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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.02.2017 Due paginate di insalata mista, la nuova ricetta della cuoca Di Cesare
Una spruzzata di Heidegger, un po' di Marx e mille citazioni, che fanno sempre bella figura

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 febbraio 2017
Pagina: 2
Autore: Donatella Di Cesare
Titolo: «La rivoluzione non è finita»

Riprendiamo da LETTURA-CORRIERE della SERA di oggi, 19/02/2017, a pag.2/3, con il titolo "La rivoluzione non è finita" un articolo di Donatella Di Cesare.

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Martin Heidegger

Da vice-presidente della Fondazione tedesca Martin Heidegger, creata per onorare la memoria del filosofo di Hitler, ed aver contribuito a diffonderne le opere in Italia - insieme a Gianni Vattimo, il filosofo che invita a leggere i "Protocolli dei Savi di Sion"-  ecco un'altra 'riscoperta' della Di Cesare. Questa volta si tratta di Karl Marx, che la dotta esperta di Heidegger ci annuncia essere arrivato il momento di 'riscoprirlo' perchè 'ci riserveà delle sorprese'.
Che dire del pezzo che segue, se non che è l'ennesima insalata mista, condita con una cascata di nomi e citazioni, artificio che sì confonde oltre misura il lettore, ma che gli farà anche pensare "ma quanto è colta colei che scrive". A un occhio attento, invece, l'insalata mista nasconde la mancanza di idee in chi condisce troppo l'insalata. Ah, dìimenticavamo, poteva non mancare un cenno all'amato Heidegger? Certo che no, eccolo" ...
Martin Heidegger: dopo aver annunciato l'emancipazione del proletariato, la rivoluzione di Lenin non ha portato che il «progresso della tecnica»; per una via diversa da quella del liberalismo, si è diretta verso lo stesso nichilismo tecno-planetario. Questo «capitalismo di Stato» ha prodotto una «mobilitazione totale», una perversa schiavizzazione. Per Heidegger — e poi per Arendt — il problema è filosofico. La «rivoluzione occidentale» resta nella metafisica, non solo perché è attratta dalla tecnica, ma per il movimento che compie: il rovesciamento resta irretito nella realtà che pretende di cambiare. Mostra quello stesso reale, solo dal lato opposto, spacciandolo per nuovo. La rivoluzione finisce per essere il gioco speculare della conservazione...." Ci scusiamo per la lunga citazione, e dire che ne abbiamo preso solo una piccola parte.
Ci scusiamo anche per il tempo che avrete sprecato nel leggervi tutta la sbrodolata della Di Cesare, ma noi la seguiamo sempre con ammirazione. Essere stata vice-presidente della Fondazione Heidegger ed essere nello stesso tempo stimata in quanto 'filosofa' che ne critica l'adesione al nazismo, ci vuole una enorme dose di faccia tosta.

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Il capostipite e i discendenti

Ecco le due paginate di LETTURA: 

