Riprendiamo oggi, 24/02/2017, da IL FOGLIO, LA REPUBBLICA, IL MANIFESTO alcuni articoli che vedono protagonista Donald Trump e la sua politica mediorientale.
Da quando Trump è stato eletto presidente, continua - e se possibile è in aumento - una attenzione ossessiva, mirata a distorcene l'immagine. IC si basa sui fatti, non sulle ideologie. Partendo da questo assunto ecco i nostri commenti.
Il Foglio-Daniele Raineri: " Trumpiani sauditi "
Ciliega o elefantinio, è sempre Giuliano Ferrara che decide come si deve schierare il Foglio. Trump va delegittimato, non passa giorno che Ferrara non lo riempia di insulti, persino Daniele Raineri, di solito equilibrato, nel pezzo di oggi si allinea ai voleri del capataz, sino a criticare l'Arabia Saudita, prendendo quasi le difese dell'Accordo di Obama con l'Iran.
Roma. Quando la settimana scorsa il direttore della Cia nominato da Trump, Mike Pompeo, è comparso nella capitale saudita Riad nel corso del suo primo viaggio e ha premiato l'erede al trono per i suoi sforzi contro il terrorismo, tutti abbiamo potuto cominciare a farci un'idea di come sono i rapporti tra la Casa Bianca e la Casa dei Saud, ovvero i regnanti sauditi: molto amichevoli, più di quanto si potesse prevedere durante la campagna elettorale. Certo, il principe Mohamed bin Nayef premiato dal direttore della Cia è davvero un campione della lotta al terrorismo e ha mostrato una tale efficacia contro gli estremisti domestici e all'estero che il più abile bombarolo di al Qaida in Yemen, Ibrahim al Asiri, ha provato ad assassinarlo mandandogli suo fratello minore con la scusa che voleva pentirsi e rivelare informazioni sul gruppo - e aveva una bomba nascosta nel retto (il fratello è morto, Bin Nayef no). Ma l'iniziativa conferma una simpatia discreta che si era già compresa dopo che l'Amministrazione Trump aveva escluso l'Arabia Saudita dalla lista dei sette paesi a rischio terrorismo dell'ordine esecutivo conosciuto come muslim ban - poi annullato da un giudice federale americano. E pensare che in campagna elettorale uno dei cavalli di battaglia dei trumpiani contro Hillary Clinton erano i suoi rapporti con i sauditi - la senatrice aveva accettato donazioni destinate alla Fondazione Clinton - e che nel clima da apocalisse politica erano presentati sotto una luce sinistra, per far intendere che la Clinton era la candidata manipolata dai sauditi. Nel frattempo, nella stessa campagna Trump registrava otto compagnie commerciali in Arabia Saudita, ma la notizia è venuta fuori soltanto a gennaio, quando ormai i giochi per la presidenza erano già fatti. Come sempre, corsa elettorale e governo sono cose diverse. Il punto è che l'Amministrazione Trump è orientata con forza a un confronto contro l'Iran e accusa l'Amministrazione precedente di Barack Obama di essere stata troppo soffice e cedevole con Teheran. In questa contrapposizione destinata a inasprirsi, i sauditi diventano partner naturali perché assieme a Israele sono i rivali più forti dell'Iran nella regione mediorientale. Nella prima settimana del mandato l'Amministrazione Trump ha parlato di intensificare l'intervento militare in Yemen a fianco dei sauditi e contro i ribelli considerati fdloiraniani. E questo non è che un frammento di quello che potrebbe succedere. Un articolo del 15 febbraio del Wall Street Journal rivela che l'America sta esplorando l'idea di creare un'alleanza militare che include i regni sunniti del Golfo - inclusi i sauditi - e Israele, che avrebbe come primo obiettivo quello di condividere intelligence. Suona come fantascienza, perché l'Arabia è ovviamente un paese arabo e quindi non ha relazioni diplomatiche con Israele, ma il 19 febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman - come definirlo? Il contrario di una colomba - ha detto di essere preoccupato perché l'Iran sta tentando di indebolire l'Arabia Saudita e ha chiesto un dialogo con i regni sunniti per battere gli elementi "radicali" nella regione. Avrebbe