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Informazione Corretta Rassegna Stampa
21.03.2017 Adolf Eichmann, criminale nazista, in un libro di grande interesse
Analisi di Antonio Donno

Testata: Informazione Corretta
Data: 21 marzo 2017
Pagina: 1
Autore: Antonio Donno
Titolo: «Da Buenos Aires a Gerusalemme. Vita e scritti del criminale nazista Adolf Eichmann»

Riprendiamo da "Storia del pensiero politico", IV, 1, 2015, a p. 129-144, con il titolo "Da Buenos Aires a Gerusalemme. Vita e scritti del criminale nazista Adolf Eichmann", l'analisi di Antonio Donno.

Analisi di un libro fondamentale "Bettina Stangneth, Eichmann before Jerusalem: The Unexamined Life of a Mass Murdered, New York, Alfred A. Knopf, 2014"  per capire chi era veramente Adolf Eichmann, per la prima volta con le sue confessioni. Il libro non ha ancora trovato un editore italiano.

Le note, importanti, sono al fondo della pagina.

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Antonio Donno

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La copertina e l'autrice Bettina Stangneth

Mentre noi siamo impegnati con gli ebrei per risolvere la questione ebraica, altri usano gli ebrei per mungerli per i loro scopi […]. Per questa ragione vi è un gran numero di ebrei ancora in vita che devono essere gasati1.
Otto Adolf Eichmann

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Adolf Eichmann

1. Otto Adolf Eichmann, scrive Arthur Koestler, riprendendo il giu-dizio di Hannah Arendt, «[…] non era un mostro o un sadico, ma un burocrate coscienzioso che considerava suo dovere eseguire gli ordini ricevuti, e che credeva nell’obbedienza come virtù suprema; lungi dall’essere un sadico, si sentì fisicamente male quell’unica volta che guardò lavorare il gas zyklon»2. Koestler ritiene che i crimini commessi per motivi egoistici o personali siano irrilevanti rispetto a quelli commessi «ad maiorem Dei gloriam, che sia una bandiera, un capo, una fede religiosa o politica»3. Questo sintetico giudizio di Koestler non aggiunge nulla a ciò che Arendt scrisse in Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, del 1963: tutt’al più, sta a dimostrare quale fosse il lascito di Arendt sul problema Eichmann e quanto profonda e continua sia stata nei decenni la sua valutazione del ruolo del nazista nella vicenda della Shoah. Arendt descrive Eichmann come un banale esecutore di ordini, «[…] che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo e cronometrica precisione»4. Più Arendt ascoltava Eichmann durante la sua deposizione davanti al tribunale di Gerusalemme, più si convinceva di avere di fronte un mero esecutore, spersonalizzato al punto da essere insensibile davanti alla drammaticità dei fatti che venivano narrati, ma ancora maggiormente, secondo la filosofa ebrea, davanti agli avvenimenti di cui era stato testimone ed attore: «Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua capacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano»5.

Affermazione, questa di Arendt, così esplicitata da Bernand J. Bergen: «Nel parlare di Eich-mann come di banalità del male, Arendt ha inventato un’espressione il cui fondamento ella aveva già posto nei termini della fragilità degli individui che si pensano come individui soltanto perché parlano del-la loro esperienza del significato delle cose»6. Il profilo di Eichmann che Arendt ci ha lasciato nel suo libro ha paradossalmente favorito una visione degli uomini di secondo livello del Terzo Reich, qual era ritenuto essere Eichmann, come macchine al servizio di un progetto d’immensa ambizione elaborato nelle più alte sfere del regime nazionalsocialista. Esecutori privi di pensiero ma fedeli alla causa sino alla morte. Eichmann era il rappresentante più autorevole in questa categoria: «[…] Eichmann, suggestionabile com’era dalle parole d’ordine e dalle frasi fatte, e insieme incapace di parlare il linguaggio comune, era naturalmente da questo punto di vista l’individuo ideale»7. Oggi, questo giudizio di Arendt, sostanzialmente confermato da tutti gli studi successivi su Eichmann, è rivisto e profondamente modificato dal recente studio della studiosa tedesca Bettina Stangneth, Eichmann before Jerusalem: The Unexamined Life of a Mass Murdered, originariamente pubblicato in Germania nel 2011, ed ora negli Stati Uniti8.

