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Il Foglio Rassegna Stampa
08.02.2017 Marocco: l'unico paese che comincia a mettere in discussione la Sharia
Analisi di Maurizio Stefanini

Testata: Il Foglio
Data: 08 febbraio 2017
Pagina: 4
Autore: Maurizio Stefanini
Titolo: «Il Maometto riformista»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 08/02/2017, a pag. IV, con il titolo "Il Maometto riformista", l'analisi di Maurizio Stefanini.

"Maometto riformista" ci pare - per ora - una esagerazione. Piuttosto è da sottolineare come il Marocco e soprattutto l'azione riformatrice della monarchia, siano il fattore novità del mondo musulmano.

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Maurizio Stefanini

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Maometto VI, re del Marocco

L’ultimissima è Maometto che fa abolire ai suoi ulema la pena di morte per chi abbandona l’Islam. Ma c’è anche Maometto che vieta il velo. Maometto che dice che non c’è alcuna vergine ad attendere in Paradiso i jihadisti. Maometto che ordina di insegnare “un islam tollerante”. Maometto che ha una moglie sola, e a volto scoperto. E, soprattutto, Maometto che è impegnato in una sottilissima partita a scacchi per far risaltare l’incapacità degli islamisti a governare, senza far fare loro la figura dei perseguitati. Il Maometto di cui parliamo, ovviamente, non è il profeta dell’islam morto nel 632. Oltre a chiamarsi come lui, però, re Maometto VI del Marocco, classe 1963, sul trono dal 1999, diciottesimo sovrano della dinastia alawide, è anche un suo discendente diretto, attraverso la figlia Fatima, e alla carica di sovrano temporale unisce quella spirituale di commendatore dei credenti. Più o meno l’equivalente del califfo del defunto Impero Ottomano e dell’attuale Stato islamico, anche se in linea di principio non rivendica questo ruolo su un piano universale, ma solo a livello nazionale.

Nel Marocco di Maometto VI, però, per la prima volta nella storia degli stati islamici, il Consiglio superiore degli ulema – massima autorità religiosa del paese – ha aperto alla possibilità di conversione ad altre religioni. Finora, la sharia prevedeva per l’apostata la morte, per lo meno in linea di principio. In Arabia Saudita una condanna a morte per apostasia è stata eseguita nel 2015, e nel 2012 lo stesso Consiglio superiore degli ulema marocchini aveva pubblicato un libro in cui aveva ribadito l’antica dottrina. Ma adesso la fatwa “La via degli eruditi” cita Sufyan a Thawri, teologo iracheno dell’VIII secolo, per spiegare che la morte per apostasia è una cosa dei tempi delle guerre di religione, quando cambiare credo equivaleva a un tradimento politico. Non è più così, e dunque un cittadino marocchino può tranquillamente diventare cristiano o altro senza per questo cessare di essere un buon cittadino. Questo, al momento, ancora nel solo Marocco. A tutti i musulmani del mondo, però, come discendente del Profeta e commendatore dei credenti, Maometto VI si era rivolto, quando era andato in televisione lo scorso 19 agosto, dopo che un prete era stato sgozzato sull’altare a Rouen. “L’islam è una religione di pace”, aveva detto. “Coloro che istigano all’omicidio e all’aggressione, che accusano ingiustamente gli altri di eresia, e che interpretano il Corano e la Sunna in modo da attribuire le proprie menzogne ad Allah ed al Suo Messaggero: questa è la vera eresia”.

“Si stanno approfittando di alcuni giovani musulmani, specialmente in Europa. Si stanno approfittando della loro ignoranza della lingua araba e del vero islam”, aggiungeva. “Può una persona sana di mente credere che il jihad venga ricompensato con qualche vergine in Paradiso?”. Maometto VI aveva però appena pronunciato questa reprimenda, che a ottobre nelle librerie marocchine è apparso un manuale di educazione islamica per le scuole dell’obbligo in cui la Filosofia è definita in maniera sprezzante “materia del dubbio e della perdizione”. “Chiunque vi si ispiri sarà posseduto da Satana e il suo cuore non crederà più alla profezia di Maometto”. Ovviamente furibonda la reazione dell’associazione dei professori di filosofia, che è pure materia di insegnamento obbligatorio. Ipocrisie del sovrano, che lo scorso 6 febbraio aveva ordinato di riformare i programmi di educazione religiosa in modo da “promuovere un islam tollerante in tutti i gradi scolastici, dalle elementari al liceo”? Oppure le istruzioni del re sono state sabotate dalla Commissione che il ministero dell’Educazione nazionale aveva istituito per metterle in pratica? Forse anche perché prendere di petto direttamente il re non è in Marocco una scelta troppo consigliabile, è quest’ultima l’analisi suggerita dal segretario generale dell’Associazione marocchina degli insegnanti di Filosofia Abdelkarim Safir, quando ha denunciato “l’influenza wahabita”.

C’entrano dunque il primo ministro Abdelillah Benkirane e il ministro dell’Insegnamento superiore Lahcen Daoudi, entrambi esponenti di un Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Pjd) che fin nel nome si richiama al partito di Erdogan in Turchia? Ma il titolare dell’Educazione nazionale e della formazione professionale, Rachid Belmokhtar, è invece un indipendente che si è proprio scontrato con Benkirane appoggiandosi al re per imporre la fine dell’arabizzazione che il Pjd aveva voluto, e reintrodurre l’insegnamento delle materie scientifiche e tecniche in francese. E anche i professori di educazione islamica avevano protestato, quando la Commissione aveva iniziato i lavori. La tesi del ministero è che si è cercato di tener conto delle esigenze di tutti. Le frasi incriminate, pronunciate da un religioso del XIII secolo di nome Ibnou As-Salah Ach Chahrazouri, sarebbero state dunque citate “fuori contesto”, e non costituirebbero affatto un “insegnamento dottrinale”, ma semplicemente uno dei vari punti di vista che vengono esposti per spiegare la storia del dibattito teologico all’interno dell’islam. “Mi dispiace che qualche riga sulle 3.252 pagine omologate rovini tutto il lavoro positivo che è stato fatto”, ha detto Fouad Chafiqi, il funzionaro con laurea a Bordeaux ha ha coordinato la revisione. E si è dichiaratro inoltre “assolutamente convinto che l’insegnamento della filosofia è necessario”.

