Riprendiamo da SHALOM di febbraio, a pag.18, con il titolo "La guerra del futuro si combatterà in Rete", l'analisi di Daniele Toscano.
Daniele Toscano
Istituzioni e imprese mantengono a lungo i loro dati nei sistemi, lasciandoli vulnerabili di fronte a potenziali minacce. Il cyberspazio infatti è diventato la quinta dimensione in cui si combattono i conflitti, dopo terra, acqua, aria e spazio extra atmosferico. Anche la sicurezza israeliana non può prescindere dunque dall’aspetto informatico. Negli ultimi anni, infatti, lo Stato ebraico ha subito milioni di cyber attacchi (2 milioni in un solo giorno nel 2014, durante la guerra contro Hamas), senza però che vi fossero conseguenze sensibili sulle infrastrutture critiche della nazione o danni di altro genere. Questo perché Israele si è da tempo rivelato all’avanguardia nel settore: un primo episodio risale già al 2010 con il virus “Stuxnet”, sviluppato dagli Stati Uniti durante la presidenza Bush e nel primo mandato di Obama proprio insieme a Israele per combattere una cyberwarfare contro gli impianti di arricchimento dell’uranio iraniani. Secondo gli ufficiali americani, Stuxnet riuscì a prendere il controllo e a distruggere le centrifughe dell'impianto di Natanz. Negli anni queste capacità sono cresciute continuamente: nella prima metà del 2016, questi investimenti sono più che triplicati rispetto all’anno precedente; anche le esportazioni hanno visto un incremento del 15%, facendo di Israele il secondo Paese al mondo dopo gli Stati Uniti in termini di investimenti nella cybersicurezza. Le aziende israeliane si sono anche lanciate alla conquista di mercati esteri, mentre in Israele operano già circa 300 aziende straniere, molte delle quali sono start-up; parallelamente, 25 multinazionali tra cui IBM, Cisco and Lockheed Martin conducono operazioni di ricerca e sviluppo proprio nello Stato ebraico. La crescita di competenze in questo settore è evidente: nel 2015 ben sedici aziende israeliane di cybersecurity erano nella top list di Cybsersecurity Ventures; nel 2016 sono arrivate a ventisei. Un processo virtuoso favorito anche dall’arrivo di investimenti stranieri nel campo della sicurezza informatica, del big data e del cloud computing. E le istituzioni stanno dando il loro contributo, all’insegna di un’efficiente concertazione tra pubblico e privato: nel dicembre scorso, Israele e Stati Uniti hanno firmato un trattato per rafforzare gli sforzi congiunti in materia. Un momento di alta cooperazione tra i due Paesi: in quell’occasione, il deputato americano James Langevin ha dichiarato che la cybersicurezza è “la sfida economica e nazionale dei nostri tempi. […] Per questo dobbiamo lavorare con i nostri partner-guida come Israele per sviluppare nuove tecnologie in questo campo”. La strategia che ha in mente il governo israeliano è chiara da anni e mira a unire imprese, mondo accademico e sfera militare, senza dimenticare il ruolo fondamentale dell’intelligence. A fine gennaio, a Tel Aviv, non a caso si è tenuta la Cybertech, la manifestazione internazionale di tecnologie cibernetiche più importante fuori dagli USA. In quest’ottica è iniziata anche la valorizzazione dell’area del deserto del Negev, divenuto in questi anni sempre più polo tecnologico del Paese. Il maggiore centro dell’area, Be’er Sheva, sembra destinata a diventare una nuova San Francisco, “il più importante cybercenter dell’emisfero occidentale”, secondo un discorso di Netanyahu del 2013: parole ritenute allora eccessivamente ottimistiche, ma ad oggi quasi profetiche.
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