In questi ultimi mesi «rivoluzione» è diventata la parola chiave del dibattito culturale. Il che non sorprende, se si pensa alle riflessioni e alle polemiche che sta provocando la ricorrenza della rivoluzione d'Ottobre. A cent'anni di distanza quell'evento sembra assumere nuovi contorni, considerato dall'angolo di visuale del XXI secolo. Con altri occhi si guarda oggi all'insurrezione, al Palazzo d'inverno, ai soviet, a Lenin e Trotskij. In un mondo unificato dal mercato globale, sempre in bilico sull'abisso della catastrofe, dove la malinconia ha avvolto non solo la sinistra ma la politica tutta, cioè il concetto stesso di «politica», di cui quasi ogni giorno si celebrano i funerali, alla rivoluzione e al suo spirito non sembra più credere nessuno. Morta la rivoluzione, assopito ormai il suo spirito, non resterebbe che la perdita, il lutto da elaborare. Ma l'interesse profondo che suscita il dibattito, il richiamo che desta la parola, sono il sintomo che le cose stanno ben diversamente. Più si proclama morta, più la rivoluzione risorge. Perché non è mai davvero finita. In un libro da poco uscito in Francia, che si intitola Relire la Révolution, il noto linguista Jean-Claude Milner sostiene che è venuto il tempo di «rileggere» la rivoluzione soffermandosi sulla parola. Già in una prospettiva storica il termine viene usato per avvenimenti lontani non solo negli anni — dalla rivoluzione francese a quella russa, dalla rivoluzione culturale cinese a quella khomeinista — per i quali riesce spesso difficile trovare un comune filo. Milner punta l'indice contro un impiego sbrigativo di una parola così densa di significati, di cui ricostruisce la storia. Nel *** lessico politico europeo, derivato dal greco e dal latino — si pensi a democrazia e repubblica, monarchia e sovranità, tirannia e dittatura, politica e città, cosmopolitismo e internazionalismo — il termine «rivoluzione» costituisce un caso a sé, perché non ha equivalenti lessicali in Grecia e a Roma. La parola «rivoluzione» è moderna; non appena nasce diventa centrale nel lessico politico della modernità. Nel latino classico il termine revolutio è raro. Quando si parla della fase decrescente degli astri, delle trasformazioni politiche o dei mutamenti fisiologici, si usa piuttosto con-versio. A partire, però, dal latino medievale, conversio assume un valore religioso — da cui il nostro «conversione» — mentre revolutio è la parola chiamata a indicare il moto dei corpi celesti. La «rivoluzione» è quel giro attraverso cui pianeti, satelliti, stelle, ruotano tornando al punto di partenza. In astronomia la «rivoluzione» appare paradossalmente un movimento che nulla cambia. Questo paradosso semantico è stato sottolineato da più di un filosofo nel Novecento. Anzitutto da Hannah Arendt. Quando la parola «rivoluzione» comincia a essere impiegata per gli esseri umani, allora emerge il significato di «mutamento». Si tratta del mutare degli umori, delle sensazioni, dei punti di vista, delle idee. «Non vorrei causarti una rivoluzione», è una frase attribuita a Jean-Jacques Rousseau, che significa «non vorrei provocarti un trauma». Dal 1789 la Révolution è un cambiamento straordinario della storia. In seguito, mentre si moltiplicano gli usi politici, la «rivoluzione» finisce per diventare un sinonimo per ogni sorta di mutamento. Al di là delle vicissitudini lessicali, quel che interessai filosofi non è solo lo studio delle sue diverse forme nella storia, né solo i nessi che la legano a fenomeni limitrofi, ad esempio alla guerra civile, che in greco è la stásis, all'insurrezione, o al tumulto, oppure al colpo di Stato, o infine al terrore. Certo quest'ultimo è un tema su cui, già da alcuni anni, sono usciti molti studi, libri, articoli. Che ruolo svolge il Terrore nella rivoluzione del 1789? Come giudicare quella «violenza»? E la rivoluzione d'Ottobre si situa in quel solco? L'interrogativo filosofico riguarda quella che con Peter Sloterdijk si potrebbe chiamare la «cinetica» della rivoluzione. Quale movimento è implicato nella rivoluzione? Com'è stata pensata? Sono due le figure più classiche. La prima è quella suggerita da Georg Wilhelm Friedrich Hegel e dalla sua dialettica: la rivoluzione è un rovesciamento, Umkehrung. Il servo diventa padrone. Questa figura è destinata ad avere un enorme successo grazie a Karl Marx. La rivoluzione è sovvertimento, rivolgimento, perché rovescia la dialettica stessa, la rimette con i piedi per terra — secondo una celeberrima immagine — mentre prima «poggiava sulla testa». Basta alienazione! E basta, s'intende, espropriazione economica. Il proletariato, la classe di schiavi che, priva di uno statuto particolare, è classe universale, capace di trascinare con sé tutta l'umanità, può mettersi in marcia verso il nuovo mondo, dove non ci saranno né proprietà privata né sfruttamento. Ecco la seconda grande immagine: quella della locomotiva. La rivoluzione emancipa e innova. Rovesciando dialetticamente la tradizione, rimettendola a posto, la rivoluzione si proietta sul binario rettilineo del progresso, nel segno dell'accelerazione. Ama la velocità, strizza l'occhio alla tecnica. È la rivoluzione di Lenin: «Elettrificazione più potere dei soviet». li leninismo, figlio della metafisica