Stangneth non si pone in alternativa critica nei confronti del libro di Arendt, anzi, con grande rispetto, afferma che il suo libro «[…] è un dialogo con Hannah Arendt»9, ben consapevole che le circostanze dalle quali trasse spunto la riflessione della filosofa ebrea furono assai diverse da quelle che ora hanno consentito a Stangneth di rivedere così profondamente il giudizio precedente. Arendt fu presente solo inizialmente al processo di Eichmann, che si tenne nel 1961 e che fu seguito dall’opinione pubblica mondiale. Il suo libro nacque dalla valutazione di ciò che Eichmann disse durante il processo, a Gerusalemme, mentre lo studio di Stangneth esamina la grande mole di scritti di Eichmann durante la sua permanenza a Buenos Aires, cioè prima di Gerusalemme, i cosiddetti Argentina Pa-pers10. Due punti di osservazione del criminale nazista molto diversi, che hanno offerto due esiti d’analisi discordanti, per molti versi opposti. Il libro di Stangneth è un tour de force unico nel suo genere, risultato di anni di lavoro in numerosi archivi in diversi paesi, dai quali la studiosa tedesca ha potuto ricavare la quantità veramente notevole di scritti e di appunti che Eichmann ci ha lasciato durante il suo decennio di permanenza, 1950-1960, in Argentina, la sua «terra promessa», come la definì il nazista, utilizzando spregiativamente i termini ebraici per indicare Eretz Israel, la Terra di Israele. Allo stesso modo, Eichmann utilizzava i suoi contatti con le comunità ebraiche, in particolare durante la sua permanenza in Ungheria. Stangneth afferma che i rappresentanti di queste comunità si illudevano di ottenere risultati positivi per i loro ebrei e per se stessi nel momento in cui Eichmann concedeva loro ascolto e attenzione: in quel momento «[…] essi avevano già perso»11.

Parlare con loro era, per Eichmann, uno stimolo intellettuale notevole: «Amavo offrire una mano aperta ai quei funzionari ebrei […]. Per me, ‘mano aperta’ è una parola alata». Si trattava, ovviamente, di un atroce inganno: «“Negli anni avevo imparato quali ami usare per catturare quel determinato pesce”»12. Secondo Raul Hilberg, Eichmann «era un organizzatore, un manipolatore e un controllore e sviluppò l’inconsueta capacità di fare degli stessi dirigenti ebrei i suoi assistenti […]»13. In realtà, non solo questo. Per il nazista, coloro che rischiavano la loro vita per la salvezza di altri erano degni di essere vilipesi, come Raoul Wallenberg: «“Avevano orizzonti limitati, ben poco oltre l’andare in chiesa ogni domenica”»14. Ma quello stimolo intellettuale aveva un significato ben più profondo per Eichmann: egli si sentiva importante, assoluto pa-drone del destino di molti uomini, in grado di giocare con loro secon-do la propria volontà e «creatività», esecutore ma soprattutto ingegno-so inventore di soluzioni adeguate al raggiungimento del fine ultimo. «“Essere creativo nel mio lavoro […]. Escogitare nuove soluzioni per gli ebrei”»15: queste erano le parole d’ordine di Eichmann. Gli ebrei ungheresi rappresentarono la comunità su cui Eichmann esercitò al meglio la sua vena «creatrice»; la deportazione di quattrocentomila persone fu commentata con grande soddisfazione dal nazista: «Fu un risultato mai raggiunto, né prima né dopo»16.

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Hannah Arendt

Eichmann sostenne sempre, e con grande vigore, di non aver ucciso mai alcun ebreo né di aver mai dato l’ordine di uccidere un ebreo; Arendt riporta la convinta affermazione di Eichmann di non essere un uomo sordido, di aver fatto sempre il proprio dovere e di essere sempre stato ligio alla legge; e proprio per quest’ultimo motivo, non riteneva giusto di essere accusato di antisemitismo o di aver subito «[…] un indottrinamento di qualsiasi tipo [che gli] avesse provocato una deformazione mentale»17. Forse qui è uno dei punti più controversi tra la visione di Arendt e quella di Stangneth. Se per Arendt, che ascoltava le deposizioni di Eichmann a Gerusalemme, il nazista poteva anche corrispondere a ciò che egli stesso affermava di essere stato, cioè un ligio esecutore di ordini, senza alcun sentimento particolare verso la sorte degli ebrei, ma animato soltanto dall’obbligo di dare seguito agli ordini nel modo più scrupoloso, Stangneth ci fornisce un profilo di Eichmann sulla scorta della documentazione in suo possesso, risultato del grande impegno dello stesso Eichmann, durante il suo decennio di vita in Argentina, nel trasmettere ai posteri il suo pensiero sul proprio ruolo nella storia del Terzo Reich. Peraltro, il fatto stesso che il nazista abbia voluto dettare a Sassen, con puntigliosa precisione e per molto tempo, il suo punto di vista su quelle vicende, ora oggetto di esecrazione universale, per correggere le deformazioni malevole che, a suo dire, si stavano accumulando sugli uomini della Germania nazista, sta a dimostrare la personalità di uomo che non accettava il verdetto dei contemporanei perché riteneva di aver agito in perfetta buona fede, con l’impegno e la dedizione di un militare di rango cui era stato affidato un compito molto importante. Egli era fiero di questo compito e dei risultati ottenuti tanto da riferire a Sassen le sue sensazioni durante il periodo polacco, quando ebbe ai suoi piedi i rappresentanti dell’intera comunità ebraica: «Gli uomini che erano al mio comando avevano un tale rispetto nei miei confronti da spingere gli ebrei a mettermi su un trono, veramente»18. Orgoglio, soddisfazione, senso di appartenenza: erano questi i sentimenti di un nazista che si sentiva importante: «“Nessun altro aveva un nome così familiare nella vita politica ebraica, sia in patria che all’estero, quanto me”»19. Eichmann era un SS Hauptsturmfürer, era un capo: «[…] Questo Eichmann – scrive Stangneth – non aveva la minima difficoltà nel dire “Io” quando dava ordini e prendeva decisioni. Inviava dispacci, decretava, concedeva, decideva, ordinava, e dava udienza»20.