potuto dire soltanto "per battere l'Isis", ma non si riferiva soltanto all'Isis. "La vera divisione non è fra ebrei e musulmani, è fra estremisti e moderati", ha detto, e ha aggiunto che si aspettava un commento del ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir. Il ministro saudita ha replicato che "il 2017 potrebbe essere l'anno della pace fra l'Arabia saudita e Israele". Capito lo schema? Il sito trumpiano per eccellenza, Breitbart, ha lodato questa intesa embrionale come effetto della presidenza Trump. L'Iran comprende cosa sta succedendo, ovvero il materializzarsi di un bizzarro fronte unico contro Teheran, e infatti il capo delle Guardie rivoluzionarie iraniane due giorni fa ha detto che il paese è pronto "a dare uno schiaffo in faccia all'America". Anche i russi - che degli iraniani sono alleati, vedi guerra in Siria - capiscono dove si sta andando a parare e infatti ieri un editoriale di Russia Today, sito governativo, protestava che "non è l'Iran il paese principale sponsor del terrorismo, è l'Arabia Saudita"
La Repubblica-Alberto Flores D'Arcais: " Arsenale nucleare più forte "
L'atteggiamento di Repubblica è allineato con i quotidiani mainstream. Flores D'Arcais fa quello che può, il suo pezzo è come sempre anomalo rispetto alla linea del giornale. Lo si legge pensando 'tieni duro'.
NEW YORK. Aumentare l'arsenale nucleare per fare degli Stati Uniti il "top of the pack", la più potente di tutte le nazioni che hanno l'atomica. In una intervista nello Studio Ovale data ieri alla Reuters, Donald Trump è tornato a parlare - questa volta con il timbro della Casa Bianca - della corsa al riarmo nucleare sostenendo che gli Usa sono adesso indietro rispetto alle proprie capacità ed attaccando la Russia per il missile'cruisé recentemente dispiegato dal Cremlino inviolazione del trattato sul controllo delle armi ( ne parlerò con Putin al primo incontro" ). Si è detto «molto arrabbiato» per i test missilistici della Corea del Nord e ha sottolineato come una delle diverse opzioni disponibili per fronteggiare la minaccia di Pyongyang sia quella di accelerare la realizzazione di un sistema di difesa missilistico per gli alleati Usa nella regione quali Giappone e Corea del Sud. Il presidente americano si rivolge quindi anche alla Cina spiegando che «se volesse» potrebbe risolvere le sfide sul fronte della sicurezza poste dalla Corea del Nord «molto facilmente», alzando il livello di pressione sul regime di Pyongyang. Un'intervista a tutto campo, in cui ha parlato di Cina ( definita un «grande campione nella manipolazione della valuta») della'border tax', la tassa doganale ( «incoraggerà le aziende americane a tornare negli Usa e a costruire fabbriche qui» ) e si è detto «totalmente in favore» di un governo dell'Unione Europea. Un'intervi sta arrivata in un giorno particolare per le forze della destra riunite a Washington sul palco della Conservative Poli-tical Action Conference (Pcac) in un'atmosfera assai diversa da quella di un anno fa quando i conservatori ragionavano ancora se si dovesse puntare su un altro Bush e Donald Trump era guardato con sospetto ( quando non veniva apertamente deriso ). Star della giornata ( oggi interverrà lo stesso presidente) Steve Bannon, lo stratega, l'eminenza grigia ( per i nemici l'anima nera ) della Casa Bianca, uomo che lavora dietro le quinte e nell'ombra decide la 'linea' e il destino di molti. Ha rivendicato con orgoglio la vittoria ( «noi non avevamo soldi rispetto ad Hillary ma sapevamo che avremmo vinto già dal 15 agosto», e ha assicurato che le promesse verranno mantenute: «il presidente è concentrato in modo maniacale sull'agenda». Fra i punti che si dovrebbero conoscere nelle prossime ore, anche i provvedimenti per restituire un ruolo alle agenzie di sicurezza private nelle carceri Usa: a ridurre di molto il loro ruolo era stato Obama, citando abusi e problemi. Ma secondo un documento ottenuto da Nbc Trump si prepara a tornare indietro.
