Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 23/02/2017, a pag. 2, con il titolo "Così i media tedeschi riescono a contenere l’arrembaggio populista", l'analisi di Daniel Mosseri.
Daniel Mosseri
Martin Emmer, professore di Giornalismo e Comunicazione alla Freie Universität Berlin
Berlino. Divorano notizie, sono abbonati a uno o più giornali, di quelli che la domenica pesano un quintale fra supplementi patinati e approfondimenti di cultura, attualità, sport ed economia. Non contenti, ascoltano anche radio e tv alla ricerca di altre notizie e opinioni. I tedeschi amano la stampa. E’ una tradizione che parte da lontano: per qualità e diffusione, i quotidiani erano il fiore all’occhiello della Germania imperiale, prima ancora cioè della Repubblica di Weimar (1918). Il nazismo ci mise poi del suo, promuovendo la produzione di radioricevitori a basso costo, affinché ogni famiglia tedesca potesse sintonizzarsi sulla propaganda di Goebbels. In tempi più recenti, racconta al Foglio Martin Emmer, professore di Giornalismo e Comunicazione alla Freie Universität Berlin, sono stati gli alleati a dare nuovo impulso alla grande diffusione e penetrazione dei media in Germania. Alla fine della Seconda Guerra mondiale gli americani lavorarono a un sistema di informazione “di alta qualità, bilanciato e pluralistico”. Grande impulso ricevette la carta stampata, con l’avvio di numerose testate a livello locale e regionale. La moltiplicazione dei centri di produzione delle notizie, come reazione a una propaganda nazista centralizzata, divenne la regola e finì per plasmare anche il sistema radiotelevisivo. Ancora oggi le trasmissioni del primo canale della tv pubblica (das Erste) sono il frutto del lavoro di Ard, consorzio di nove emittenti regionali, presso le quali l’informazione prevale sui volti abbronzati, i trastulli a premi, le risse e le scollature abbondanti cui ci ha abituati da anni Rai tivvù. Come altrove, anche in Germania le vendite dei giornali sono oggi in declino “specialmente presso i giovani”, spiega Emmer.
Anche la Repubblica federale è però un paese di anziani, per cui “il numero delle copie vendute resta decisamente più alto che in molti altri paesi”; i quotidiani continuano a pesare nel portfolio informativo dei tedeschi. Questo vale nell’ovest ex alleato quanto nell’est ex sovietico, dove i lettori sono rimasti legati alle stesse testate controllate fino a poco prima dal regime socialista. Con il crollo del muro di Berlino gli editori occidentali si aspettavano una fuga in massa verso i loro quotidiani, “ma ha prevalso l’interesse per le notizie locali e regionali”. Anziché allargare la propria rete di distribuzione o fondare nuovi quotidiani, gli editori dell’ovest si sono dunque comprati i sedici giornali dell’est, cambiandone i contenuti: sorprendentemente i nomi delle testate e i lettori sono rimasti gli stessi. Ventisette anni dopo la riunificazione, l’acceso ai media avviene nello stesso modo in tutto il paese, e se la carta stampata perde qualche colpo davanti al web, lo stesso non si può dire della televisione, che viene guardata i media per non meno di quattro ore al giorno, “anche dai giovani altamente digitalizzati e lontani dai giornali”. Secondo Emmer fra le poche declinazioni regionali nella formazione delle opinioni ne resiste una culturale, “ossia il maggior attaccamento alla Russia all’est”.