tedesca, prodotto del pensiero di Hegel e, se si guarda più lontano, esito dell'Illuminismo che — come denunciano Theodor Adorno e Max Horkheimer — ha in sé un tratto «totalitario», è la locomotiva lanciata ormai a una velocità irrefrenabile. A tutti i costi — anche al costo della vita di quegli «schiavi» che avrebbe dovuto liberare. Di qui la critica di Martin Heidegger: dopo aver annunciato l'emancipazione del proletariato, la rivoluzione di Lenin non ha portato che il «progresso della tecnica»; per una via diversa da quella del liberalismo, si è diretta verso lo stesso nichilismo tecno-planetario. Questo «capitalismo di Stato» ha prodotto una «mobilitazione totale», una perversa schiavizzazione. Per Heidegger — e poi per Arendt — il problema è filosofico. La «rivoluzione occidentale» resta nella metafisica, non solo perché è attratta dalla tecnica, ma per il movimento che compie: il rovesciamento resta irretito nella realtà che pretende di cambiare. Mostra quello stesso reale, solo dal lato opposto, spacciandolo per nuovo. La rivoluzione finisce per essere il gioco speculare della conservazione. Reitera la fine, senza dischiudere un nuovo inizio. E sbagliata la cinetica che non può essere orizzontale. La rivoluzione è un salto, Sprung, che custodisce l'origine, Ursprung. E un movimento verticale segnato da un «evento», Ereignis. Evento vuol dire che non può essere un soggetto a decidere autonomamente come e quando dovrà irrompere la rivoluzione, non può essere una volontà di potenza a decidere. Ma in quegli stessi anni si era già delineata a sinistra una nuova dirompente immagine. Se Marx era ricorso al simbolo della locomotiva, Benjamin dice, all'opposto, che rivoluzione è il «freno d'emergenza». L'idea dell'innovazione, la teoria materialistica dello sviluppo non sono più accettabili. L'uscita dal capitalismo non può essere progressiva. La rivoluzione è interruzione, perché interrompe il permanere dell'insopportabile, l'eterno ritorno della catastrofe, truccata da progresso. Qui non c'è linearità. Il movimento è verticale: la rivoluzione è un «salto», un «balzo di tigre» sotto il libero cielo della storia, è come Il battito d'ala di un angelo che, colpendo all'alto, spezza il sempre uguale, è un arrestarsi anarchico, senza principio e senza comando, dell'accelerazione. Per la prima volta Benjamin aggiunge che non c'è rivoluzione nel futuro, senza il riscatto del passato, senza la liberazione di quei «vinti della storia» che attendono di avere finalmente voce. Questi due modelli cinetici, quello orizzontale e quello verticale, che dividono al suo interno la sinistra, non solo politica, ma anche filosofica, riemergono nelle teorie della rivoluzione delineate in questi ultimi anni e oggi molto discusse. Dopo che Francis Fukuyama aveva proclamato la «fine della storia», prevedendo il trionfo del capitalismo, a partire dal wu si sancisce invece la fine di questa visione. Per molti filosofi è II movimento Occupy Wall Street a segnare una svolta. Sebbene il panorama sia molto variegato, si può dire che la rivoluzione si coaguli soprattutto intorno a tre modelli: quelli di Etienne Balibar, di Slavoj Zizek e di David Graeber. La rivoluzione guarda ai giacobini, coinvolge i citoyens, i cittadini intesi come soggetti centrali della modernità, si realizza entro la democrazia, è anzi una «democratizzazione della democrazia» per Balibar, che parla di «etica dell'immanenza». Si allontana da questo modello, più riformistico, quello di ZJzek, che pensa invece a una rivoluzione comunista rivisitata, dove, pur restando in gran parte fedele al leninismo, cerca di uscire dal vicolo cieco dell'immanenza orizzontale grazie alla ripresa dell'«evento» di Heidegger e alle immagini verticali di Benjamin, del quale rilegge in modo originale anche II concetto di «violenza». Se anche qui II Terrore giacobino viene rivalutato, prevale però la certezza che questa crisi duratura non può essere superata all'interno dell'attuale democrazia. II comunismo a venire richiede anche una nuova democrazia. Molto diverso dagli altri due è il modello che va sviluppando David Graeber ,a cui si deve, fra l'altro, un importante libro sul debito. Teorico del movimento Occupy, Graeber riprende la tradizione anarchica, così importante, d'altronde, anche per Benjamin. Configura la possibilità di «spazi autonomi», forme alternative in cui costruire una nuova comunità, in linea, dunque, con l'anarchismo classico, oggi molto studiato nelle università americane. Sebbene il concetto di «evento», che interrompe la storia e segna un nuovo inizio, sembri avere un ruolo minore nella sua rivoluzione anarchica, dirimente è, però, un'immagine ripresa dall'ebraismo, non quella dell'esodo, bensì quella dello yovèl, il «giubileo» che annulla i debiti. Se Marx interpreta II cammino del progresso umano attraverso la dialettica hegeliana, è pur vero che immagina il salto, il balzo sull'abisso, dopo la rivoluzione, nell'istante utopico che segna l'estinzione dello Stato. Ed è per questo che ha ancora molto da insegnare. Quanto alla rivoluzione, quella «buona vecchia talpa», come Marx l'ha chiamata, seguiterà certo a scavare, riservandoci molte sorprese. 

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