La Repubblica-Federico Rampini: " Un porta a porta contro i vecchi notabili, la sinistra ripartre nel nome di Sanders "
Federico Rampini è tutto l'opposto del giornalista 'well balanced', sa che deve continuare a sparare contro Trump con il cannone, il che gli impedisce la dovuta concentrazione. Fino al punto di scrivere che la sinistra americana punta su Bernie Sanders, che non era riuscito neppure a sconfiggere Hillary Clinton. Il pezzo è una apoteosi stucchevole di Obama, dispiace per Rampini, scrive bene, perchè si riduce a fare l'imitazione di Zucconi?
NEW YORK. «I giornali sono l'opposizione». L'accusa di Donald Trump si può leggere a rovescio: dov'è l'opposizione politica, che fa il partito democratico? E ancora sotto shock come un pugile suonato? Si accontenta di occupare le piazze? Rincorre giorno per giorno i tweet presidenziali o i suoi ordini esecutivi, lasciando così che sia lui a dettare l'agenda? La loro risposta i democratici la danno domani ad Atlanta, al raduno dei 447 delegati nazionali per designare il nuovo presidente del partito. Intanto alla periferia è in corso la rivincita di Bernie Sanders: contea per contea. Emulando il metodo vincente che fu del Tea Party a destra, l'ala sinistra dei dem con organizzazioni capillari come Move.On sta mobilitando la base per fare fuori i vecchi notabili uno alla volta, e conquistare posizioni in tutte le cariche elettive, cittadina per cittadina, quartiere per quartiere, dai consiglieri comunali ai deputati nelle assemble legislative dei singoli Stati. È una lotta che ha un calendario e un traguardo: nel novembre 2018 si vota in tutta l'America per le legislative di mid-term, in palio c'è l'intera Camera e un terzo del Senato. Può essere l'occasione per strappare ai repubblicani almeno uno dei due rami del Congresso, e da quel momento in poi rendere la vita dura a Trump. Ma bisogna prepararsi fin d'ora. ave- E anche Obama toma sulla scena: la sua Ong apre il primo ufficio a Washington re i candidati giusti, i messaggi convincenti, una strategia positiva. Non basta sognare l'impeachment, denunciare rischi di deriva autoritaria. Una campagna tutta negativa, un referendum su Trump, può finire con una brutta sorpresa come l'8 novembre 2016. Intanto lui "gioca" coi democratici come ha sempre fatto. Proprio alla vigilia del loro raduno nazionale gli ha lanciato addosso la questione transgender. Ha cancellato un'altra delle riforme di Barack Obama: la possibilità per gli studenti transgender nelle scuole pubbliche di scegliersi il bagno che vogliono, in corrispondenza con quella che sentono essere la propria identità sessuale. E un tema che già agitò la campagna elettorale nel 2016. Per la destra religiosa è un'altra discesa verso gli inferi, verso Sodoma e Gomorra, dopo i matrimoni gay. Hillary Clinton sostenne la decisione di Obama come una scelta di civiltà. Trump non ha principi né valori in questo campo, sui matrimoni gay in passato è stato favorevole ( anche per l'influenza della figlia Ivanka). 11 suo è un cinico calcolo di aritmetica elettorale. La destra religiosa, a cominciare dagli evangelici e cristiani rinati, è un esercito disciplinato che vota compatto, e lo ha sostenuto. La sinistra che si infiamma e si mobilita sui transgender, rischia di apparire di nuovo come il partito di tutte le minoranze, regalando ai repubblicani la maggioranza silenziosa dei bianchi. La battaglia per la presidenza del partito democratico è un passaggio importante anche se questa carica non è potente come quella di un segretario di partito europeo. 