Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/03/2017, a pag. IV, con il titolo "Lezioni israeliane", l'anticipazione del libro del generale israeliano Yossi Kuperwasser; con il titolo "Dieci interventi per capire la minaccia globale, ed evitare pregiudizi", il commento di Nicoletta Tiliacos.
Per i dettagli della presentazione del libro domani alla Camera, ecco la pagina di IC: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=65620
Ecco gli articoli:
Yossi Kuperwasser: "Lezioni israeliane"
Yossi Kuperwasser
Terroristi palestinesi
Pubblichiamo ampi stralci del capitolo riservato a prevenzione e intelligence contro il terrorismo che fa parte del libro “A shared enemy: a shared defence. Lessons from Israel’s response to terror”, che sarà presentato domani alla Camera. L’autore di questo capitolo è il generale israeliano Yossi Kuperwasser, direttore del Project on Regional Middle East Developments al Jerusalem Center, ex direttore generale del ministero per gli Affari strategici e capo della divisione ricerche dell’Intelligence militare dell’esercito israeliano.
La lunga esperienza di Israele nella lotta al terrore lo ha portato a comprendere che il terrore è una strategia che costituisce una significativa minaccia alla sua sicurezza nazionale, anche se la maggior parte del tempo si presenta come un’azione a bassa intensità, con un impatto e un danno limitato. Questa comprensione è stata assimilata in modo graduale, dopo un lungo periodo di tempo, nel corso del quale Israele ha agito contro la minaccia come se fosse strategica, cercando al contempo di convincersi che non lo fosse. Per molti anni, soprattutto mentre la convenzionale minaccia militare da parte delle milizie arabe metteva a repentaglio la sua sopravvivenza, Israele si è riferito al terrore come a un pericolo secondario, usando l’eufemismo “minaccia alla sicurezza corrente” per concettualizzarlo.
Dal punto di vista della sicurezza nazionale, la battaglia contro il terrore è innanzitutto una battaglia di apprendimento. I risultati di questa battaglia dipendono dalla qualità dell’apprendimento da entrambe le parti. Prima riusciremo a comprendere il modo di pensare dell’altro campo – e con esso gli aspetti consequenziali della logistica e della tattica dei cambiamenti che potrebbero essere adottati, come risultato di un mutamento della cornice entro la quale la battaglia ha luogo, e della sua comprensione dei mutamenti nella nostra strategia – meglio sarà. Basandoci su questa comprensione, è chiaro che la risposta strategica alla minaccia del terrore era ed è tuttora l’abilità di convincere il terrorista che il loro è un modo di agire futile. Gli israeliani devono dimostrare ai loro avversari di essere determinati a continuare a costruire e a proteggere il loro progetto – lo stato-nazione democratico del popolo ebraico; che sono profondamente convinti che il sionismo sia giusto e giustificato; che i valori in cui credono sono nobili e valgono lo sforzo e la lotta necessari a difenderli; e che la loro causa gode di un sostegno internazionale. Allo stesso tempo, gli israeliani devono mostrare di poter trovare un modo per minimizzare il danno che viene inflitto loro tramite il terrore e, in questo contesto, indebolire le capacità dei terroristi.
Una giustificazione più profonda e malvagia per il terrore
I palestinesi non si limitano a usare il terrore come arma principale, in questa battaglia: il suo uso è di per sé una deliberata manifestazione della differenza culturale che vogliono enfatizzare. Attraverso l’uso del terrore, i suoi proponenti e attuatori cercano di recapitare il messaggio che non desisteranno da questo metodo finché non raggiungeranno il loro obiettivo, perché nella loro cultura, a differenza di quella israeliana e occidentale, la vita non è un valore sacro. Piuttosto lo sono l’onore e il sacrificio e, dunque, il diritto internazionale – fondato sui valori occidentali – a loro non si applica. Questa logica si traduce poi in slogan come “Aspiriamo a una morte onorevole più di quanto voi aspiriate alla vita”, e riferendosi a Israele unicamente come aduna “tela di ragno” facilmente distruggibile. Nei fatti, però, anche se questa retorica dovrebbe rappresentare i valori di una cultura che promuove il terrore come sublime sacrificio per una nobile causa, giustificando l’uccisione indiscriminata di civili innocenti, la realtà è che la società che si presume sostenga questa politica è assai meno determinata nell’attuarla.
