler. Per contrasto, la citazione di pagina 204, come una voce nella folla, richiama le origini della vita nella nascita e l'acqua come simbolo generativo. L'epoca distruttiva e psicotica di quegli anni nel nostro paese verrà spazzata via da un mare rigenerante, la resistenza e la vittoria delle potenze democratiche. Tuttavia Enzo Joseph Bonaventura muore in Israele in un agguato arabo nell'aprile del 1948, poco tempo prima del riconoscimento dello Stato di Israele e nella “disattenzione” delle forze del protettorato Britannico.
Enzo Bonaventure è stato emarginato dall'università italiana, prima e dopo il fascismo, l'accademia italiana lo ha sempre tenuto ai margini, senza promuoverlo, Meghnagi lo racconta e io lo ribadisco, perché l'accademia non è affatto cambiata e, anche su ciò, si tratta di inseguire una giustizia che non arriva mai. Il volume di Bonaventura è un vero e proprio compendio di psicoanalisi, tratta delle sue origini dal fenomeno isterico, propone una definizione e una descrizione ricca e articolata del fenomeno dell'inconscio, elegantemente scritto e pronunciato come “incosciente”, e contiene due capitoli chiave dell'essenza del discorso psicoanalitico: la rimozione e il sogno. Al pari dell'Interpretazione della schizofrenia, di Silvano Arieti, recentemente riedito, il testo di Enzo Bonaventura è un classico tra i contributi che gli ebrei italiani hanno dato allo studio della psicoterapia e della psicoanalisi. La giustizia, a furia di inseguirla, la si ottiene; anche ripubblicando questo volume altamente scientifico e altamente divulgativo insieme.