Il Lebensraum, lo «spazio vitale» che si apriva a oriente per l’espansione del Terzo Reich, permetteva ai nazisti di prendere contatto con le più grandi comunità ebraiche d’Europa e allo stesso Eichmann di esercitare il suo potere su un grande numero di sottoposti, avendo acquisito una grande dimestichezza in materia, unico a saper gestire i rapporti con i rappresentanti degli ebrei. Inoltre, aveva una buona conoscenza della storia ebraica e spesso si compiaceva di stupire i suoi interlocutori ebrei citando eventi di storia ebraica e elementi della stessa religione giudaica. Infatti, scrive Léon Poliakov nel suo fondamentale Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, apparso in Francia nel 1951, «che lo studio delle questioni palestinesi e sioniste fosse affidato, agli inizi del 1937, ad Adolf Eichmann, giovane sottufficiale delle SS, fu solo in apparenza un fatto insignificante».21 «Eichmann curava molto la sua immagine pubblica e faceva del suo meglio per migliorarla»22, scrive Stangneth. Il criminale nazista lo ammetteva con orgoglio: «“Grazie alla stampa, il nome di Eichmann era emerso come un simbolo. […] Comunque, la parola ‘ebreo’ […] era irrever-sibilmente collegata con la parola ‘Eichmann’»23. Ed ancora: «Io ero qui, lì e dappertutto, non si sapeva mai quando stessi per arrivare»24. In definitiva, secondo l’analisi di Stangneth, «Eichmann divenne un simbolo della politica anti-ebraica, esattamente come egli aveva piani-ficato di essere»25.

Arendt pone particolare attenzione nel cogliere un particolare aspetto della personalità del nazista, quando sottolinea «la stupefacente disposizione di Eichmann, sia in Argentina che a Gerusalemme, ad ammettere i propri crimini […]»26, ma in realtà Arendt non poteva conoscere il contenuto dei suoi scritti nel paese sudamericano, dai quali Stangneth ricava invece un’immagine del tutto diversa di Eichmann a questo proposito. Sia Arendt che Stangneth sottolineano come Eichmann ritenesse di essere un «idealista», ma, mentre Arendt si limita a considerare con sarcasmo quest’affermazione del nazista, Stangneth ne dà un’interpretazione più profonda. Ella ritiene che quest’appellativo che Eichmann si era dato volesse significare che il nazista desiderava essere un uomo importante per il suo paese e che l’azione che svolgeva in ogni parte d’Europa non era un crimine, ma lo svolgimento coerente di un progetto patrio volto alla maggior gloria della Germania. «“La moralità della Terra Patria che viveva in me – disse Eichmann a Sassen – semplicemente non mi permetteva […] di dichiararmi colpevole […]”»27 e Stangneth commenta che «era chiaro per Eichmann che qualsiasi verdetto di colpa per le sue azioni sarebbe stato opera della parte peggiore del mondo politico, un’azione estranea alla “moralità della Terra Patria” e perciò estranea alla visione etnica tedesca»28. 2. Nell’introduzione al suo libro, Stangneth è esplicita nell’indicare l’errore in cui era caduta Arendt. Poiché all’epoca della cattura di Eichmann ad opera del Mossad israeliano la ricerca storica sulla Shoah era ancora ai suoi esordi – nonostante la pubblicazione di opere pionieristiche, di cui si parlerà – Stangneth sostiene che il giudizio che Arendt aveva dato su Eichmann non poteva che risentire della limitatezza delle fonti, consistenti quasi esclusivamente nelle deposizioni di Eichmann a Gerusalemme; «e per questa specifica ragione, ella cadde nella trappola di Eichmann: Eichmann-a-Gerusalemme era poco più di una maschera»29.

