IC7 - Il commento di Dario Peirone
Dal 26 marzo al 1 aprile 2017
L’innovazione nella comunicazione e nel discorso politico: un importante convegno italo israeliano a Torino
Che mese ragazzi! Il mese di Marzo a Torino è stato grandioso per il movimento BDS in città. I quattro gatti che lo compongono sono riusciti ad avere una risonanza mediatica senza precedenti, sparando bordate contro Israele ... Che sono regolarmente finite in acqua! Dopo il penoso caso della ricercatrice ossessionata da Israele al punto di rifiutare una borsa in un progetto di ricerca in cui era coinvolta l’Università di Tel Aviv, dopo il voto del Consiglio degli studenti in favore dell’adesione al BDS da parte dell’Università di Torino (con conseguente mozione presentata in Senato Accademico per chiudere tutti gli accordi in vigore con università israeliane), qualche giornale aveva addirittura chiamato Torino “la capitale del boicottaggio contro Israele”. In realtà, la mozione degli studenti è stata liquidata in breve dal Senato Accademico dell’ateneo torinese, il progetto di ricerca va avanti anche senza la ricercatrice, e nelle ultime elezioni del consiglio studentesco è emersa chiaramente la vera “rappresentatività” di questo organo: delle decine di migliaia di studenti è andato a votare meno dell’8% (http://torino.repubblica.it/cronaca/2015/03/25/news/
le_elezioni_all_universita_fanno_flop_trionfano_gli_studenti_indipendenti-
110471477/).
Però i giornali fanno titoli e articoli su di loro, dando a un gruppetto una visibilità assolutamente sproporzionata. Eppure, c’era ben altro di cui parlare. Esattamente nello stesso momento i cui i “rappresentanti” degli studenti votavano la loro mozione pro BDS, in Rettorato aveva luogo un convegno internazionale di alto livello scientifico, organizzato dalla professoressa Paola Paissa, ordinario di Lingua e Traduzione Francese presso l’Università di Torino. Paola Paissa è una delle più importanti studiose di analisi del discorso di scuola francese, e dal 2013 coordina il gruppo AD-DORIF (Analyse du discours – DORIF), composto da studiosi di diverse università italiane, in una ricerca scientifica internazionale con il gruppo ADARR (Analyse du discours, Argumentation, Rhétorique) che riunisce ricercatori delle università israeliane di Tel-Aviv e di Bar-Ilan.
Nell’ambito di questa cooperazione si sono già realizzate pubblicazioni comuni e diversi convegni internazionali, incentrati sulla costruzione discorsiva e argomentativa dei valori collettivi (memoria, ethos, identità). Gli studiosi israeliani e italiani riuniti nei due gruppi sono infatti specialisti nell’analisi del discorso, che applicano all’osservazione della comunicazione politica e mediatica, descrivendo e valutando la retorica e le strategie argomentative nella comunicazione pubblica francese, italiana o israeliana. Le giornate di studio che si sono svolte il 9 e 10 marzo presso il Rettorato dell’Università di Torino hanno riguardato le modalità di costruzione dell’ identità collettiva, che già costituisce un oggetto di studio nelle scienze sociali e umane (psicologia sociale, sociologia, filosofia).
Nel convegno torinese si è discusso del ruolo del discorso - e delle sue strategie argomentative e persuasive - nella costituzione e nella comunicazione di tale entità. Un argomento di grande interesse, specialmente per chi si occupa di come Israele viene rappresentato dai media e nell’opinione pubblica. Ho avuto la fortuna di essere chiamato a portare un saluto all’inizio di questo convegno, che si svolgeva in una bellissima atmosfera di amicizia e collaborazione, nonché di ammirazione delle bellezze di Torino da parte degli studiosi israeliani. Contestatori? Zero. Giornalisti? Zero. Eppure il tema era delicato, specialmente in questo periodo. “La nostra collaborazione non è stata inquadrata in convenzioni o accordi di carattere istituzionale”, dice la professoressa Paissa. “Essa si deve al desiderio e alla volontà di diversi individui di trovare terreni comuni di incontro e di dialogo. In questo senso, la nostra esperienza dimostra che la cooperazione scientifica si basa sempre, in ultima analisi, sull’iniziativa individuale, che è per definizione libera e pluralista”. Una bella lezione per i boicottatori sul valore e la natura della ricerca.
Nella serata finale del convegno è stato offerto un rinfresco da Ermanno Tedeschi, uno dei più famosi galleristi torinesi, esperto di arte israeliana e Presidente dell’Associazione Amici dell’Università di Tel Aviv. Un’ottima occasione per avvicinare gli ospiti e chiedere la loro opinione di esperti su informazione, Israele e discorso mediatico. La professoressa Ruth Amossy dell’Università di Tel Aviv è il principale interlocutore israeliano in questo progetto di ricerca, in quanto coordinatrice del gruppo ADARR. Le chiedo subito cosa pensa della “guerra delle parole”, ovvero i termini (per lo più scorretti, tendenziosi e forieri di pregiudizio) con cui Israele viene rappresentato sui media internazionali.
