Tre testate unite dalla ideologia anti-Israele, dagli avanzi del comunismo all'espressione ufficiale del Vaticano, se si tratta di accusare Israele, diffondere menzogne omissive, l'alleanza catto-comunista si rinnova automaticamente. Le tre testate sono suscite oggi, 18/02/2017.
Left-Umberto De Giovannangeli: "In Israele l'etnocrazia si fa Stato E va oltre l'apartheid" (pag.49)
Umberto De Giovannangeli
Non ci siamo mai occupati di Left, un settimanale che potrebbe essere un supplemento del Manifesto come dell' Unità. Infatti ci scrive Umberto De Giovannangeli, così impiega il tempo libero, visto che L'Unità è sempre sospesa tra continuare o chiudere tra uno sciopero e l'altro.
UDG dà in questo articolo il meglio del suo livore contro Israele, con dei brevi riassuntini, riportando dichiazioni dei soliti israeliani 'contro'. Contraddire le menzogne contenute, riempirebbe l'intera pagina, lasciamo lo sgradevole compito ai lettori, senza però toglierci il piacere di scrivere come le sciagure previste dal profeta UDG sono soltanto suoi desideri e non la realtà.
Come nel Sudafrica dell'apartheid. Anzi, addirittura peggio. In Palestina si stanno consumando, con la complicità dell'Occidente, due crimini politici: lo Stato "negato" e lo Stato "illegale". Il 6 Febbraio 2017 è una data da cerchiare in rosso. Perché segna un passaggio d'epoca: dall'occupazione di fatto all'occupazione "legalizzata". Con la rapina approvata a maggioranza dalla Knesset (60 favorevoli, 52 contrari), che regolarizza gli insediamenti ebraici e circa 4mila case costruite su terreni privati palestinesi in Cisgiordania, Israele non solo fa scempio - ma questa non è una novità - dell'ennesima risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la 2334.
Con quel voto Israele compie una scelta che va al di là del colpo mortale inflitto all'ipotetica soluzione "a due Stati": traduce in codice normativo l'ideologia di "Eretz Israel", rinunciando ad essere democrazia per istituzionalizzare una etnocrazia che, nella sua visione espansionista da "popolo eletto", non conosce confini.
Israele ha scelto. Ed è una scelta strategica. «I governanti israeliani hanno più paura della pace che della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l'arte di governare in contesti pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con il loro approccio. E insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva sulle paure degli israeliani e sull'odio dei vicini, che hanno fatto di tutto per irrobustire».
Così si esprimeva, profeticamente, Zygmunt Bauman, recentemente scomparso, di famiglia ebraica e sfuggito all'Olocausto ordito da Hider grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939.
Era il 5 agosto dei 2015, nel pieno della terza guerra di Gaza scatenata da Israele. «Come ha scritto Asher Schechter su Haaretz - dichiarò nell'intervista a Repubblica Bauman - l'ultima ondata di violenza nell'area "ha fatto compiere a Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che Il 6 febbraio 2017 segna il passaggio epocale dall'occupazione di fatto a quella "legalizzata" si rifiuta di vedere ogni sofferenza che non sia la propria". E questo è dimostrato da una nuova, violenta retorica pubblica». Una retorica che finisce per modellare la "psicologia di una Nazione". Una retorica che viene da lontano. E ha un fortissimo retaggio ideologico. Il pensiero dell'attuale premier israeliano, annota lo storico Avishai Margalit, affonda le radici in quello del padre Benzion Netanyahu. «Netanyahu senior - rimarca Margalit - era uno storico specialista degli ebrei spagnoli del Medioevo ed è stato un sostenitore del sionismo revisionista, che richiede la fondazione col sangue e col fuoco" di uno Stato ebraico su entrambe le rive del Giordano». La politica del presente ha queste radici. Per la prima volta dall'annessione di Gerusalemme, rimarca Jcall Italia, «il Parlamento di Israele legifera su territori palestinesi al di là dei confini internazionalmente riconosciuti. Proseguendo su questa strada i dirigenti di Israele porteranno alla scomparsa di uno Stato di Israele ebraico e democratico... Perpetuare e legalizzare l'occupazione significa distruggere i fondamenti del progetto sionista: costruire uno Stato del popolo ebraico fondato sulle norme della democrazia...». Così è. Legalizzare l'occupazione è andare oltre alla costituzione di fatto di un regime di apartheid nei Territori occupati. L'etnocrazia si fa Stato. Uno Stato "fuorilegge", fuori dal diritto internazionale e da quello umanitario. Financo l'American Jewish Committee (Ajc) si è detta "profondamente delusa" della decisione presa dalla Knesset sugli insediamenti israeliani. David Harris, ceo della Ajc ha sostenuto che «questa è una legge sbagliata che rischia di rivelarsi controproducente per gli interessi fondamentali di Israele». La comunità internazionale è chiamata a fare i conti con l'irrisolta "questione israeliana.". Di cosa si tratti lo sintetizza efficacemente David Grossman: «I:idea stessa di come essere cittadini di questo Stato è cambiata: si è passati dall'idea di appartenere a uno Stato democratico, basato sulla le e, a quella di appartenere a uno Stato basato sulla religione. Quello che conta oggi è se sei ebreo o no: nel primo caso hai diritti e privilegi altrimenti quasi non sei benvenuto. È molto pericoloso: è una situazione in cui l'irrazionalità vince e ci spinge in un angolo in cui ci sentiamo soli e abbandonati dal resto del mondo». Israele si vive e agisce come un "ghetto atomico" che conosce e pratica solo il linguaggio della forza. Da Stato democratico a Stato "fuorilegge", retto dal peggior governo della storia d'Israele. Denunciare una rapina "legalizzata non è antisemitismo. È dire la verità. Se i pionieri sionisti sognavano di fare d'Israele un Paese normale, quel sogno è stato infranto dai falchi che governano a Tel Aviv.
