Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 01/04/2017, a pag.X, con il titolo "L'ebrea riluttante", il ritratto di Hannah Arendt di Antonio Donno.
Theodor Herzl Hannah Arendt
"Gli Ebrei, se lo vogliano, avranno il loro Stato. Dobbiamo una buona volta vivere come uomini liberi sulla nostra zolla e morire tranquillamente nella nostra propria patria" (Theodor Herzl)
Antonio Donno
Il 23 giugno 1963, Gershom Scholem, il grande studioso ebreo della Kabbalah, scrisse da Gerusalemme una lettera ad Hannah Arendt, rimproverandola di non avere “amore per il popolo ebraico”. Arendt così gli rispose, il 24 luglio dello stesso anno, da New York: “Hai perfettamente ragione – non sono animata da alcun amore di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai ‘amato’ nessun popolo o collettività. […] In secondo luogo, questo ‘amore per gli ebrei’ mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto”. Perché mai per un ebreo dovrebbe essere sospetto nutrire “amore per gli ebrei”? L’affermazione di Arendt ci riconduce allo sviluppo del suo pensiero intorno alla storia del popolo ebraico e, in particolare, a come ella aveva vissuto – o meglio, non vissuto – quella storia durante la sua vita personale e di studiosa. La conclusione della lettera a Scholem è rivelatrice: “Ebbene, è in questo senso che io non ‘amo’ gli ebrei, né ‘credo’ in loro; appartengo semplicemente a loro”. Questo spiega la sua netta contrarietà alla creazione di uno stato ebraico né in Palestina, né in alcun altro luogo. Si tratta, però, di una spiegazione che deve essere “spiegata”.
La vita stessa di Arendt all’interno del mondo intellettuale tedesco costituisce un elemento fondamentale per giudicare la sua concezione dell’ebraismo. Era un’ebrea completamente assimilata nel contesto storico e sociale della Germania al punto da aver abbandonato – o forse anche rifiutato – il suo essere ebrea. Nel commentare le idee di Theodor Herzl, scrisse nel luglio 1942: “La soluzione di Herzl al problema ebraico consisteva, in ultima analisi, nella fuga, ovvero nel mettersi in salvo in una patria”. Un giudizio assai riduttivo, perché non si trattava di una fuga, ma del riconoscimento che l’assimilazione non aveva funzionato e che l’antisemitismo sarebbe prosperato proprio nei contesti dell’Europa progressista, come sarebbe accaduto tragicamente di lì a poco. Inoltre, se la “fuga” teorizzata da Herzl e poi dal movimento sionista aveva un obiettivo collettivo di salvezza di un intero popolo, per Arendt, che realizzò la propria “fuga” negli Stati Uniti nel 1941, l’obiettivo era del tutto personale, come per molti altri, e perfettamente comprensibile. Nei due casi la “fuga” era sopravvivenza, anche se gli obiettivi divergevano. E, perciò, suona profondamente ingiusto ciò che scrisse nell’ottobre 1945: “E’ un fatto provato che i sionisti non abbiano mai saputo veder chiaro nel futuro degli ebrei emancipati”.