Quando il pubblico si rende conto che le conseguenze di questa politica impediscono il raggiungimento di altri obiettivi, come può esserlo uno standard di vita migliore, inizia a farsi delle domande. Queste tensioni implicite causano continue frustrazioni, che possono talvolta tradursi in un cambio di politica, almeno temporaneo. L’effettivo apprendimento da parte del movimento sionista, e più tardi da parte di Israele, e lo spirito di determinazione dei sionisti ha reso possibile per Israele il superamento delle continue ondate di terrore, spesso negando ai palestinesi una vittoria strategica. Occasionalmente i palestinesi sono riusciti a raggiungere certi obiettivi provvisori, soprattutto quando si sono trovati di fronte una leadership israeliana debole, una comunità internazionale ingenua e disinformata e un pessimo abbinamento tra l’obiettivo palestinese di estirpare il sionismo e l’impulsivo desiderio israeliano di concludere un accordo di pace prematuro con gli arabi, palestinesi inclusi. Ne è risultato che i palestinesi considerano ancora il terrore come uno strumento vitale ed efficace per perseguire i propri obiettivi di medio e lungo termine. Ciononostante, sebbene fino al 1974 abbiano presentato il terrore come l’unico modo per “liberare la Palestina”, da allora alcuni palestinesi si sono preparati a impiegare altre forme di azione, tra cui le negoziazioni diplomatiche, e hanno adottato un gergo di pace, solitamente a uso esterno, nel contesto del loro “Paradigma delle due fasi”.
Lo sbilanciamento tra i gruppi terroristici e Israele (o qualsiasi altro stato occidentale nel mirino del terrore) si riflette, tra le altre cose, nei diversi modi in cui essi interpretano un successo o un fallimento operativo e strategico. I terroristi potrebbero interpretare come un successo il mero verificarsi dell’atto terroristico che ha un impatto, a prescindere dal successo degli attacchi nell’infliggere perdite al loro nemico. Ovviamente sanno che danni maggiori equivalgono a un impatto maggiore e che se riuscissero a battere in astuzia il loro nemico, conquisterebbero ulteriori punti strategici. Israele (o ogni altro stato occidentale), d’altra parte, deve stabilire come scopo operativo la prevenzione di tutti gli attacchi terroristici. Questo fatto potrebbe distorcere il significato di vittoria nelle attuali guerre terroristiche o anti terroristiche che Israele sta combattendo. Il mero successo dei terroristi nel ferire Israele o sopravvivere alle sue controreazioni viene presentato dagli stessi come una vittoria divina, nonostante Israele consideri il perpetrarsi di qualunque attacco come un fallimento, tattico o operativo che sia. Israele giudica i risultati a un livello strategico: Israele ha raggiunto i suoi obiettivi in confronti specifici? Il successo si misura sul alcuni interrogativi: se Israele ha restaurato la propria deterrenza, se ha rassicurato i propri cittadini riguardo alla sicurezza di lungo periodo, se ha ottenuto una calma duratura tra gli attacchi terroristici, e se in qualche caso i terroristi sono stati costretti a cambiare la loro strategia nel complesso. In molti casi, Israele ha raggiunto gli obiettivi che si era prefissato e può di aver avuto successo, anche se ha subito numerosi attacchi terroristici.
