Riprendiamo da DOMENICA/IlSole24ore di oggi, 12/02/2017, a pag.38, con il titolo "Città Santa del fotografo" l'articolo di Laura Leonelli.
Laura Leonelli
Yehuda Amichai, il grande poeta israeliano, diceva che per capire Gerusalemme «bisogna guardare le vetrine dei negozi dei fotografi, e osservare gli sposi e il loro tenero abbraccio, unaclassedibambini abbagliati dalla luce e dal futuro, i vecchi nello splendore della loro memoria, e poi un ragazzo e una ragazza soldato, chiusi nel profilo pesante della cornice. Che l'invenzione di Daguerre aiuti ad avvicinarsi all'enigma di questa città unica al mondo, lo conferma l'origine stessa della parola fotografia, che al suo apparire nel XIX secolo venne tradotta in ebraico con il termine Tselem Or, immagine di luce. Ma anche l'uomo era stato creato a immagine, di nuovo Tselem, di Dio e risultò quindi che la fotografia fosse una copia della copia della potenza divina. Sull'onda di questa esegesi così lusinghiera, l'ultima edizione di Open House Jerusalem - che ha luogo ogni anno ed è un modo inedito di scoprire la Terra Santa, grazie al sostegno del Ministero del Turismo di Israele, del Comune di Gerusalemme e di El Al - ha inserito in una collezione di edifici storici e case private da visitare in libertà anche il negozio di Elia Kahvedjian, Elia Photo Shop, inaugurato nel 1949 nel quartiere cristiano, e ancora oggi attivo grazie agli eredi del famoso fotografo armeno. Eppure, al suo annuncio nel 1839 la fotografia era stata accolta con sospetto dagli abitanti della Città Santa, come ricordano Shimon Lev, Lavi Shay e Meier Appelfeld, autori del bel volume Camera Man. Women and Men Photograph Jerusalem 1900-1950. Al contrario i fotografi europei si erano precipitati a immortalare le bellezze del Vecchio e Nuovo Testamento, e aprendo i negozi lungo la Jaffa Roade nella Cittadella avevano cominciato a ritrarre i turisti, vestiti da beduini e portatrici d'acqua, e poco dopo gli stessi residenti, ebrei, musulmani ecristianL I primi fotografi locali furono invece armeni e spetta a Yessayi Garabedian, sacerdote, battezzare la tradizione fotografica di Gerusalemme, tanto che una volta divenuto Patriarca nel 1865 allestì sul tetto del suo monastero uno studio fotografico, attivo per vent'anni. Nel 1898 un suo allievo, Garabed Krikorian, si unì ai fotografi dell'American Colony per documentare la visita dell'imperatore Guglielmo II in Terra Santa.Ancora un passo e all'epoca del Mandato in Palestina, gli inglesi ampliarono il catalogo dei soggetti, e accanto alle immagini di propaganda dei missionari cristiani e dei nuovi insediamenti ebraici, apparvero le prime fotografie aeree e un timido inizio di fotogiornalismo. Era il 1917. Contemporaneamente a Urfa, nel sud della Turchia, un bambino armeno assisteva all'uccisione della sua famiglia per mano dei Giovani Turchi. Sembra incredibile, ma di questa e di altre esperienze che avrebbero potuto alimentare un odio infinito, non vi è traccia nelle fotografie "candide" che un giorno quello stesso bambino avrebbe realizzato a Gerusalemme. Elia Kahvedjian era arrivato nella Città Santa a sedici anni, nel 1926, dopo un lunghissimo viaggio. A cinque, vittima del genocidio, si era incamminato lungo la marcia della morte attraverso il deserto siriano. Per salvarlo la madre lo aveva affidato a un mercante curdo, che per due soldi d'oro lo aveva venduto come schiavo a un maniscalco di Mardin, a sua volta costretto dalla nuova moglie a ributtare il bambino in strada. Mendicando, Elia era sopravvissuto alla carestia e dopo quattro anni era tornato nella suacittà natale, Urfa, accolto in unorfanatrofio. Della sua famiglia non sapeva più nulla, neppure il cognome. Ricordava solo che il padre vendeva caffè, kahve in turco, e da quella parola, nella lingua ormai nemica, era nata la sua nuova identità, Kahvedjian.
Le peregrinazioni continuano ed Elia, assistito dall'American Near East Relief Foundation, si ritrova in Libano e poi a Nazareth, dove un insegnante, colpito dalla sua abilità nel disegno, lo presenta a Krikor Boghosian, fotografo, anche lui armeno. L'incontro è illuminante. Tappa successiva, lo studio fotografico dei Fratelli Hananya, cristiani di Gerusalemme. In poco tempo il giovane assistente di straordinaria bravura rileva l'attività e sul biglietto da visita si legge Elia Photo Service. Approved military photographer n.7. Anni dopo, osservando una foto di gruppo, il figlio, Kevork Kahvedjian, scoprirà che il padre apparteneva alla Massoneria inglese e forse per questo due giorni prima dello scoppio della guerra arabo-israeliana, un ufficiale britannico suggerisce a Elia di chiudere lo studio e di rifugiarsi altrove. L'archivio dei negativi, caricato su due camion militari, viene nascosto in una cantina lungo la Via Dolorosa. Nel 1949 Elia riapre il negozio, oggi gestito dal nipote allo stesso identico indirizzo, al 14 di Al-Khanka Street. Nel 1987 Kevork e sua moglie decidono di fare pulizia nella vecchia cantina non lontano da casa. Dal buio riemerge un tesoro di tremila negativi scattati dalla fine degli anni '20 alla metà degli anni '4o. Persino Elia, conosciuto da tutti come "il fotografo invisibile" per la sua discrezione e velocità, si era dimenticato di quellefotografie, prese durante il fine settimana per puro piacere. Pochi mesi e nella sala dell'American Colony Hotel, nella vetrina di Elia Photo Shop e in un bellissimo libro, Jerusalem through my father's eyes, splendono le immagini di una ragazza gitana, di un ciabattino musulmano, di una bambina armena alla fonte, quindi di un gruppo di arabi intorno a un piatto di humus, e poi di un monaco all'ingresso del Santo Sepolcro, e di una fila di ebrei al Muro del Pianto, dove negli anni '30 uomini e donne pregavano ancora insieme. Infine appare lo Zeppelin che sorvola e riprende la Città Vecchia, prima di dirigersi verso il Sud America. Se Yehuda Amichai fosse passato di lì, guardando la vetrina del negoziodi Elia Kahvedjian, avrebbe visto una Gerusalemme luminosa, di tutti, Tselem divina e umana di una possibile pace.
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