Quando Eichmann, durante il processo, affermò orgogliosamente, ma falsamente, di essere stato lui ad aver concepito il sistema dei ghetti o il trasferimento degli ebrei d’Europa nel Madagascar, Arendt scrisse che si trattava di una vanteria che nascondeva l’incapacità di Eichmann di uscire dal suo guscio, dalla sua corazza e porsi neppure per un momento «[…] dal punto di vista degli altri»30. Invece, quella vanteria nascondeva un’altra verità, ben diversa da quella che il difensore di Eichmann si sforzava di accreditare, cioè del nazista come di una semplice rotella di un ingranaggio molto più grande di lui; e la stessa Arendt allude, senza trarne le dovute conseguenze, al fatto che Eichmann non poteva dire davanti ai suoi giu-dici che «[…] non era stato così piccolo come la difesa voleva farlo apparire»31. Stangneth analizza diversamente quella «vanteria». Era una «vanteria» che scaturiva dall’alta concezione che Eichmann aveva di se stesso; e questa concezione di sé si manifestò in lui già intorno alla fine degli anni ’30, quando egli partecipò molto attivamente all’elaborazione delle concezioni razziali all’interno di alcuni circoli nazisti, i quali crebbero d’importanza in seno al sistema generale del Terzo Reich, tanto che, di conseguenza, «[…] la reputazione di Eichmann aumentò all’interno di quegli stessi circoli»32. Egli faceva parte ormai di un’«élite ideologica». Un testimone del tempo, in una riunione di quegli anni, così disse: «E allora Eichmann entrò, come un giovane dio; a quel tempo, egli era di bell’aspetto, alto, bruno, affascinante»33. Inviato a Vienna a capo dell’appena istituito Central Office for Jewish Emigration, subito Eichmann divenne famoso, tanto che confessò a Sassen: «Tutto questo mi ha dato un’eccezionale pubblicità»34. E, una volta in Ungheria, nel 1944, così si presentò ai suoi colleghi: «Sapete chi sono io? Sono un segugio!»35.

Eichmann fu definito nei circoli che contavano lo «Czar degli ebrei» ed egli ne era immensamente orgoglioso. Il nazista divenne l’incarnazione del meccanismo della persecuzione anti-ebraica e i rappresentanti delle comunità ebraiche lo sapevano bene, per quanto sperassero in un esito diverso per le proprie comunità rispetto a quello che sarà loro effettivamente riservato. Raul Hilberg, autore di una monumentale quanto fondamentale opera sullo sterminio, è stato chiaro al proposito: «Incapace di mutare i propri atteggiamenti per cominciare a resistere, la Comunità ebraica accentuò la cooperazione fino ad accelerare l’azione nazista: in tal modo, essa stessa affrettò la propria distruzione»36. La carriera di Eichmann fu ricca di soddisfazioni. Le sue capacità organizzative lo posero all’attenzione dei suoi superiori, soprattutto di Himmler37; e «i suoi incarichi andavano via via crescendo di importanza»38, scrive Poliakov. Heydrich passò da Vienna e constatò di persona l’efficienza di Eichmann, tanto da definirlo, con un misto di ammirazione e di ironia, il suo «piccolo primo ministro»39. Eichmann aveva così approfondito la sua conoscenza dei meccanismi interni alle comunità ebraiche, soprattutto quelle dell’Europa centro-orientale, da ritenere che il progetto di «soluzione finale» potesse scorrere liscio, senza intoppi. Le relazioni che egli riusciva a intessere con i rappresentanti di quelle comunità – relazioni fatte di un misto di fermezza, condiscendenza, falsa comprensione, improvvisi irrigidimenti seguiti da apparenti concessioni – lo confortavano nella sua idea che l’eliminazione definitiva del «cancro ebraico» dall’Europa potesse essere raggiunta con un relativo dispendio di energie militari da parte del Terzo Reich e senza suscitare particolare clamore a livello internazionale, «[…] come l’estrazione indolore di un dente»40, disse Eichmann durante il processo. Solo la rivolta del ghetto di Varsavia nel 1943 e la resistenza alla deportazione degli ebrei dalla Danimarca nello stesso anno lo scossero in questa sua convinzione. Ma, nella sostanza, il suo «idealismo», come disse Eichmann, restò intatto: il suo ideale era di ripulire l’Europa dagli ebrei, con la massima efficienza, ma senza lordarsi le mani direttamente. Fare il lavoro sporco era ripugnante41: ciò che egli ricordava, durante il suo soggiorno a Vienna, era il «senso di “esaltazione” che aveva provato»42, scrive Arendt, ma sempre a livello organizzativo e gestionale, in cui egli eccelleva.