La “competizione sull’apprendimento” è molto importante in ogni tattica operativa che le organizzazioni terroristiche palestinesi e libanesi utilizzano contro Israele. Ogni volta che una certa tattica viene adottata da un gruppo terroristico, Israele studia un modo per difendersi contro la sfida specifica e costringe i suoi nemici ad arrendersi. Come regola, i terroristi hanno bisogno di tempo per sviluppare una nuova tattica, e Israele ha bisogno di altro tempo per sviluppare una contromossa. Con l’apprendimento, Israele ha sviluppato le sue pratiche di lotta al terrore in una varietà di aspetti che nel suo complesso comprende una strategia onnicomprensiva per combattere il terrore: prevenire e sventare attentati, deterrenza, reazione e resilienza. La prevenzione si fonda su cinque aspetti concreti. Uno: l’intelligence. Israele ha studiato meticolosamente il comportamento e la logica coltivati dal pensiero terroristico e il loro conseguente modus operandi. Così Israele ha sviluppato varie competenze su tutti gli aspetti dell’intelligence in modo da seguire le attività dei terroristi e arrivare a sventare e prevenire molti attentati con anticipo. Israele ha anche compreso, relativamente di recente, che dal momento che il terrore non bada ai confini, allo stesso modo è necessario sviluppare collaborazioni tra diversi sistemi di intelligence (quelli che riguardano la realtà locale, quelli internazionali, e la polizia d’intelligence) per fondere tutte le informazioni utili a prevenire attacchi terroristici. Ha anche realizzato che la collaborazione deve andare oltre Israele stesso e deve comprendere anche le intelligence straniere, incluse quelle che appartengono a paesi con cui Israele non ha relazioni diplomatiche.
La collezione di informazioni di intelligence è fatta nel rispetto delle leggi, ma dando la priorità alla prevenzione di attacchi più che alla privacy, laddove compaiano contraddizioni tra questi due principi. Due: protezione. Israele ha sviluppato una serie di protocolli robusti, che in molti casi sono il frutto di un processo di apprendimento in seguito ad alcune operazioni fallite. Per esempio, dopo i tentati dirottamenti di aerei israeliani, Israele ha adottato un piano di protezione sofisticata dei propri aeroporti e degli aerei civili. La stessa cosa vale per la protezione dei centri commerciali, della costa, delle sedi israeliane o ebraiche in giro per il mondo e altri obiettivi strategici. In caso di necessità, Israele ha utilizzato anche metodi di “profiling” in questo contesto. Tre: operazioni militari. Le operazioni militari giocano un ruolo importante nella protezione dei checkpoint, dei confini, delle barriere di difese, in modo da evitare l’ingresso di terroristi. Quando ci si trova di fronte a una minaccia che non può essere controllata in altro modo, Israele usa operazioni militari per sventare attentati, sulla base delle informazioni di intelligence acquisite. Ci possono quindi essere arresti quando è possibile, e blitz preventivi quando gli arresti non sono possibili.
Per mettere a punto queste operazioni militari, Israele ha sviluppato varie competenze, come munizioni, unità di soldati vestiti da palestinesi in modo da poter arrivare agli arresti senza essere scoperti o individuati prima. Una delle lezioni più importanti che abbiamo compreso riguarda il fatto che la presenza militare è necessaria nelle aree in cui i terroristi preparano i loro attacchi: senza, la prevenzione diventerebbe invero difficile. Quattro: condizionare i tentativi di costruzione degli attentati. Gli sforzi dei terroristi non possono essere sempre sventati, ma Israele ha adottato una politica per rallentare il più possibile questi tentativi, con interventi proattivi che impediscono ai terroristi di armarsi. Questo ha portato a una serie di operazione nei territori e oltre, e anche al blocco navale di Gaza che ha negato ai terroristi la possibilità di ottenere e utilizzare armi avanzate. Cinque: consapevolezza pubblica. Ogni israeliano è sempre in allerta per individuare minacce potenziali e sa che cosa deve fare ogni volta che riconosce l’esistenza di tale minaccia. Per esempio, un bagaglio abbandonato cattura immediatamente l’attenzione di qualcuno.