11 chair del Democratic National Committe però ha una funzione organizzativa cruciale, tira le fila della macchina elettorale e si è visto come nel 2016 questo abbia dato un vantaggio a Hillary: le email di WikiLeaks rivelarono le manovre della ex-chair Debbie Wassermann per boicottare Sanders. In più, nell'attesa che comincino a emergere dei presi-denziabili per il 2020, il o la presidente del partito diventerà un volto familiare nei talkshow televisivi, un portavoce dell'opposizione. Otto candidati si affrontano domani ad Atlanta, e due sono i favoriti: Tom Perez ex ministro del Lavoro; Keith Ellison deputato del Minnesota. Perez ha ereditato l'appoggio delle stesse constituency che sostenevano Hillary. Ellison invece si pone nella continuità con Sanders, e con la battagliera Elizabeth Warren. Un outsider è Pete Buttigieg, sindaco di South Bend nell'Indiana, appoggiato dall'ex presidente del partito Howard Dean. Ellison in un dibattito alla Cnn mercoledì sera ha sostenuto una linea dura, ha detto che «la questione dell'impeachment è legittima, Trump ha già violato la Costituzione, dobbiamo impedire che usi la presidenza a fini di arricchimento personale». Buttigieg ha de *** nunciato però il rischio di farsi risucchiare in un ruolo di puro contrasto a Trump. «Lui — ha detto Buttigieg — è come un virus informatico che ha contaminato il sistema politico. Dobbiamo combatterlo. Ma guai se riuscirà a dominare la nostra immaginazione». Intanto si riaffaccia Obama: ha diffuso una email a tutti i suoi simpatizzanti, perché accettino di far parte dell'indirizzario della sua nuova Ong. Sta aprendo un ufficio a Washington, altri verranno presto a New York e Chicago. Non farà politica gettandosi nella mischia quotidiana. Ma molti andranno a cercarlo, per chiedere consigli a colui che conquistò due volte la Casa Bianca.
Il Manifesto-Michele Giorgio: " Una Nato araba contro l'Iran, Israele alla corte di Riyadh "
Come succede spesso a Michele Giorgio, involontariamente riesce a informare a sua insaputa. Racconta, senza condividere, anzi, i rapporti Usa, Nato, Israele Arabia Saudita nei confronti dell'Iran. Il suo citare continuamente Tel Aviv, come se fosse la capitale, invece di diventare stucchevole, riesce persino a far sorridere, come la difesa di Rouhani, che prova le testate dei missili con su dipinta la parola Israele, presentandolo come un moderato! Giorgio teme l'alleanza arabo-israeliana-americana, ma dovrà farsene una ragione. Il cattivo Trump proprio questo ha in mente e ha detto che manterrà la parola data in campagna elettorale. L'Iran è preoccupato. Noi no.
Chiamatela Nato Araba o, se preferite, Nuova Nato Araba visto che se ne parlò già al vertice di Sharm el Sheikh. Fatto sta che l'Iran deve ritenere cosi concreta la possibilità che alcuni paesi arabi possano coalizzarsi militarmente e rinnovare su nuove basi l'alleanza con gli Usa di Donald Trump, fino ad aprirsi ad una collaborazione strategica con Israele, che ha chiesto di scendere in campo al suo presidente moderato, Hassan Rouhani, per avvertire i "fratelli arabi" di non farsi attirare dai tentativi dello Stato ebraico di trovare alleati nella regione. Parlando mercoledi ad una conferenza, Rouhani ha invitato gli arabi a pronunciarsi contro qualsiasi avvicinamento a Tel Aviv. Tehran sa già che quel pronunciamento non ci sarà.Il dialogo a distanza, alla conferenza annuale sulla sicurezza tenuta qualche giorno fa a Monaco, tra il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman e il ministro degli Esteri saudita Adel Jubeir ha confermato quanto si siano fatte strette le relazioni tra Tel Aviv e Riyadh. Lieberman ha usato buona parte del suo intervento per ripetere le accuse che Israele muove all'Iran. «Credo che per la prima volta dal 1948 il mondo arabo moderato, sunnita, comprenda che la più grande minaccia non è Israele, non gli ebrei e non il sionismo, ma l'Iran e i proxy iraniani», ha