Vienna, nel 1941, rappresentò l’inizio dell’ascesa di Eichmann nella gerarchia nazista. Poi, nel dicembre 1942, fu a Terezin, nella Repubblica Ceca, dove contribuì a organizzare il cosiddetto «ghetto modello» per gli ebrei viennesi deportati dalla loro città. Qui egli perfezionò il suo modo di relazionarsi con gli ebrei del ghetto. Benjamin Murmelstein, rabbino viennese internato a Terezin, ci ha lasciato testimonianza diretta del comportamento di Eichmann verso gli ebrei: «Ingenui o furbi, anche i più appariscenti accordi fra i diversi gruppi del ghetto non garbano ad Eichmann, che vorrebbe mettere gli ebrei definitivamente uno contro l’altro per una lotta nella quale il vincitore sarebbe stato solo lui»43. Egli usò questo suo potere per trasformare Terezin in uno specchio per le allodole di fronte all’opinione pubblica internazionale. Trasferendo lì soprattutto gli ebrei vecchi o malati, egli spacciò Terezin per un luogo di riposo e cura, ottenendo, così, agli occhi del mondo, «[…] un atteggiamento compiacente nei confronti delle “evacuazioni”: capì come il ghetto avrebbe potuto nascondere la “Soluzione finale”»44, scrive David Cesarani. Ma fu in Ungheria che l’attivismo di Eichmann, ormai SS Obersturmbannführer, si palesò in tutta la sua forza. La sua megalomania lo portò quasi al parossismo: «Il risultato – scrive Stangneth – fu una terribile esplosione di attività, senza alcuna traccia di freno o cautela»45.

L’azione senza sosta di Eichmann, prima a Vienna, poi a Terezin, infine a Budapest, sostenuta da una notevole intelligenza di analisi e di elaborazione di soluzioni efficaci, dà ragione alle tesi di Stangneth, le quali completano e superano il punto di arrivo del libro di David Cesarani su Eichmann. Il libro di Cesarani, insieme agli altri suoi fon-damentali contributi sulla Shoah, rappresenta una svolta nella storio-grafia su Eichmann. Cesarani mette in rilievo, fin dagli esordi del suo studio, quanto l’impegno di Eichmann nell’organizzazione dell’emi-grazione degli ebrei austriaci fosse caratterizzato da una grande sol-lecitudine e presenza sulla scena. «Eichmann si esaltava nel lavoro – scrive Cesarani – […] Per la prima volta nella sua carriera Eichmann deteneva un potere reale»46. Quest’affermazione è di importanza cruciale, perché supera significativamente la posizione di Arendt sulla banalità della figura del nazista nello scenario della persecuzione e dello sterminio degli ebrei europei. Durante la «gestione del genocidio», titolo decisivo del quinto capitolo del libro di Cesarani, Eichmann visitò due volte Auschwitz, dove intercedette, con successo, per un prigioniero ebreo che conosceva, al fine di fargli assegnare un lavoro meno pesante. Al processo disse: «Era felicissimo, ci siamo stretti la mano, gli hanno dato la sua scopa e lui poteva sedersi sulla panchina. Sono stato molto contento»47. L’ebreo fu fucilato poco tempo dopo, naturalmente. «Questo grottesco incidente – conclude Cesarani – dimostra fino a che punto Eichmann fosse implicato nel funzionamento di Auschwitz»48. E il funzionamento di Auschwitz non comportava certo una semplice routine amministrativa, come lascia intendere Arendt, ma una lucida e intelligente capacità gestionale. Eichmann era perfettamente consapevole del proprio ruolo, che non era quello dell’esecutore, ma del «creatore», e delle proprie capacità di dare un contributo creativo, appunto, alla grande opera di purificazione del mondo dall’infezione ebraica: «[…] Eichmann stava inseguendo un nemico cosmico, un’elaborazione fantastica. Era nella natura dell’an-tisemitismo nazista il fatto che esteriormente i suoi seguaci dessero l’impressione di svolgere semplicemente un lavoro e di ubbidire agli ordini con freddezza»49.