Avvenire-Fulvio Scaglione:" Insediamenti e i due Stati. La strada in salita di Israele-"(pa.3)
Fulvio Scaglione
E' uno dei giornalisti cattolici più fanaticamente anti-Israele, senza sfumature. Già vice-direttore di Famiglia Cristiana, è l'equivalente in campo vaticano di Michele Giorgio e Umberto De Giovannangeli. In questo pezzo usa la stessa tecnica dei due, riportando affermazioni di israeliani attivi nel campo pacifista. Di suo aggiunge anche quelle di ebrei della diaspora - soprattutto americani - estrapolando frasi a sostegno della tesi che tanto sta a cuore a chi crede che la soluzione sia per Israele essere circondata da stati fotocopia di Hamas. Non si tratta più di opinioni, ma un vero cupio dissolvi, presente purtroppo, anche se in misura molto ridotta, nel mondo ebraico.
Invitiamo i nostri lettori cattolici a leggere con attenzione il pezzo che segue, per poi riflettere sul suo contenuto. La propaganda cattolica contro Israele non è da meno di quella che siamo abituati e leggere su certi media cosiddetti laici.
"Chiediamo agli ebrei di tutto il mondo di unirsi agli israeliani per un'azione coordinata che ponga fine all'occupazione e costruisca un nuovo futuro, per il bene di Israele".
Bastano poche parole, in fondo, per tracciare un programma rivoluzionario. E questo lo è, basta guardarsi intorno. Il nuovo presidente Usa, Donald Trump, incontrando il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha certificato a modo suo l'abbandono della "soluzione a due Stati" (cioè la creazione di uno Stato per i palestinesi), accusando anche l'Onu di essere troppo critico nei confronti dello Stato ebraico. Il tutto pochi giorni dopo che la Knesset, il Parlamento di Israele, ha approvato (con 60 sì e 52 no) una legge dal valore retroattivo che "regolarizza" i terreni che appartenevano a palestinesi ma su cui sono stati costruiti decine di insediamenti, fino a prima delle legge appunto illegali.
Un grande favore ai cosiddetti "coloni", che in futuro potranno occupare terre altrui confidando in altre "sanatorie". Insomma, sembra il timbro finale a quella occupazione che il 5 giugno, anniversario del primo giorno della guerra dei Sei Giorni del 1967, compirà il mezzo secolo. Quelle parole, però, non basta trovarle. Bisogna poi gridarle anche a chi non vuol sentire.
