Riprendiamo dalla STAMPA di oggi 05/03/2017, a pa.2/3, due servizi sul Kurdistan iraqeno. L'intervista di Maurizio Molinari a Massoud Barzani e l'analisi geo-politica di Giordano Stabile.
Maurizio Molinari: " Questo Iraq è ormai finito, noi curdi avremo uno Stato"
Una intervista importante, perchè Molinari ha saputo porre le domande giuste, conoscendo bene le posizioni più serie che provengono da Israele, come quelle di Mordechai Kedar. Ha così permesso a Massoud Berzani di darci un quadro preciso di quanto sta avvenendo al popolo curdo. Un Kurdistan indipendente, diversamente da quanto voleva Obama, garantirà più sicurezza all'intera regione.
Massoud Barzani Maurizio Molinari
L'Iraq finirà come la Cecoslovacchia, noi curdi siamo pronti a governarci da soli». A dirlo, con voce tenue ma ferma, è Massoud Barzani accogliendoci nel palazzo presidenziale intitolato al Saladino. Turbante peshmerga sul capo, divisa verde indosso e bandiere di Kurdistan e Iraq alle spalle, Barzani mostra alle pareti i dipinti che descrivono la lunga battaglia dei curdi per l'indipendenza. Si sofferma davanti al quadro sull'attacco con i gas subito a Halabja da Saddam Hussein nel 1988. Presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno e leader carismatico del partito democratico curdo, il settantenne Barzani è figlio di Mustafa, eroe della resistenza nazionale, di cui punta a coronare il sogno dell'indipendenza. A prometterla ai curdi furono le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale con il Trattato di Sèvres del 1920, rimangiandosi poi tutto. Ma i confini del Medio Oriente disegnati artificialmente un secolo fa adesso stanno cambiando e Bar-zani vede nei successi dei suoi peshmerga - i combattenti «di fronte alla morte» - la possibilità di trasformare il Kurdistan in uno «Stato indipendente» destinato «a portare stabilità in una regione costellata dalle guerre» grazie al fatto di «essere costruita su valori come democrazia, Stato di diritto, diritti umani e multipartitismo». Per far capire che cosa intende ci mostra le immagini dei soldati curdi che, armi in mano, ri-posizionano la croce su una delle chiese di Bashiqa che i jihadisti dello Stato Islamico (Isis) avevano sconsacrato.
Le vostre unità guidano l'attacco a Mosul contro Isis. Gli scontri sono aspri. Come vanno le operazioni, cosa prevede?
«I terroristi hanno proclamato da Mosul il loro Califfato, la considerano una capitale ed è la seconda città dell'Iraq. Dobbiamo prenderla e l'offensiva iniziata il 17 ottobre assieme alle truppe irachene ha portato a liberare la parte a Est del Tigri. Resta quella a Ovest e sono i nostri peshmerga a guidare l'attacco, d'intesa con le forze della coalizione. Gli scontri sono duri e prevarremo. Abbiamo già pagato in questi anni un prezzo alto alla lotta contro Daesh (Isis) con oltre 1800 vittime e continuiamo a batterci perché dobbiamo batterli, rappresentano il Male».
Ogni volta che Isis perde un territorio si ritira, si disperde nel deserto e poi torna a combattere altrove. Non teme che possa avvenire anche dopo l'eventuale liberazione di Mosul?
«La caduta di Mosul non comporterà la sconfitta di Isis. Opteranno per altre tattiche di attacco, dentro e fuori la città. Per batterli bisogna sconfiggerli su più piani: ideologia, economia, società. Il loro terrore durerà ancora a lungo».
Quale sarà l'impatto di questo conflitto sull'Iraq: resterà uno Stato unito o verrà diviso in più nazioni?
«Il desiderio di tenere l'Iraq unito c'è ma la realtà dice che l'Iraq già oggi è diviso da problemi irrisolvibili. Sunniti e sciiti si combattono da 1400 anni e noi curdi siamo le vittime di questa guerra. Bisogna trovare una nuova formula di convivenza».
Perché sciiti e sunniti non riescono a convivere in Iraq?
«Sono avvenuti troppi massacri, non c'è spazio per la riconciliazione. Per questo noi curdi abbiamo deciso di andare per la nostra strada costruendo l'autonomia, escludendoci da odi sanguinosi che non ci appartengono e ci minacciano. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003 la nostra ricostruzione nazionale ha accelerato, abbiamo offerto a sunniti e sciiti di partecipare ma le loro divisioni lo hanno impedito».