La reazione è basata su questi elementi: Uno: operazioni militari. Israele è sempre in stato di alta allerta per reagire militarmente o con la polizia a qualsiasi tipo di attacco terroristico. Le forze di sicurezza israeliane intervengono quasi immediatamente e sono in molti casi capaci di salvare vite. Israele ha sviluppato unità speciali, capacità e tecniche per assicurarsi un intervento efficiente. Ma Israele usa anche la sua capacità d’intelligence e militare per reagire in una maniera precisa contro i suoi nemici; Israele ha messo perfettamente in chiaro che nessuna forma di terrorismo è immune dalla punizione, che sia compiuto materialmente o semplicemente incitato. Allo stesso tempo, Israele si impegna molto più di ogni altro paese per cercare di minimizzare i danni non intenzionali che le azioni militari potrebbero provocare alle persone non coinvolte. Due: reazione difensiva. Israele ha sviluppato una quantità di strumenti che consentono di reagire difensivamente quando è attaccato da una organizzazione terroristica. L’esempio più famoso è Iron Dome (il sistema antimissile) che consente di intercettare missili e razzi. Tre: attività legale. La legge e il sistema legale israeliani sono adeguati alla necessità di combattere i terrorismo e punire quanti incitano il terrore o lo compiono. fornisce inoltre la base legale per le operazioni militari contro il terrorismo.
Tra le altre cose, la legge, che è basata in gran parte sulla legge prevalente durante il Mandato britannico, consente al governo di mettere fuori legge le organizzazioni coinvolte nel terrorismo. Le agenzie di sicurezza israeliane potrebbero in via temporanea detenere i sospetti con detenzione amministrativa se c’è la possibilità che mostrare prove in tribunale riguardanti il loro coinvolgimento con il terrorismo potrebbe danneggiare le nostre capacità d’intelligence. Israele, ovviamente, aderisce alla legge internazionale e alla legge sui conflitti armati e alla legge umanitaria. Quattro: resilienza. L’abilità di sopportare un attacco terroristico o una campagna di terrore e di recuperare in fretta è una capacità nota della società israeliana. Con una lunga storia di attacchi terroristici, gli israeliani purtroppo hanno ormai capito che il terrore è parte delle loro vite e che a volte la prevenzione e la reazione al terrore non riescono a garantire sicurezza assoluta. Ma quando capita una situazione di questo genere, il governo e la popolazione sono ben addestrati e capaci di mantenere l’ordine e una routine giornaliera normale.
Il sistema educativo, la polizia, gli agenti di primo soccorso, e il Comando del fronte domestico dell’esercito (quando necessario) hanno sviluppato una capacità speciale nel preparare la popolazione, aumentare i suoi livelli di resilienza e operare sistemi che provvedano alle necessità del pubblico. Questo erode considerevolmente l’impatto strategico del terrorismo. Cinque: deterrenza. Modellare il pensiero del nemico riguardo alla risposta attesa al prossimo tentativo di attacco terroristico in modo da convincere il terrorista ad astenersi dal compierlo è sempre un obiettivo critico dell’attività israeliana di antiterrorismo. Ovviamente, tutto ciò che è stato menzionato sopra riguardo la prevenzione, la reazione e la resilienza sono elementi che contribuiscono alla creazione della deterrenza, ma al di sopra di questo il sistema di punizione ha un ruolo significativo nella deterrenza del prossimo terrorista. Di recente, Israele ha ripreso in questo contesto la pratica di demolire le case dei terroristi. Anche la politica gioca un ruolo importante nel costruire la deterrenza.