Questo è proprio ciò che fa Daniel Bar-Tal, psicologo, docente presso l'Università di Tel Aviv fino alla pensione. «Ho sempre privilegiato l'attività accademica - spiega con un sorriso il professore -, ma da quando sono andato in pensione ho recuperato tutto lo spirito dell'attivista». Il che *** è vero fino a un certo punto perché lo studioso e il militante hanno molti punti in comune. Psicologo sociale, Bar-Tal ha dedicato al tema dell'occupazione un libro fondamentale (Thelmpacts of Lasting Occupation, Oxford University Press, con Izhak Schnell) e decine di articoli su giornali e riviste specializzate. «Il nostro punto di partenza - spiega Daniel Bar-Tal - è che un'occupazione prolungata diventa un sistema militare, politico, sociale, economico, culturale e legale che influenza sia l'occupato sia l'occupante. Il più debole, cioè colui che subisce l'occupazione, patisce in modo evidente. Ma anche il più forte, l'occupante, non deve illudersi: gli effetti di questo rapporto perverso si fanno sentire anche su di lui». appiamo ciò che l'occupazione significa per i palestinesi. Il controllo militare israeliano ma anche ciò che nel luglio 2016 Ban Ki-moon, da segretario generale dell'Onu, così descrisse nel rapporto intitolato "Economic Costs of the Israeli Occupation for the Palestinian People": «Forti restrizioni sui movimenti delle persone e delle merci, sistematica erosione e distruzione della base produttiva, perdita di terre, acque e altre risorse naturali, frammentazione del mercato interno e separazione dai mercati confinanti e internazionali, espansione degli insediamenti israeliani». E per gli israeliani? «Negli ultimi 15 anni - dice Daniel Bar Tal - la narrazione del problema è tornata a essere quella degli anni Settanta. Gli israeliani sono stati indotti a credere che la terra tra il Giordano e il mare appartenga loro in modo esclusivo, anzi: gli insediamenti sono diventati il cuore dell'identità nazionale.
E la memoria dell'Olocausto, con le paure atroci che porta con sé, è stata sfruttata per affermare un diritto a difendersi che non contempla l'esistenza di altre vittime. Il ciclo in apparenza senza fine di rivolte e repressioni, ovviamente, non fa che rafforzare tale approccio: delegittima l'avversario palestinese e incentiva l'auto-vittimizzazione degli israeliani, che così possono mantenere un'immagine sempre positiva e orgogliosa di sé, a dispetto di tutto».
E una spirale che sembra senza fine che annulla qualunque approccio razionale al problema della convivenza tra i due popoli. In uno studio del 2015, la Rand Corporation, centro studi fondato nel 1948 negli ambienti militari Usa e poi diventato indipendente, quindi poco incline agli estremismi, ha stimato che la "soluzione a due Stati" porterebbe enormi benefici sia a Israele sia ai palestinesi. Israele potrebbe guadagnare 123 miliardi di dollari nei primi dieci anni e i palestinesi 50, con un incremento del 5% nel reddito medio degli israeliani e del 36% in quello dei palestinesi. Ma nessun messaggio sembra penetrare certi rancori. Se pensiamo che ormai due generazioni sono nate sotto l'occupazione - continua il professore - e che il Governo usa il sistema scolastico e i media per perpetuare quella narrazione, si capisce perché oltre il 70% degli israeliani non accetta e nemmeno capisce il termine "occupazione". E soprattutto non riesce nemmeno a concepire l'idea che possa esistere una soluzione alternativa, che altre strade siano più convenienti. Tutto questo, però, sta inesorabilmente degradando il sistema democratico, che sarà messo ancor più alla prova dal tentativo di esercitare un'autorità di tipo militare su più di 2 milioni di palestinesi che non sono cittadini di Israele e che, insieme con i palestinesi che invece sono cittadini di Israele, formano quasi metà della popolazione che vive tra il Giordano e il mare. Per non parlare dei costi: Israele spende per gli insediamenti tra i 7 e gli 8 miliardi di euro l'anno, un peso che diventa sempre meno sostenibile. Come vede, è della salvezza di Israele che ci preoccupiamo. E l'unica salvezza è nella soluzione a due Stati». olla base di queste convinzioni, quindi, Daniel Bar-Tal ha fondato SISO, owero Save Israel Stop Occupation (Salviamo Israele, Fermiamo l'occupazione), un movimento che, come dice la sigla stessa, si è dato una specie di missione impossibile: rovesciare una situazione che vige da mezzo secolo e che ormai ha portato più di 600mila persone a vivere negli insediamenti, quasi il 10% della popolazione totale di Israele. E che non solo, come la recente legge dimostra, è politica dello Stato ma è anche sostenuta da una larghissima parte dell'opinione pubblica. «Forse è impossibile, ma ci sono solo due strade. Stare a casa e deprimersi. Oppure provare a fare qualcosa, perché anche questa, come tutte le occupazioni, è destinata a finire». Nei due anni scarsi di vita, SISO ha già prodotto i suoi effetti. Per esempio, l'appello che abbiamo citato all'inizio e che è stato firmato da oltre 500 personalità di Israele e della diaspora, tra le quali gli scrittori David Grossman e Amos Oz, Daniel Kahneman (premio Nobel per l'Economia nel 2002), Avishai Margalit (accademico, docente di Filosofia a Princeton), Zeev Stenmhell (storico), diplomatici come Elie Barravi (ex ambasciatore di Israele in Francia), Colette Avital (già ambasciatrice in Portogallo e numero tre del ministero degli Esteri), Ilan Baruch (ex ambasciatore in Sudafrica) e molti altri. Per il giorno del cinquantenario il movimento ha ottenuto l'adesione di una trentina di organizzazioni pacifiste israeliane a una serie di iniziative che si terranno in decine di città di tutto il mondo. L'apice sarà il 10 giugno, data che mezzo secolo fa segnò la fine della Guerra dei Sei Giorni, con una catena umana che si allungherà lungo parte della Linea Verde, la linea di demarcazione segnata con l'armistizio della prima guerra del 1948-1949, la cosa più vicina a un confine (che peraltro non è) che sia riconosciuta dall'Onu. «Da molti anni - dice Daniel Bar-Tal - la linea Verde non è nemmeno menzionata nei libri di testo delle scuole di Israele. Come stupirsi, quindi, se negli israeliani manca la coscienza dell'occupazione?». Il professore è anche "ambasciatore" di SISO presso le comunità ebraiche della diaspora e ammette che il compito non è sempre facile. Gli ebrei liberal americani, per esempio, faticano a mobilitarsi. «Per molti - commenta - criticare Israele è sempre un problema. Li capisco, sentono lo Stato ebraico in costante pericolo e temono di danneggiarlo. Ma il vero danno si fa lasciandolo proseguire su questa china».