Questo è il passaggio-chiave della critica di Cesarani ad Arendt, la quale aveva assistito al processo di Eichmann solo nelle prime battute, ricavando, secondo lo stesso Cesarani, un’immagine molto parziale del nazista e, soprattutto, sovrapponendo alle dichiarazioni dello stesso una sua personale visione delle cose, derivata dai suoi studi confluiti in quell’opera fondamentale che è The Origins of Totalitarianism. Ma, a sua volta, Cesarani non conduce fino in fondo il suo ragionamento, perché non ha potuto avere a dispo-sizione gli Argentina Papers, cioè l’immenso materiale scritto o tra-scritto durante il decennio di permanenza di Eichmann in Argentina e che Stangneth ha raccolto in anni di ricerche archivistiche. Come si è visto, questo materiale ci fornisce una chiave di lettura nuova della personalità di Eichmann, che Cesarani intravede e che Stangneth, in-vece, mette in luce e analizza in tutta la sua importanza. Questa nuova chiave di lettura risalta nella deposizione di Joel Brand, il 1° giugno 1961: «Eichmann era in piedi davanti al tavolo, a gambe larghe, con le mani sui fianchi…e gridava: direi che ruggiva contro di me. Tu… tu sai chi sono io? Io sono il responsabile della Aktion! In Europa, in Polonia, in Cecoslovacchia, in Austria abbiamo finito, adesso tocca all’Ungheria»50. E non si trattava di vanteria. 3. Ma, prima della pubblicazione del libro di Arendt, videro la luce, negli anni ’50, alcune importanti opere pionieristiche sulla Shoah, nel-le quali erano ben chiari i riferimenti al ruolo di Eichmann, anche se non ancora evidenziabile in tutta la sua portata. Il libro di documenti curato da Léon Poliakov e Josef Wulf, Das Dritte Reich und die Juden, del 1955, contiene un intero capitolo dedicato ad Adolf Eichmann. Perciò, l’attenzione degli storici più accreditati si era già rivolta al ruolo di Eichmann, definito «Grand Inquisitor without Magic», a segnala-re la sua grande capacità di gestire la situazione senza esibizionismi51. Il ruolo di Eichmann nella Conferenza di Wansee del 20 gennaio 1942, in cui si pianificò la «soluzione finale della questione ebraica», non è stato ancora definito con certezza. Alla voce «Eichmann, Adolf» del Dizionario dell’Olocausto, curato da Walter Laqueur, si legge che, «per ordine di Reinhard Heydrich, [Eichmann] progettò e scrisse i protocolli della conferenza di Wansee», e si fa riferimento alla sua già esaminata capacità grazie alla quale «elaborò il metodo con cui furono compiute le deportazioni degli ebrei dalla Germania e dagli altri paesi occupati»52.

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Raoul Hilberg

In precedenza, nell’altro ancor più pionieristico studio di Gerald Reitlinger, La soluzione finale. Il tentativo di sterminio degli Ebrei d’Europa, 1939-1945, del 1953, Eichmann è citato solo come partecipante alla Conferenza53. In Dossier Eichmann, altra importante raccolta di documenti curata da Joseph Billig e prefatta da Léon Poliakov, del 1960, realizzata dopo la cattura di Eichmann, per la prima volta s’introduce l’idea che Eichmann non fosse soltanto un mero esecutore di ordini: «Le funzioni esercitate ponevano, infatti, Eichmann proprio nel punto chiave tra le decisioni supreme e la loro realizzazione, di cui era il responsabile. Eichmann era l’ideatore di una tattica precisa, colui che dirigeva lo sviluppo pratico dell’operazione in ogni suo dettaglio: ma un tattico non può lavorare efficacemente, se non conosce per esteso tutto lo sviluppo della strategia dell’operazione»54. Si tratta di un’affermazione importante, che tuttavia non ebbe svi- luppo nella storiografia successiva su Eichmann e che soltanto gli Ar-gentina Papers, raccolti da Stangneth, hanno permesso di confermare pienamente e con ampio riscontro documentario. Ma, prima ancora, Poliakov ebbe modo di scrivere che «il suo potere e la sua autonomia di azione erano infinitamente maggiori di quanto non lasciassero supporre il grado e il posto da lui occupato; generalmente egli trattava con Heydrich e persino con Himmler, direttamente, scavalcando i superiori immediati»55.

In sostanza, negli anni che precedettero la pubblicazione del testo di Arendt, che Saul Friedländer giudica «assai controverso»56, alcuni eminenti storici avevano alluso al ruolo impor-tante, di grande responsabilità, ricoperto da Adolf Eichmann nella «soluzione finale della questione ebraica». Del resto, come afferma Friedländer nella sua fondamentale opera, «nessuna singola intelaiatura concettuale può racchiudere gli elementi eterogenei e convergenti di una storia siffatta»57, la Shoah. E questo vale anche per la personalità di Eichmann, che, lungi dall’essere caratterizzata dalla mediocrità intellettuale che gli ha attribuito Arendt, presenta quei risvolti complessi analizzati nel libro di Stangneth. Nell’introduzione a The Others Spoke, Now I Want to Speak!, Eichmann esce dal guscio e sbatte in faccia all’eventuale lettore tutto il suo ego: «”Ora è tempo per me di uscire dall’anonimato e di presentarmi: Il mio nome è Adolf Otto Eichmann”»58. E, più avanti, specifica le «vere» ragioni della guerra: «L’ebraismo mondiale ha dichiarato guerra aperta al Reich tedesco per bocca dei suoi Führers, specialmente il dr. Chaim Waitzmann»59. Eichmann considerava la guerra tedesca contro gli ebrei come il principio più alto della moralità patria e di ogni tedesco degno di questo nome: una guerra totale il cui fine era l’eliminazione definitiva del nemico, l’ebraismo; «il suo radicale biologismo – osserva Stangneth – lo portava a ritenere che la «vittoria finale» fosse imperativa: l’inevitabile guerra fra le razze ne avrebbe lasciata in vita una sola»60: era «“l’eterno destino di tutti gli essere organici – scrive Eichmann – per il quale non v’è consolazione. È sempre stato così e sempre sarà così”»61.