Se c’è invece una discrepanza apprezzabile nel comportamento dei tedeschi davanti ai media, la sua origine non è geografica ma generazionale: “Sebbene la diffusione di Internet sia in constante crescita, esiste un digital divide fra i giovani e gli over 50, per i quali la fruizione delle notizie non è cambiata”. I giovani vanno dunque online mentre i baby boomer vanno in edicola. Anzi, non ci vanno per nulla visto che in Germania circa l’80 per cento dei quotidiani è venduto tramite abbonamento, un sistema vecchio di oltre cento anni, che da un lato premia il lettore fedele e che dall’altro ha salvato molte testate dalla morte per web. Le eccezioni non mancano, con la Bild in testa e il suo mix di scoop e titoloni per attirare l’attenzione del passante. In generale, però, il giornale arriva a casa. “E’ anche una questione di qualità del prodotto – spiega il professore ricorrendo a un esempio personale – I miei genitori sono soddisfatti del quotidiano regionale al quale sono abbonati da tempo, per cui non sono particolarmente interessati a cercare le notizie sul web”. C’è tuttavia anche chi sulla stampa vorrebbe trovare qualcos’altro. Il linguaggio razzista, xenofobo o revisionista, per esempio, è bandito dai media tradizionali ed è proprio ai siti web e ai social media che molti degli elettori di Alternative für Deutschland, il partito populista euroscettico e anti immigrati, fanno riferimento a prescindere dalla propria età anagrafica. Non è dunque un caso che la Germania sia il primo paese d’Europa ad avere tentato di estendere ai social media i principi di political correctness fatti propri da decenni dalle testate tradizionali. “Il consenso antirazzista e antinazista è ampio e condiviso nel paese”, aggiunge lo studioso, osservando come di conseguenza oggi non esista alcun quotidiano rappresentativa della nuova destra.
Fra la Frankfurter Allgemeine (Faz), giornale del blocco conservatore, e le sparute testate apertamente neonaziste o ultranazionaliste non c’è niente. “Oggi la regola è che se un politico o una star dicono qualcosa di scorretto, l’argomento viene subito messo all’indice e poi accuratamente evitato”. Emmer non esclude che in futuro la stampa tradizionale cominci ad affrontare gli argomenti cari alla nuova destra ma è difficile che il gap venga colmato in tempi brevi. Se la Faz si interroga sulle ragioni del populismo, non sembra comunque interessata a conquistarne gli elettori/lettori che, a loro volta, non leggono il giornale della borghesia tedesca. “Gli studi degli ultimi due, tre anni non danno indicazioni di un declino significativo della fiducia riposta dai tedeschi nei media”, continua Emmer, spiegando come si stia piuttosto osservando una nuova visibilità di posizioni politiche già esistenti, prive però finora di risonanza. Una posizione condivisa da Martin Hoffmann, ricercatore dello European Centre for Press and Media Freedom (Ecpmf) di Lipsia: “Circa due terzi dei tedeschi dichiarano di fidarsi della stampa”, afferma, ricordando però che occorrerebbe distinguere fra i diversi tipi di testate. Più significativo il dato relativo alla fiducia nei confronti delle emittenti pubbliche radiotelevisive: “E’ sensibilmente più alta in Germania che in Grecia, Italia o in Ungheria”. Quanto alla battaglia del movimento xenofobo Pegida contro “Lügenpresse”, la stampa bugiarda, si tratta per Hoffmann di un fenomeno che fa più rumore del suo peso effettivo. Il che non ha però impedito al’Ecpmf di contare 29 giornalisti aggrediti fisicamente nel 2015 durante il loro lavoro di copertura di eventi di Pegida. Se le battaglie dei populisti sono sulla bocca di tutti è perché la stampa tradizionale si sta occupando di quanto avviene sulle piattaforme, minoritarie, della nuova destra. “Il che significa”, riprende Emmer, “che la sfera del dibattito pubblico non è più dominio esclusivo dei giornalisti”.
Da scienziato della comunicazione Emmer trova inutili gli sforzi della cancelliera Merkel di censurare razzismo e fake news nei social: “Una soluzione top-down non esiste”. Il problema c’è e va affrontato, “ma delegare il compito a un’azienda” – come ha fatto Facebook rispondendo alle pressioni del governo tedesco – può risultare pericoloso per la libertà dei cittadini”.
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