L'Osservatore Romano- " L'Onu ribadisce la soluzione dei due stati"
(Pag.3)
L'80% del redazionale che segue riporta le posizioni degli avversari/nemici di Israele. Soltanto nelle ultine righe una breve dichiarazione del Ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman. Chi legge non ha una visione equilibrata dell'incontro fra Netanyahu e Trump. Ennesimo esempio per rendersi conto da quale parte sta l'organo ufficiale del Vaticano.
La soluzione dei due stati •rimane l'unica via per palestinesi e israeliani». A ribadirlo, ieri, è stato il coordinatore speciale dell'Onu per il processo di pace in Vicino oriente, Nikolay Mladenov, parlando in videoconferenza durante una riunione del Consiglio di sicurezza. «Israele, la Palestina e la comunità internazionale — ha spiegato il diplomatico — hanno il dovere di evitare crescenti tensioni, astenersi da azioni unilaterali e lavorare insieme per difendere la pace». Le parole di Mladenov arrivano il giorno dopo quelle del presidente statunitense, Donald Trump, che nel corso del suo incontro con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva lasciato intuire un cambiamento di rotta rispetto alla politica statunitense di questi anni. La presidenza palestinese ha ribadito di voler rimanere legata alla soluzione dei due stati e che continuerà a lavorare con gli Stati Uniti in questa direzione. In un comunicato, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha ammonito che «l'insistenza del governo israeliano nel distruggere l'opzione dei due stati attraverso la continuazione degli insediamenti porterà a più estremismo e instabilità, e ha chiesto a Israele di «rispondere alla richiesta del presidente Trump di fermare tutte le attività di insediamento». Sulla stessa linea la Lega araba. Dopo un incontro al Cairo, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, e il capo della Lega araba, Ahmed Aboul-Gheit, hanno diffuso un comunicato congiunto a sostegno della creazione di uno stato palestinese, concordando sul fatto che la soluzione dei due stati è «l'unica via per raggiungere una soluzione completa ed equa della questione palestinese». AboulGheit ha avvisato inoltre che l'eventuale spostamento dell'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, sul quale Trump sta prendendo tempo, sarebbe «esplosivo per la situazione in Vicino oriente». Dall'Europa, ancora nessuna reazione ufficiale di Bruxelles alle parole di Trump. Il ministro degli esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha definito «molto confusa e preoccupante» la posizione della Casa Bianca sulla questione. Dopo un incontro con il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, al G20 di Bonn, il capo della diplomazia francese ha detto di aver «tenuto a ricordare che per la Francia non ci sono altre opzioni che la prospettiva dei due stati. L'altra opzione, quella che Tillerson ha evocato, senza i due stati, non è realista. E confusa e preoccupante». Intanto, c'è da registrare l'intervento, ieri sera, del ministro della difesa israeliano, Avigdor Lieber man, che ha lanciato la proposta d aprire un dialogo diretto con i palestinesi nella striscia di Gaza control lata da Hamas. «Parliamoci», ha detto Lieberman, invocando un «dialogo diretto» in un video postato sul sito web del Cogat (l'organi smo militare responsabile dei Terri tori palestinesi). Il ministro si è detto pronto a discutere con i palestinesi attraverso una videoconferenza e di rispondere alle domande pubblicate sul sito. Israele ed Egitto mantengono il blocco della Striscia di Gaza dopo che Hamas ha preso il potere nel 2006 in seguito a violenti scontri con i rivali di Al Fatah.
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