Ragione, giustizia e libertà erano concetti estranei alla società umana: la superiorità dei tedeschi derivava dalla loro etnicità, per gli altri non v’era storia. Eichmann non poteva che condividere la seguente concezione tipica del razzismo nazista: la mente ebraica «[…] corrompe l’umanità dei tedeschi e ne minaccia il modo di vita [perché] il suo pensiero [non] è etnicamente fondato»62, tanto che è storicamente comprovato, secondo Eichmann, che «[…] dagli inizi del Medioevo e da allora ininterrottamente vi fu un contrasto permanente tra gli ebrei e la nazione che li ospitava, la Germania»63. Una volta a Gerusalemme, Eichmann iniziò a recitare una parte completamente diversa. Come scrive Arendt, «[…] uno dei principali argomenti di Eichmann, al processo, fu appunto che nessuna voce si era levata dall’esterno a svegliare la sua coscienza […]»64. Si atteggiò a uomo semplice, cercando di dimostrare come durante gli anni del conflitto egli fosse in preda ad eventi più grandi di lui, inconsapevole della mostruosità di ciò che stava avvenendo. Anzi, egli scaricò sugli altri la colpa di ciò che aveva compiuto: «“Nessuno venne a rimproverarmi per il modo in cui eseguivo il mio dovere”»65.

Le mistificazioni di Eichmann durarono per tutto il suo processo, compresa la sua affermazione di aver agito sempre secondo i principi dell’etica kantiana, che, invece, scrive Arendt, «[…] si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza»66. Nonostante questo, non si può dire che Arendt non sia caduta nella trappola di Eichmann. Stangneth ribadisce più volte questo concetto e anzi sostiene come «[…] parte del bagaglio che [Arendt] portò con sé [a Gerusalemme] fosse costituito da concezioni e giudizi già ben radicati»67. Comunque, il libro di Arendt ha costituito per molti de-cenni il punto di riferimento per gli studi sull’idealtipo nazista e ha fatto della stessa Arendt «[…] un personaggio centrale nella storia di Eichmann, più di Eichmann stesso. E certamente, da un punto di vista intellettuale, lo è stato»68. Oggi lo studio di Bettina Stangneth ha posto fine a questo mito.

Note:

1 Anche se, secondo il giornalista e storico ungherese Uki Goñi, sembra che Eichmann stesso non fosse estraneo all’opera di spoliazione degli ebrei ricchi, anzi fosse uno dei tre «estorsori di più alto rango», accanto al generale di divisione delle SS Hans Fischböck e al capitano delle SS Erich Rajakowitch. Uki Goñi, Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l’Argentina di Perón , Milano, Garzanti, 2003, p. 90 (ed. orig., The Real Odessa: How Perón Brought the Nazi War Criminals to Argentina, London, Granta Books, 2002).

2 Arthur Koestler, Il fantasma dentro la macchina , Torino, Società Editrice Inter-nazionale, 1970, p. 317 (ed. orig., The Ghost in the Machine, London, Hutchinson & Co., 1967).

3 Ibidem.

4 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 33 (ed. orig., Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, New York, Viking Press, 1963).

5 Ivi, p. 57.

6 Bernard J. Bergen, The Banality of Evil: Hannah Arendt and “The Final Solution”, Lanham, Md, Rowman & Littlefield, 1998, p. xiv.

7 Arendt, La banalità del male, cit., p. 94.

8 Bettina Stangneth, Eichmann before Jerusalem: The Unexamined Life of a Mass Murdered, New York, Alfred A. Knopf, 2014 (ed. orig., Das unbehelligte Leben eines Massenmörders, Zurich-Hamburg, Arche Literatur Verlag AG, 2011).

9 Ivi, p. xxiv.

10 Gli Argentina Papers consistono in un lungo manoscritto, Die anderen sprachen, jetzt will ich sprechen! (The Others Spoke, Now I Wanto to Speak!) e le Sassen Inter-views, la grande mole di interviste che Eichmann rilasciò ad un altro nazista rifugiato in Argentina, Willem Sassen, giornalista danese affiliato alle SS. Eichmann, durante la detenzione a Gerusalemme, scrisse Meine Memoiren (My Memoirs) e Meine Flucht: Bericht aus der Zelle in Jerusalem (My Escape: Report from the Cell in Jerusalem).

11 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 265 (Sassen Transcripts).

