Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/03/2017, a pag.23, con il titolo "A Carpi per ricordare la porta italiana all'inferno dei lager" l'articolo di Francesca Paci.
Francesca Paci
La strada per il Campo di Fossoli è un viaggio a ritroso nel tempo: i casolari agricoli si diradano man mano che ci si allontana da Carpi, l'umidità annacqua i colori, la Pianura Padana sembra ancora più piatta nel suo tendere verso il nulla. Accanto corre la ferrovia. Poi d'un tratto, dopo una curva, appaiono il cancello d'ingresso, la torretta di guardia, le baracche tristi oltre la recinzione arrugginita. Non c'e biglietteria, non ci sono negozi di libri o foto ricordo, non c'e punto di ristoro per bere un caffè. II principale snodo italiano per i lager nazisti si presenta cosi, senza mediazione, asciutto come l'incipit della poesia dedicatagli da Primo Levi, che qui trascorse un mese prima di essere caricato sul treno per Auschwitz: «Io so cosa vuoi dire non tornare./ A traverso il filo spinato/ ho sentito il sole scendere e morire». Ogni fine gennaio, in occasione della settimana della memoria, Fossoli si riempie di persone, studenti soprattutto. Ultimamente sono aumentate le famiglie e i curiosi in piccoli gruppi. Ma 30 mila visitatori l'anno sono troppo pochi per una pietra miliare del'900 italiano in cui stanno impressi i nomi degli oltre 5 mila deportati razziali e politici rastrellati da tutta Italia e spediti a Bergen-Belsen, Auschwitz, Ravensbruck, Mauthausen, Buchenwald e Flossenburg, 5 mila prigionieri di guerra alle-ati,10 mila lavoratori coatti e poi, tra il 1945 e il 1947, mille «indesiderabili», vale a dire i profughi senza documenti in fuga dall'Europa distrutta simili in tutto ai migranti di oggi. «In cosa può consistere un Museo di memorie, di emozioni, di sentimenti, di nomi di persone che "sono nel vento", insomma di reperti spirituali?» si chiede il presidente della Fondazione ex Campo di Fossoli Pierluigi Castagnetti nel nuovissimo catalogo che viene presentato nel pomeriggio a Carpi dal ministro della Cultura Franceschini. Il Campo, con la sua essenzialità che non concede nulla alla retorica della memoria, è una risposta potente. Aperto nel 1942 come carcere a cielo aperto per i prigionieri di guerra e inserito subito nella logistica della macchina di morte nazi-fascista è stato poi abitato a più riprese dai fantasmi dell'Italia del boom, i mille orfani di don Zeno Saltini fino al 1952, le oltre 150 famiglie di profughi giuliano-dalmati tra il 1954 e il 1970. Quando nel 1973 il presidente della Repubblica Leone e il presidente della Camera Pertini inaugurano a Carpi il Museo Monumento al Deportato Politico e Razziale il campo è in abbandono da tre anni. Poi la storia dei due luoghi, legati dal sangue di vincitori e vinti, torna a intrecciarsi. Il museo del deportato viene realizzato a Carpi per via del campo di transito, distante una decina di chilometri, che però nel 1962, all'epoca del bando, ospita ancora i profughi. Nel 1984 una legge dello Stato assegna al Comune di Carpi le baracche descritte da Levi anche in Se questo è un uomo su cui nel frattempo hanno sovrascritto la loro vita altri diseredati. L'idea è quella di creare un sistema della memoria che faccia da cornice alla Spoon River padana e in cui lo spirito di ebrei e prigionieri politici fluttui sulla terra dei partigiani in un gioco di rimandi speculari. Il Campo parla in silenzio, «un sito archeologico senza orpelli» lo descrive la direttrice della Fondazione Fossoli Marzia Luppi. II museo, ospitato nel maestoso palazzo dei Pio, urla: a parte alcune opere di Guttuso, Leger, Picasso, Cagli e Longoni, ci sono gli oggetti e le lettere dei deportati, poca roba dal valore simbolico più che documentario. Ma le pareti raccontano le parole dei condannati a morte della Resistenza europea guidando il visitatore in un percorso che culmina nella sala dei nomi, l'appello muto di migliaia di anime inciso sulle volte a sesto acuto della cattedrale laica della memoria. Maestoso.
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