Riprendiamo da SHALOM di marzo 2017, a pag. 11, con il titolo "Tv arabe: per fare audience basta attaccare Israele e gli ebrei", l'analisi di Luca D'Ammando.
«L’entità sionista», «il nemico sionista»: così è stato chiamato a lungo Israele da gran parte dei media arabi. E così continua a essere chiamato ancora oggi, seppur con un numero maggiore di eccezioni. Un modo per screditare e per diffondere odio, per martellare le coscienze collettive inculcando il concetto che c’è un unico nemico: Israele. Uno dei motti di Joseph Goebbels era «una bugia ripetuta mille volte diventa vera». L’abbiamo visto recentemente anche in occidente, con i giornali e le televisioni di tutto il mondo, dall’Italia agli Stati Uniti che, con lo scoppio dell’Intifada dei coltelli, hanno fatto a gara a minimizzare la morte di israeliani, omettendo sempre di accostare la parola «terrorista» alla parola «palestinese». E sarebbe inutile qui elencare i titoli del Corriere della Sera o del Guardian, i servizi della Bbc e della Cnn. Basti dire che il canale televisivo saudita Al Arabiya si è mostrato in questi mesi più onesto dei media occidentali, definendo «vittime» i morti israeliani. Quello che qui non si è visto, e che invece è stato mostrato sugli schermi egiziani o libanesi, sono le immagini dei palestinesi in festa a Gaza, a Hebron, a Tulkarem e alla Porta di Damasco a Gerusalemme, che hanno distribuito dolci ai passanti per celebrare, solo per fare un esempio, l’attentato al ristorante di Max Brenner di Tel Aviv dello scorso giugno. Il termine più chiaro per comprendere la situazione dell’informazione su Israele è «Pallywood», ovvero la crasi di palestinese e Hollywood coniata dal professore Richard Landes nel 2005. Hamas diffonde direttamente la sua propaganda attraverso due emittenti, Al Aqsa Tv e Al Quds Tv. Quest’ultima, attiva dal 2008, ha uffici operativi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania e anche a Beirut e a Damasco.
Pallywood: girare filmati fittizi per incolpare Israele è prassi nei Paesi arabi
Lo scorso aprile Nilesat – piattaforma satellitare egiziana, tra le maggiori in Medio Oriente – ha deciso di interrompere le trasmissioni del libanese Al Manar (Il Faro). Parliamo di uno dei canali di informazione più seguiti nel mondo arabo, fondato nel 1991 da Hezbollah e che da anni porta avanti un’informazione che dipinge Israele come l’oppressore. Non a caso durante l’invasione del Libano, nel 2006, la sede dell’emittente fu considerata un obiettivo militare e bombardata dai caccia israeliani. Come ha sottolineato anche il primo canale televisivo israeliano, la decisione del Cairo di oscurare l’emittente libanese sembra rientrare nella spaccatura tra l’asse dei paesi sunniti considerati «moderati», guidato dall’Arabia Saudita e a cui si sarebbe unito anche l’Egitto, e l’asse formato da Iran, Siria, Yemen e Libano. Il direttore di Al Manar, Ibrahim Farhat, intervistato dal Fatto Quotidiano lo scorso maggio, ha detto: «Ai palestinesi hanno negato uno Stato indipendente, sono stati venduti da altri Paesi arabi che fanno trattative con il loro sangue. Ma una cosa: il popolo palestinese è più forte di quel che sembra e noi continueremo a sostenerlo». Ma ci sono casi di antisionismo più subdolo, meno diretto.
Fra i tanti, la serie televisiva dal titolo Cavaliere senza cavallo, una drammatizzazione distorta dei Protocolli dei Savi di Sion prodotta nel 2002 da Arab Radio and Television, emittente saudita con sede a Jeddah. Dure proteste arrivarono anche da Washington, oltre che da Tel Aviv, quando la serie fu mandata in onda anche in Egitto «come puro pretesto per aizzare la persecuzione degli ebrei» (copyright New York Times). Protagonista della fiction era l’attore egiziano Mohamed Sobhi, che nel marzo 2014, intervistato dal canale egiziano Dream 2, citò a memoria un discorso in cui Benjamin Franklin diceva: «Questi gruppi terroristi di ebrei affollano l’America e entro un centinaio di anni prenderanno il controllo del Paese e ci calpesteranno sotto i piedi». Piccolo esempio più recente di informazione distorta: lo scorso giugno l’inglese Independent e la tv Al Jazeera realizzarono dei servizi in cui sostenevano che Israele stesse tagliando l’acqua ai palestinesi durante il mese sacro del Ramadan. Un’evidente falsità: non c’era stata nessuna interruzione delle forniture d’acqua ai villaggi palestinesi in Cisgiordania, soltanto la riparazione delle tubature che aveva causato un momentaneo blocco idrico.
Al Jazeera pubblicò poi un secondo servizio contenente la risposta dell’amministrazione civile israeliana in Cisgiordania. Il quotidiano britannico decise invece di insistere, sostenendo di aver ricevuto informazioni certe da fonti palestinesi. Un caso a se stante può essere considerata Al Jazeera, rete in lingua araba con sede in Qatar e che ha anche una versione in inglese. Nel dicembre 2008, quando Israele lanciò l’operazione Piombo fuso, chiudendo ogni collegamento con la Striscia di Gaza, Al Jazeera si trovò a essere l’unica emittente ad avere corrispondenti nelle zone interessate. In quel caso – come in precedenza e come in seguito – si assistette a un racconto fazioso del conflitto israelo-palestinese. Eppure, al di fuori del totem della questione palestinese, Al Jazeera ha mostrato nel tempo una maggiore attenzione alle dinamiche interne dello Stato israeliano, spesso messo in contrapposizione ai fallimenti o alle zone d’ombra dei regimi arabi. Qui «l’identità dello Stato ebraico» è utilizzata per sostenere che la religione può andare di pari passo con la modernità, la prosperità e la democrazia. Una forma di ammirazione riluttante che però nasconde ancora in molti casi un forte antisemitismo, celato dietro analisi politico-sociologiche apparentemente neutrali.
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