Era vero il contrario. Ne Lo Stato ebraico, Herzl aveva descritto proprio la condizione degli ebrei assimilati dell’Europa occidentale. Egli non poteva prendere in considerazione la condizione degli ebrei dell’Europa orientale e della Russia zarista, per il semplice motivo che la sua cultura e il suo stile di vita erano quelli di un ebreo assimilato e perciò ben lontano dalla comprensione dei suoi correligionari di quella immensa area. La genialità del suo libello consiste proprio nella capacità di Herzl di strappare la maschera degli ebrei assimilati e della loro “goffaggine” (per usare un termine di Aharon Appelfeld) nel ritenersi inseriti a pieno titolo nel mondo dei gentili. Del redi Antonio Donno sto, la stessa Arendt non poteva negare la realtà, la realtà degli ebrei che si sforzavano di non essere ebrei. Era proprio la sua stessa posizione. Nel gennaio del 1946 scrisse: “Nell’Europa occidentale questa ambiguità divenne decisiva per il comportamento sociale degli ebrei assimilati ed emancipati. Essi non volevano e non potevano appartenere più al popolo ebraico […]”. Era, questa, la migliore descrizione di se stessa, ragion per cui il suo “appartenere semplicemente a loro” era un dato puramente biologico. Ma non per gli antisemiti. Il 24 marzo del 1930 Arendt aveva scritto una lettera inequivocabile a Karl Jaspers a proposito del problema dell’adesione personale all’ebraicità: “[…] Sul terreno dell’ebraicità può crescere una determinata possibilità di esistenza, da me indicata […] come adesione al destino. Questa adesione al destino cresce proprio sul fondamento di un’assenza di terreno, e trova compimento, appunto, soltanto nel distacco dall’ebraismo”.
Anche quest’affermazione non può che essere considerata autobiografica, come gli eventi successivi avrebbero ampiamente dimostrato. La sua “fuga” verso gli Stati Uniti, oltre che essere dettata dal decisivo problema della sopravvivenza, era il momento culminante del suo distacco dall’ebraismo in quanto condizione esistenziale di un intero popolo. Quel popolo, ora – siamo negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra – marciava dietro le bandiere del sionismo. Su questo tema, la posizione di Arendt è nota, per quanto assai contraddittoria. In una lettera a Jaspers del 30 giugno 1947 scriveva con un certo disprezzo: “Vede, per noi e per molti altri oggi è divenuto del tutto ovvio che, se noi sfogliamo i giornali, veniamo a sapere soltanto ora che cosa succede in Palestina – benché io non abbia alcuna intenzione di andare mai laggiù, e benché io sia quasi fermamente convinta che là tutto andrà storto”. Ma, appena poco più di due mesi dopo, il 4 settembre, sempre in una lettera a Jaspers, ammetteva: “[…] I sionisti sono gli unici che possano godere di seria considerazione. […] Ciò che si è fatto in Palestina è straordinario: non soltanto colonizzazione, ma serio tentativo di fondare un nuovo ordine sociale […]”.
Non è facile penetrare nel significato della palese contraddizione di Arendt. E più avanti, nella stessa lettera: “In sostanza, la novità principale è che larghi settori del popolo, e non solo coloro che vivono in Palestina, non solo i sionisti, rinunciano a considerare la sopravvivenza come lo scopo di tutta la propria vita, e sono pronti a morire. E’ un fatto totalmente nuovo”. In realtà, il sionismo fu una vera e propria rivoluzione nella storia del popolo ebraico, non soltanto una novità. Arendt non ammetterà mai questa verità, per quanto il suo riconoscimento della positività del lavoro sionista fosse un passo avanti nel suo rapporto con il movimento fondato da Herzl. In sostanza, Arendt, scrivendo di “un nuovo ordine sociale” fondato dai sionisti in Palestina, non poteva che alludere al fatto che il nazionalismo ebraico (il sionismo) aveva raggiunto il suo scopo: la creazione di uno stato ebraico in Palestina, per quanto ella aborrisse il termine “nazionalismo”, che giudicava appartenente a un’altra epoca storica.
Di conseguenza, “l’edificio crollerà – aveva scritto nel febbraio 1943 – se le nostre menti e le nostre idee non si adatteranno a nuovi fatti e a nuovi sviluppi”, senza accennare a quali fatti e sviluppi avrebbero potuto soppiantare il nazionalismo. Al contrario, in uno scritto del 1952, in occasione della morte di Judah Magnes, Arendt ritornerà a condannare il nazionalismo sionista realizzato nello stato di Israele: “Il problema arabo resta quello di sempre, vale a dire la sola vera questione politica e morale di Israele. Il vittorioso stato israeliano non s’è mostrato capace di concludere nemmeno un solo trattato di pace con i suoi vicini arabi”. L’affermazione di Arendt è così sorprendente da lasciare basiti. Arendt dimenticava l’intransigente opposizione araba al piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947, il costante rifiuto arabo di ogni compromesso, l’invasione araba dello stato di Israele subito dopo la sua fondazione, allo scopo di eliminarlo dalla carta geografica del medio oriente, e la continua azione terroristica nei confronti degli insediamenti israeliani. Di più: Arendt denunciava il comportamento di “un popolo che per duemila anni aveva fatto della giustizia la pietra angolare della propria esistenza spirituale e comunitaria […]”.