L’impegno a non consentire al terrorismo di ottenere un vantaggio strategico è un elemento chiave in questo ambito, e con pochissime eccezioni (soprattutto negli accordi per il rilascio di israeliani rapiti) è stato tenuto dai governi israeliani. Un altro elemento importante nella strategia generale è gestire la radicalizzazione – sia la sua prevenzione sua la deradicalizzazione di quanti sono già indottrinati. Israele tenta di mobilitare la comunità internazionale per mettere pressione ai palestinesi affinché pongano fine al loro indottrinamento all’odio e alla programmazione della mente dei palestinesi a sostenere e compiere atti di terrorismo fin da giovani. Oltre a questo, Israele cerca anche di fare in modo che i palestinesi abbiano migliori standard di vita in base all’idea discutibile che se i palestinesi hanno una vita migliore, saranno meno inclini ad adottare posizioni radicali e a sostenere il terrore. In realtà, non c’è prova che esista una tale connessione. L’indottrinamento all’odio è troppo profondo e ha poco a che fare con quello che fa Israele, ma con la sua vera esistenza e con ciò che rappresenta. Per concludere, a strategia complessiva di antiterrorismo di Israele è un approccio a tutto tondo che è stato sviluppato per tentativi. Capire gli obiettivi e la strategia del nemico e il contesto in cui opera ed essere abbastanza agili da adottare risposte adeguate ha consentito a Israele di diventare il leader mondiale nella lotta contro il terrorismo
Nicoletta Tiliacos: "Dieci interventi per capire la minaccia globale, ed evitare pregiudizi"
Nicoletta Tiliacos
Fiamma Nirenstein
Roma. Per l’Europa è essenziale, nella guerra contro il terrore islamico, raccogliere e fare propria la lezione di Israele, che combatte la stessa battaglia. Il tema, già emerso in un convegno del Foglio nello scorso novembre, trova ora un importante sviluppo nell’incontro intitolato “Israele e lotta al terrorismo. Suggerimenti per l’Europa” (il 15 marzo, alle 15, a Montecitorio). Lo promuove il presidente della commissione Esteri della Camera, Fabrizio Cicchitto, e l’occasione è la presentazione del libro “A shared enemy: a shared defence. Lessons from Israel’s Response to Terror”, pubblicato dal Jerusalem center for public affairs (Jcpa), uno dei think tank israeliani più autorevoli per quanto riguarda le questioni di strategia e di lotta al terrore. In dieci interventi, alcuni tra i massimi esperti di analisi e azione politico-militare contro il terrorismo offrono un condensato dell’esperienza di un paese che quell’emergenza la affronta da sempre. Tutto nasce da un’idea di Fiamma Nirenstein, oggi direttore del Progetto Europa del Jcpa ed ex vicepresidente della commissione Esteri della Camera.
A discutere nella Sala del mappamondo con i deputati Fabrizio Cicchitto, Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli di come l’Europa può far tesoro dell’esperienza israeliana, sono chiamati, con lei, altri tre esponenti del Jerusalem center for public affairs: l’attuale presidente Dore Gold, ex ambasciatore israeliano all’Onu; Dan Diker, per anni direttore del World Jewish Congress; il generale Yossi Kuperwasser, del cui contributo è riportato un ampio stralcio in questa pagina. “Dore Gold – dice al Foglio Fiamma Nirenstein – nel libro mostra con chiarezza come il terrorismo che colpisce Israele sia lo stesso che colpisce l’Europa. Negarlo significa non prendere atto della realtà e ritrovarsi tutti più deboli. Del resto, se si pensa al primo terrorismo mediorientale, quello che negli anni Venti e Trenta fu scatenato dal Gran muftì di Gerusalemme, amico di Hitler, si capisce che già era ispirato all’integralismo islamico”.
Fiamma Nirenstein – che nel libro del Jcpa racconta i motivi profondi di quell’ethos della resistenza che aiuta il popolo israeliano a non accettare di veder stavolta e svuotata la propria vita – sottolinea il movente “di grande amicizia nei confronti dell’Europa, di volontà di sostenerla nella sfida che oggi fronteggia. Anche se, personalmente, trovo che quell’amichevolezza non sia sempre ricambiata. Vedo molta soggezione verso il mondo musulmano, e vince ancora l’idea sbagliata che il terrorismo contro Israele si fondi su ragioni territoriali, mentre quello antieuropeo su ragioni ideologiche”. Di tutti i buoni consigli che Israele può dare all’Europa, il più importante “è guardare le cose per quello che sono, senza fissarsi su un solo tipo di terrorismo. Israele ha dovuto fare una gimcana attraverso le forme diverse di attacco che nel tempo si sono presentate, dandosi ogni volta strumenti legislativi adeguati, senza mai dimenticare le ragioni della democrazia: l’ultimo aggiornamento legislativo in Israele è del 2016. Noi non abbiamo né la pretesa di essere angeli né vogliamo essere politicamente corretti. Cerchiamo di essere giusti”.
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