12 Ibidem (Sassen Transcripts).

13 Raul Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei, 1933-1945, Milano, Mondadori, 1994, p. 44 (ed. orig., Perpetrators, Victims, Bystanders, New York, Harper Perennial, 1992).

14 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 265 (Sassen Transcripts).

15 Ivi, p. 266 (Sassen Transcripts).

16 Ivi, p. 267 (Sassen Transcripts).

17 Arendt, La banalità del male, cit., p. 34.

18 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 14 (Sassen Transcripts).

19 Ivi, p. 15 (Sassen Transcripts).

20 Ivi, p. 18.

21 Léon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino, Einaudi, 1955, p. 36 (ed. orig., Bréviaire de la Haine. Le troisiéme Reich et les juifs, Paris, Calman-Levy, 1951).

22 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 25.

23 Ivi, pp. 25-26 (Sassen Transcripts).

24 Ivi, p. 38 (Sassen Transcripts).

25 Ivi, p. 68.

26 Arendt, La banalità del male, cit., p. 60.

27 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 201 (Sassen Transcripts).

28 Ibidem.

29 Ivi, p. xxiii.

30 Arendt, La banalità del male, cit., p. 55.

31 Ivi, p. 66.

32 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 7.

33 Ivi, p. 9.

34 Ivi, p. 10 (Sassen Transcripts).

35 Ivi, p. 13 (Sassen Transcripts).

36 Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1995, p. 25 (ed. orig., The Destruction of European Jews, New York and London, Holmes & Meier, 1985).

37 Cfr. Richard Breitman, Himmler, the Architet of Genocide, in David Cesarani, The Final Solution: Origins and Implementation, London and New York, Routledge, 1994, pp. 73-84.

38 Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, cit., p. 50.

39 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 10 (Sassen Transcript).

40 Arendt, La banalità del male, cit., p. 75.

41 «Se l’avessero nominato comandante di un campo di sterminio, come il suo caro amico Höss, si sarebbe suicidato, essendo incapace di uccidere». Ivi, p. 100.

42 Ivi, p. 70.

43 Benjamin Murmelstein, Terezin. Il ghetto-modello di Eichmann, Rocca San Casciano, Cappelli, 1961, p. 39.

44 David Cesarani, Adolf Eichmann: Anatomia di un criminale, Milano, Mondadori, 2006, p. 164 (ed. orig., Eichmann: His Life and Crimes, London, W. Heinemann, 2004).

45 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 49.

46 Cesarani, Adolf Eichmann, cit., p. 80.

47 Ivi, p. 188.

48 Ibidem.

49 Ivi, p. 191.

50 Cit. ivi, p. 194.

51 Cfr. Léon Poliakov – Josef Wulf, Das Dritte Reich und die Juden, Berlin, Arani, 1955.

52 Eichmann, Adolf, in Dizionario dell’Olocausto, a cura di Walter Laqueur, Torino, Einaudi, 2004, p. 266 (ed. orig., The Holocaust Encyclopedia, New Haven, CT, Yale University Press, 2001).

53 Cfr. Gerald Reitlinger, La soluzione finale. Il tentativo di sterminio degli Ebrei d’Europa, 1939-1945 , Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 125 (ed. orig., The Final Solution: The Attempt to Exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, London, Vallentine, Mitchell, 1953).

54 Dossier Eichmann, a cura di Joseph Billig, prefazione di Léon Poliakov, Roma, Editori Riuniti, 1961, p. 2 (ed. orig., Le dossier Eichmann et la solution de la question juive, Paris, Editions du Centre, 1960).

55 Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, cit., p. 57.

56 Saul Friedländer, Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei (1939-1945), Milano, Garzanti, 2009, p. 21 (ed. orig., The Years of Extermination: Nazi Germany and the Jews, 1939-1945, New York, HarperCollins, 2007).

57 Ivi, p. 12.

58 Stangneth, Eichmann before Jerusalem, cit., p. 204 (The Others Spoke).

59 Ivi, p. 206 (The Others Spoke). In realtà, Weizmann, non Waitzmann.

60 Ivi, p. 216 (The Others Spoke).

61 Ivi, p. 217 (The Others Spoke).

62 Ivi, p. 219. La citazione è tratta da Karl Beyer, Jüdischer Intellektund deutscher Claube, Leipzig, Urmanen, 1933, p. 28).

63 Ivi, p. 227 (The Others Spoke).

64 Arendt, La banalità del male, cit., p. 134.

65 Ivi, p. 138.

66 Ivi, p. 143.

67 Richard Wolin, The Banality of Evil: The Demise of a Legend, in «Jewish Review of Books», V, 3, Fall 2014, p. 32.

68 Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann , Torino, Einaudi, 2014, p. 128 (ed. orig., The Eichmann Trial, New York, Schocken Books, 2011).


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