“Questa è la misura del nostro fallimento”, concludeva, usando il termine “nostro” quasi a immedesimarsi nel fallimento di Israele. Arendt era tornata alle sue precedenti convinzioni, tralasciando, però, un bel po’ di storia sulle relazioni arabo-israeliane. Eppure, in un precedente scritto del 1951, aveva esplicitamente ammesso il perdurare dell’ostilità araba, fin dal 1921, nei confronti dell’insediamento ebraico in Palestina. Una serie di contraddizioni veramente eclatanti. Eppure, nel 1953, in uno dei suoi quaderni e diari, il quattordicesimo, Arendt aveva spiegato il significato di “sradicamento”: “Sradicamento significa vivere in superficie, e questo implica l’essere un parassita e la ‘superficialità’. La dimensione della profondità si crea piantando radici, ovvero comprendendo nel senso della riconciliazione”. Era stato proprio il sionismo a voler eliminare lo “sradicamento” del popolo ebraico nella diaspora e a impegnarsi a “piantare radici” in una patria ebraica, “riconciliando” la gran parte delle anime dell’ebraismo. Ma, questo, Arendt non intendeva ammetterlo. Anzi, nel maggio del 1948, nel momento in cui nasceva lo stato di Israele, conclusione trionfale del lavoro del movimento sionista, Arendt scriveva, a proposito del grande seguito di massa ottenuto dai successori di Herzl, che gli ebrei davano l’impressione di essere passati dalla “mentalità da Galut” (diaspora) a una da combattimento. Non era un giudizio positivo, quello di Arendt, perché subito dopo commentava: “L’unanimità di opinione è un fenomeno alquanto sinistro e una caratteristica della nostra moderna epoca di massa. […] Una pubblica opinione unanime tende a eliminare completamente coloro che dissentono, perché l’unanimità di massa non è il risultato di un accordo, ma un’espressione di fanatismo e di isteria. Diversamente dall’accordo, l’unanimità non si ferma a temi ben definiti, ma si espande come un’infezione a ogni questione a essi collegata”.
In sostanza, Arendt applicava al movimento sionista quelle categorie d’analisi che avrebbe utilizzato successivamente per connotare i movimenti di massa tipici dei regimi totalitari che studierà nel suo fondamentale Le origini del totalitarismo, del 1951. In realtà, la storia ha dimostrato che il movimento di massa sionista diede vita a uno stato democratico e pluralista, che non aveva niente a che vedere con i movimenti di massa totalitari. L’esito fu ben evidente già durante i primi decenni di Israele, nonostante la continua minaccia da parte del mondo arabo, e fino ai nostri giorni. L’analisi di Arendt era sbagliata. Negli anni Cinquanta, Arendt tornerà più volte sul tema dello stato ebraico. Lo farà in modo altalenante tra una debole accettazione e un netto rifiuto, anche se il suo giudizio resterà sempre sostanzialmente negativo. In uno scritto del 1950, Arendt sottolineerà un concetto che, implicitamente o più spesso esplicitamente, aveva espresso più volte negli anni precedenti: “L’esperimento palestinese è stato frequentemente definito come artificiale […]”; e più avanti: “Nessuna necessità economica costrinse gli ebrei ad andare in Palestina negli anni decisivi nei quali l’immigrazione in America era la naturale fuga dalla miseria e dalla persecuzione […]”. Un’affermazione che negava legittimità al movimento sionista e al suo progetto nazionale.
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