aggiunto il ministro israeliano riferendosi al movimento libanese Hezbollah e ai guerriglieri Houthi in Yemen. Musica per le orecchie del capo della diplomazia saudita Jubeir che ha ricambiato parlando della pace da realizzare per palestinesi e israeliani. Nelle ultime settimane, in particolare dopo l'incontro con Trump alla Casa bianca, il premier israeliano Netanyahu è tornato a rilanciare la sua tesi, vecchia ormai di due-tre anni, di un mondo arabo sunnita pronto ad intavolare un dialogo strategico con Israele e sempre meno interessato alla questione palestinese. Per Netanyahu la soluzione al conflitto pub e deve essere trovata nel quadro di un ampio coinvolgimento di questi paesi arabi. L'ipoteca NATO ARABA, aperta a Israele e forte dell'appoggio dell'amministrazione Trump tornata ad agitare il pugno di ferro con l'Iran, è al centro di un dibattito intenso sulla stampa regionale o, per essere più precisi, di quei paesi — Arabia saudita, Emirati, Egitto e Giordania — che dovrebbero mettersi alla sua testa della coalizione militare. I commentatori, il più delle volte, cercano di rappresentare le posizioni dei loro governi. «Questa Nato in stile arabo è una risposta naturale alla politica di Tehran — spiega Abderrahman ar Rashed su al Sharq alAwsat, megafono della monarchia Saudita — Emirati, Egitto, Giordania e Arabia saudita cercheranno di mettere in piedi una forza militare che dovrà contenere l'Iran presente in Iraq e Siria e la sua influenza in Libano e Yemen favorita dal vuoto generato dalla linea della passata amministrazione Usa».
AR RASHED SMINUISCE il peso del rapporto con Israele: «Ciò che viene detto a proposito della cooperazione araba con Israele è una mera speculazione sul ruolo di un'alleanza che deve ancora essere formata. E anche se fosse vera, questa cooperazione comunque rimarrà segreta e limitata». È la linea del re saudita Salman: lavorare, sempre di più, con Israele ma sempre dietro le quinte, per non attirare le proteste delle masse arabe contro il regno custode di Mecca e Medina. Imaduddin Hussein, sul quotidiano egiziano al Shurouq, al contrario non esita a criticare il ruolo della Nato Araba. Molti governi (arabi), ricorda Hussein, hanno tenuto negoziati segreti con «il nemico» e anche firmato con esso accordi mantenendo a parole posizioni dure contro Israele per paura della reazione dei loro popoli. Possiamo essere in disaccordo con l'Iran — spiega Hussein —perché alcune delle sue politi che sono ostili alla nazione araba ma siamo anche d'accordo con la linea di Tehran nei confronti di Israele. Quindi — esorta — sosteniamo i fratelli arabi nel loro disaccordo con l'Iran senza per) allearci con Israele contro l'Iran». E questa è, più o meno, la posizione del presidente egiziano al Sisi, che negli ultimi tempi ha preso le distanze dall'integralismo anti-iraniano di Riyadh e lanciato a Tehran segnali di apertura. Secondo Sadi as Sabi del quotidiano iracheno as-Sabah, la Nato Araba sarebbe prima di tutta una reazione di alcuni paesi all'elezione a presidente di Trump e al desiderio di re Salman di sottrarsi al procedimento giudiziario in corso negli Usa sul presunto coinvolgimento saudita negli attentati alle Torri Gemelle. As Sabi non crede alla Nato Araba, a suo dire questa idea tramonterà presto come tramontò eil Patto di Baghdad istituito nel 1955 con il pretesto di affrontare l'espansione comunista in Medio Oriente e che comprendeva il Regno Unito, l'Iraq, la Turchia, l'Iran e il Pakistan». Senza dimenticare che tra i petromonarchi del Golfo non tutti guardano con ostilità a Tehran. Kuwait e Oman contestano la logica dello scontro che portano avanti l'Arabia saudita e gli Emirati.
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