Cosa vi distingue da sciiti e sunniti?
«Siamo una nazione, non una fede. I curdi sono musulmani, cristiani, ebrei, yazidi e altro ancora ma hanno una comune identità nazionale. Siamo una società basata sul riconoscimento delle identità altrui, una nazione che crede nella pacifica coesistenza, un popolo che ha diritto all'autodeterminazione e che deve essere protetto dal diritto internazionale. Sciiti e sunniti, invece, sono fedi in guerra costante fra loro».
Se il Kurdistan iracheno dovesse diventare uno Stato sovrano quale sarebbe l'impatto in questa regione segnata da contrasti aspri fra Iran, Turchia e Arabia Saudita?
«L'indipendenza del Kurdistan porterebbe a creare un'area di stabilità in questa regione. Abbiamo già visto troppo sangue, ingiustizie. La nostra è una società basata sullo Stato di diritto, il rispetto delle regole democratiche, la convivenza fra le identità diverse e il multi-partitismo. In Medio Oriente possiamo contribuire a far diminuire crisi e conflitti. E nell'interesse di tutti».
Si aspetta dunque che il presidente Usa Donald Trump abbandoni il sostegno di Barack Obama alla politica «Un solo Iraq»?
«Questa amministrazione si è appena insediata. Sappiamo che sono nostri amici ma dobbiamo saper aspettare le loro decisioni».
Nel frattempo il ruolo della Russia di Vladimir Putin continua a crescere in Medio Oriente. Come legge le mosse di Mosca?
«La Russia è una nazione grande ed importante. E utile e possibile lavorare assieme ma nel quadro del rispetto della legge internazionale, evitando scontri e incomprensioni perché la situazione è molto tesa. La Russia ha il diritto di tutelare i propri interessi nazionali ma non di fare ciò che le pare».
In Siria i combattenti curdi del Ypg controllano la regione del Rojava. Crede che la vostra autonomia possa diventare un modello istituzionale per loro, portando a un Kurdistan siriano?
«Sarebbe potuto avvenire ma purtroppo l'opportunità è andata perduta».
Perché?
«Per il semplice fatto che il Ypg ha accettato l'aiuto del Pkk turco, considerato un'organizzazione terroristica in molti Paesi. Il Ypg ha accettato anche l'aiuto del regime di Bashar Assad. Sono scelte che li hanno allontanati da noi. Spero ancora che possano ripensarci ma queste politiche errate mettono a rischio il futuro dei curdi siriani, rispondono solo agli interessi del Pkk».
La lettura combinata di quanto sta avvenendo in Siria e Iraq descrive il collasso dell'ordine creato dagli accordi di Sykes-Picot, siglati da Francia e Gran Bretagna nel 1916. Che tipo di assetto prevede per il Medio Oriente, gli Stati nazionali sopravviveranno o lasceranno il posto a entità etniche e tribali?
«In Medio Oriente come in Europa la Storia ha dimostrato che realtà statuali create dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale si sono dimostrate insostenibili, fittizie. La Cecoslovacchia e la Jugoslavia si sono dissolte come sta avvenendo oggi per l'eredità di Sykes-Picot. Bisogna chiedersi quali sono le alternative. Affinché siano migliori dobbiamo guardare ai popoli che sono stati oppressi ed hanno subito ingiustizie. Devono ricevere adeguate compensazioni con fatti concreti, sul terreno, affinché possano essere protetti e possano progredire».
Insomma, l'Iraq è destinato a finire come la Cecoslovacchia...
«I curdi hanno diritto ad avere un loro Stato, come i popoli dell'Est europeo li hanno avuti».
L'Italia è fra i Paesi che più sostiene le unità peshmerga nella lotta a Isis e ha inviato un importante contingente a protezione della diga di Mosul. Quale è stato l'impatto di tali decisioni?
«L'Italia ci garantisce un sostegno strategico, decisivo. Il vostro battaglione sulla diga ha un'importanza che investe l'intera regione. Consideriamo l'Italia un Paese amico del nostro popolo e abbiamo davanti più prospettive di collaborazione».
Dal 1991 a oggi siete riusciti a far crescere il Kurdistan fino ad arrivare a vedere la prospettiva dell'indipendenza. Lei è stato il perno di questa sfida. Cosa c'è dietro l'energia dei peshmerga?
«La cultura, l'identità della nostra gente. A cominciare dalle donne, che hanno pari diritti rispetto agli uomini. Per troppo a lungo siamo stati governati da altri: ora vogliamo governarci da soli, vogliamo dimostrare di saperlo fare».
