Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/03/2017, a pag. 4, con il titolo "Mosul: con gli alleati a un passo dalla moschea del Califfo", l'analisi di Giampaolo Cadalanu.
Giampaolo Cadalanu
Mosul
Dal walkie talkie del colonnello Hamid esce una voce concitata: «Avvistate due autobomba. Prepararsi». Gli uomini con la divisa blu mimetica della Polizia federale non si scuotono. Loro sono già al riparo dei muri di una casa abbandonata, e sanno che i commilitoni, poche strade più avanti, hanno una risposta pronta per l’attacco dei jihadisti. «In giornate come queste, con la pioggia, gli elicotteri non possono aiutarci dall’alto. Ma siamo pronti con i lanciamissili anticarro Kornet o con i lanciagranate Rpg», dice tranquillo l’ufficiale. La casa scelta per la sosta è la più alta di questa zona di Jadida, a Mosul Ovest. «L’abbiamo occupata per evitare che l’Isis mettesse un cecchino sul tetto », aggiunge l’anziano della compagnia. Dalla terrazza uno sguardo generale, molto rapido per ovvie ragioni, svela il panorama di quel che resta della città: case sventrate, rottami, carcasse di auto, segni di incendi.
Nella foschia, vicina ma irraggiungibile, spicca la schiena curva del minareto pendente. È il punto di riferimento della moschea Al Nouri, luogo simbolo del sedicente Stato islamico e roccaforte degli irriducibili. È da quella direzione che arrivano i boati sordi e le raffiche continue. «Le nostre avanguardie sono ormai a 250 metri», dice trionfalmente un caporale. Forse è vero, ma l’ultima fase dell’offensiva sembra davvero lenta e piena di difficoltà per le forze irachene. «È complicato avanzare in strade così strette, abbiamo pochissimo spazio di manovra. E poi ci sono i civili: se non usassero gli scudi umani, avremmo chiuso con Daesh da mesi», conclude Hamid.
La casa di Jadida è vuota perché la famiglia che la abitava è andata via all’arrivo dei soldati. «Erano prigionieri da oltre due anni, non gli è sembrato vero di potersene andare in tutta fretta». I militari hanno scelto la camera con i tappeti per riposare, lasciando ai pasti la piccola sala con un acquario vuoto che continua a gorgogliare e l’orologio a pendolo “made in China”, fermo alle 10 meno un minuto. Sul muro il posto d’onore è per una composizione di piastrelle con la fotografia della Kaaba, il cubo sacro della Mecca, accanto a un versetto del Corano color oro. Una famiglia pia, ma non fanatica: nella stanzetta accanto, un tirannosauro viola di peluche, il portaoggetti di Hello Kitty e i piccoli poster di auto Bmw fanno pensare che per i più piccoli della famiglia non ci fossero troppe pressioni integraliste. Difficile che fossero bambini propensi a imparare la matematica con la didattica dello Stato Islamico: “Una pallottola più due fa tre pallottole”. Il brutto tempo e i resti del petrolio bruciato nei fossati hanno reso le strade opache, di un color fango che tende al verdognolo, quasi senza luce. Solo i pastelli usciti dalla cartella di uno scolaretto, scarlatto e giallo brillante, attraggono in modo quasi incongruo lo sguardo. Nell’aiuola che divide il viale, una sedia rosso scuro è l’unico oggetto rimasto intero. Da una voragine esce solo l’angolo posteriore di un camion, lo spiazzo successivo sembra un cimitero di elefanti della strada, distrutti dal fuoco. L’incrocio più avanti è bloccato dallo scheletro carbonizzato di una berlina monovolume. Sull’angolo, la porta metallica di un cortile devastato è aperta. All’interno, due altalene nere sono immobili sotto la fuliggine. Per terra, ruote di bicicletta arrugginite, resti di bidoni, blocchetti di cemento: il racconto di una normalità familiare sparita fra le fiamme.
Sotto un cornicione, in piedi per miracolo, qualcuno ha lasciato un flacone di tintura di jodio e una siringa vuota. «Non so proprio se sia roba nostra, o di Daesh», dice il soldato Mohammed Naum. Per fugare i dubbi, basta guardare il giornaletto fradicio abbandonato sul marciapiede, che si intitola Al Naba, “L’annuncio”. È il bollettino dell’Isis. Ha in prima pagina la foto di un’esplosione e spiega come l’Islam prevede che ci si comporti con i vicini di casa, sempre che anch’essi siano timorati di Dio. Per gli altri, per quelli che non seguono nel dettaglio i precetti del Corano, il trattamento è quasi duro come per gli infedeli. «Ero fuggito a Bagdad, mi hanno imposto di tornare, altrimenti avrebbero fatto del male ai miei figli», dice Bashar, guardando con affetto i giovani Mohammed e Mahmoud. «Mi hanno detto che un buon musulmano deve vivere con la sua famiglia. Ma gli uomini dello Stato islamico facevano quello che volevano, ci criticavano se uscivamo di casa, ci frustavano se non lasciavamo la barba. Sono stati mesi terribili».
Nell’incertezza sulle sorti e sulla durata della battaglia, i tre hanno comunque deciso di lasciare Mosul e arrancano nel fango con le borse di plastica sotto braccio, verso i pullman e i camion che ogni giorno portano migliaia di profughi al campo di Hamam al Alil. Lungo la strada che conduce fuori dalla zona dei combattimenti, i bambini ridono e giocano anche nel cassone dei camion, sotto la pioggia. Qualche adulto si volta a guardare la moschea dell’aeroporto, straziata dagli esplosivi come le piste dell’impianto. Poi il convoglio passa fra le ultime case della periferia, dove il Tigri ristagna in un acquitrino colorato di blu. Sui muri esterni la scritta con lo spray “Asha Daesh”, “Lunga vita allo Stato islamico”, è già stata ricoperta di vernice e si intravede appena.
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