Torino
“La guerra delle parole è un tentativo di vincere la battaglia militare contro lo Stato ebraico in una situazione in cui Israele è sempre riuscito a difendersi efficacemente dagli attacchi” dice Ruth Amossy. “È anche un sostituto della battaglia diplomatica, dal momento che da anni non ci sono progressi in questo ambito. Ecco allora che si cerca di macchiare l'immagine di Israele sulla scena internazionale (stato di apartheid, regime coloniale ecc.). La potenza comunicativa di queste accuse deriva non solo dalla onnipresenza della propaganda araba, ma anche dal fatto che utilizzano i modelli stereotipati quali il “forte e il debole”, “l'oppressore e l'oppresso”, “il colonizzatore e il colonizzato”. Essi sono tutti ancorati in un immaginario sociale fondato su valori intesi a suscitare emozioni (la vergogna, l'indignazione, ecc...).”
Come si può combattere questa retorica? “Non è facile riparare i danni alla propria immagine quando si deve andare contro i più banali e vecchi stereotipi, soprattutto perché l'opinione pubblica si basa su approssimazioni grossolane e necessarie semplificazioni di una situazione però molto complessa”, continua la professoressa Amossy, “Ritengo che, per quanto riguarda le strategie di comunicazione, sia impossibile opporsi frontalmente a stereotipi di ragionamento profondamente radicati nell'immaginario collettivo. Questo significa che si è persa la guerra delle parole? Forse la questione dovrebbe essere riformulata. Non si tratta di vincere a tutti i costi, attraverso un’unica visione basata sul sostegno incondizionato alle politiche del governo. Israele è un paese democratico, e molte voci in competizione possono essere ascoltate pubblicamente. Ci sono diverse interpretazioni della situazione, i pro e i contro di ciascun problema vengono liberamente discussi in Parlamento, sui media e per strada. Credo la cosa più importante sia fare conoscere al pubblico internazionale i problemi che gli israeliani si trovano ad affrontare, le diverse soluzioni che essi propongono e il modo in cui le giustificano. Comprendendo le loro polemiche e i loro dilemmi, l’opinione pubblica internazionale può identificarsi “dall'interno” con i cittadini israeliani, a cui si chiede di fare scelte e prendere decisioni in situazioni critiche, ma in un modo democratico che è unico nel Medio-Oriente”.
Attraverso quali strumenti si può agire per far conoscere Israele “dall’interno”, come lei suggerisce? “Dovrebbero esserci più siti internet in lingua straniera che si occupino della ricerca, della cultura e della vita quotidiana in Israele, in particolare il cinema e la tv dovrebbero giocare un ruolo importante, accanto al web e ai social media. Anche se, sicuramente, una parte fondamentale è la conoscenza diretta, che può venire solo attraverso il turismo ed i viaggi in Israele.”
Parlo con un giovane ricercatore di Bar Ilan, che aggiunge un’osservazione importante. “Credo che il discorso portato avanti dai palestinesi abbia più effetto perché gli abbiamo lasciato tutta l’argomentazione basata sui diritti, mentre la parte israeliana basa il suo discorso solo sulla sicurezza. Penso che anche noi dovremmo ricominciare a parlare di diritti”. Ma questo non è avvenuto probabilmente per paura di essere etichettati come “estrema destra” o “nazionalisti”. “E’ vero, ma questa paura deve finire” mi risponde il giovane ricercatore, che continua: “I diritti derivano dalla nostra storia, dalle nostre tradizioni, dalla religione. Molta gente si avvicina a Israele solo alla fine di un percorso culturale e spirituale che parte dall’interesse verso la storia e la cultura ebraica. Non dobbiamo avere paura di introdurre questi temi nel discorso politico, perché credo invece che ci renderebbero più “umani” e avvicinerebbero molta più gente alla conoscenza di Israele”.
Questo cambiamento sta già avvenendo nel discorso politico interno? “Sì, politici giovani come Tzipi Hotovely, attuale vice ministro degli esteri, stanno cominciando a cambiare il discorso politico introducendo la questione dei diritti del popolo ebraico, non concentrandosi solo sulla sicurezza. Questo nuovo discorso si sta facendo strada nell’opinione pubblica e può aprire anche nuovi scenari dal punto di vista diplomatico.” Un confronto molto interessante, un esempio di quello che avviene regolarmente all’università, mentre i media danno risalto a qualche esaltato in cerca di “caciara”.
Alla fine della serata, una collega israeliana mi saluta dicendosi ammirata della bellezza di Torino (“a me e mio marito è piaciuta più di Venezia!”) e della straordinaria accoglienza che hanno ricevuto. “Sapere che qui in Italia ci sono degli amici che si impegnano a difendere l’immagine di Israele, è una cosa che ci tocca il cuore”. Proprio questa è la vera lezione che si può trarre da questo convegno: la comunicazione più efficace non si basa sugli slogan, ma non può che partire dalle persone.
Dario Peirone, Ricercatore di Economia e Gestione delle Imprese - Dipartimento di Economia e Statistica, Università di Torino