Giordano Stabile: " Roadmap, poi un referendum.Così nascerà un cuscinetto tra potenze regionali nemiche "
Giordano Stabile
La decisione è stata presa. II Kurdistan marcia spedito verso l'indipendenza. Al palazzo presidenziale di Salahuddin è pronta una tesi per convincere la comunità internazionale e una road map per arrivare alla divisione dell'Iraq senza scatenare un'altra guerra civile, attraverso uno scambio fra la condivisione delle risorse naturali, il petrolio, e l'accettazione dell'autodeterminazione dei curdi da parte degli arabi: «Hanno già 22 Stati, possono lasciarne uno a noi». La tesi che circola al palazzo presidenziale di Salahuddin fa leva sui principi e i valori dell'Occidente. I curdi non potranno mai essere al sicuro finché non avranno uno Stato indipendente. Perché le leggi internazionali tutelano appieno solo le nazioni sovrane e il popolo curdo, nel mezzo della guerra civile islamica tra sciiti e sunniti che devasta l'Iraq, non pub essere costretto a pagare il prezzo di un conflitto che non è il suo, una «guerra religiosa, ideologica», che dura da 1400 anni e «non finirà mai». L'obiettivo è dirompente, mettere fine all'Iraq unitario. Uno Stato «che non ha mai funzionato e non potrà mai funzionare» ed è costato ai curdi anche un massacro con armi chimiche a opera di Saddam Hussein. La road map verso l'indipendenza è perb prudente, non vuole discutere i «confini internazionali», soltanto quelli interni all'Iraq. Offre al mondo un Kurdistan laico, democratico, multiconfessionale, «un cuscinetto» fra potenze sunnite e sciite, Iran, Turchia, Arabia Saudita, che darebbe stabilità al Medio Oriente. Per arrivarci bisogna passare attraverso il dialogo con il governo di Baghdad e poi un referendum. E qui arriva l'offerta: una volta indipendenti si potrà pensare a una confederazione che ridistribuisca parte delle risorse. Il Kurdistan, che ha un terzo delle riserve di petrolio dell'Iraq, è disposto a «condividere» la sua ricchezza. Prima di tutto con la componente sunnita, la più povera, la più debole dopo la caduta di Saddam, «priva di un leader unitario». E incapace di mettere a frutto le proprie risorse. II petrolio è anche la chiave per tenere la Turchia dalla propria parte. I turchi importano petrolio dal Kurdistan, in Kurdistan esportano beni di consumo, delocalizzano imprese. L'intesa fra il Kurdish democratic party (Kdp) del presidente Massoud Bar-zani e Ankara dura da trent'anni. I peshmerga del Kdp hanno aiutato l'esercito turco contro il Pkk. Un Kurdistan indipendente, è la convinzione, sarebbe accettato anche dalla Turchia. L'ostacolo vero sono gli sciiti. Favorevoli al federalismo quando erano esclusi dal potere, centralisti ora che l'hanno conquistato. La rigidità sciita è stata «una delle cause» della nascita dell'Isis. La distruzione del Califfato non risolverà il problema dell'insorgenza sunnita, pronta a riesplodere, «con altre modalità e sotto altre sigle». Qui il Kurdistan si inserisce nella dimensione regionale. In Iraq, come in Siria, l'asse sciita e l'Iran «stanno vincendo e l'Occidente sta perdendo». E i curdi non vogliono fmire «succubi» di Teheran. L'America sta facendo molti passi falsi. Compreso l'appoggio incondizionato ai curdi siriani dello Ypg per strappare Raqqa all'Isis, che ri schia però di spingere la Turchia fuori dall'orbita occidentale. Lo Ypg è «la stessa cosa del Pkk». Un movimento marxista-leninista, dove non c'è spazio per idee diverse. «Trecentomila siriani» si sono rifugiati nel Kurdistan iracheno «non per sfuggire all'Isis ma allo Ypg». C'è stato un momento in cui il Kurdistan siriano, il Rojava, poteva diventare come quello iracheno, ma quell'occasione «è stata distrutta dallo Ypg». A questo punto meglio sostenere la Turchia nella corsa a Raqqa. Un'altra offerta, in fondo: indipendenza del Kurdistan iracheno, Kurdistan siriano nell'orbita di Ankara, magari con una «forza panaraba» a tutelare gli arabo-sunniti di Raqqa.
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