Nel contempo, è partita la guerra al velo integrale. Per ora, in realtà, nulla vieta di indossarlo. Ma un ordine è partito dal ministero dell’Interno su un foglietto che il capo della polizia ha fatto consegnare dagli agenti a tutti i diretti interessati: dai sarti di quartiere ai produttori industriali, passando per ambulanti e grossisti. “E’ fatto divieto di produrre e vendere burqa. Siete invitati a sbarazzarvi delle scorte nelle prossime 48 ore. Chi contravviene vedrà sequestrate le merci e chiuso il negozio”. Nel contempo è stato anche ulteriormente rafforzato il controllo preventivo degli ispettori reali sui sermoni che vengono pronunciati il venerdì in moschea. Su tutto, il governo non ancora formato a oltre tre mesi dalle elezioni. Il 7 ottobre è stato il giorno del voto, e 12 sono i partiti entrati in Parlamento. Il più antico è l’Istiqlal, che vuol dire Indipendenza. Nacque nel 1934 per chiederla, appunto, alla Francia. Simbolo: una bilancia. In chiave antifrancese voleva però l’arabizzazione, in un paese dove metà della popolazione continua a parlare i dialetti berberi dell’era pre-islamica. E i berberi dunque poco dopo la fine del protettorato fondarono il Movimento Popolare: simbolo, una spiga. La sinistra a sua volta si organizzava autonomamente nell’Unione nazionale delle forze popolari, poi divenuta Unione socialista delle forze popolari (Usfp), all’insegna di una rosa. C’era anche un Partito comunista che venne sciolto, si ricostituì come Partito della liberazione e del socialismo, venne sciolto di nuovo, si ricostituì definitivamente come Partito del progresso e del socialismo.

Emblema: un libro. Nel 1973 gli eletti moderati furono poi organizzati in un Raggruppamento nazionale degli indipendenti che aveva come simbolo una colomba, e il cui il cui leader era il genero di re Hassan II, Ahmed Osman. Nel 1979 sempre Hassan II nominò primo ministro il socialista Maati Bouabid che fu cacciato dal partito e fondò quattro anni dopo l’Unione costituzionale. Simbolo: un cavallo. Nel 2008 fu invece Fouad Ali El Himma, ministro dell’Interno e intimo amico di Maometto VI, a fondare un Partito autenticità e modernità (Pam), che ha come simbolo un trattore, come antemurale laico al Pjd: fondato nel 1997 con simbolo una lampada, e diventato nel 2007 il secondo partito. Il trucco della legge elettorale voluta da Maometto VI è che è fortemente proporzionale, ma obbliga poi a designare premier il leader del partito che prende più voti.

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Rabat, capitale del Marocco

Nel 2011 ci è riuscito il Pjd, con il 27,08 per cento e 107 eletti. Ma Benkirane per arrivare ai 198 voti che gli servivano per avere la fiducia ha dovuto coinvolgere l’Istiqlal, il Movimento popolare e perfino i comunisti, mentre il re si riservava comunque la nomina del ministro dell’Interno. Il nuovo primo ministro diede subito un’intervista per spiegare che lui non era certo andato al governo “per poter dire alle giovani donne quanti centimetri di gonna essi devono indossare per coprire le gambe. Questo non è affar mio, e non è possibile in ogni caso per chiunque di minacciare le libertà civili del Marocco”. Ma nel luglio del 2013 l’Istiqlal uscì dalla formazione di governo, e per sostituirlo furono chiamato gli indipendenti, che rafforzarono il peso del re ulteriormente. Insomma, da una parte Maometto VI nei confronti del Partito della giustizia e dello sviluppo marocchino ha giocato un ruolo di controllo analogo a quello delle Forze armate di Ankara nei confronti del Partito della giustizia e dello sviluppo turco. Dall’altra, Bekirane ha tentato un lento processo di svuotamento soft dell’istituzionalità monarchica non dissimile da quello di Erdogan ha tentato rispetto al dogma kemalista. La differenza, però, è che in Turchia un sistema elettorale ultramaggioritario ha consegnato al partito di Erdogan un potere fortissimo, mentre l’Unione europea imponeva lo smantellamento della supervisione militare.

Maometto VI non ha invece rinunciato affatto al suo ruolo, mentre invece il sistema elettorale limitava il campo d’azione del partito islamista. Di conseguenza, mentre in Turchia la laicità kemalista veniva smantellata pezzo per pezzo, su influsso del re dall’ottobre del 2003 il Marocco ha adottato un codice di famiglia che per la prima volta in un paese musulmano ha abolito l’obbligo della moglie di obbedire al marito, stabilendo invece che “la famiglia è posta sotto la responsabilità congiunta degli sposi”, e dando alla donna un diritto di veto su eventuali intenzioni poligamiche del marito. Altra differenza: mentre in Turchia la situazione di curdi e minoranze religiose dopo un’iniziale miglioramento s’è rifatta pesante, in Marocco il tamazight, lingua berbera che per gli integralisti appartiene alla “barbarie pre-islamica”, è stata invece riconosciuta come lingua ufficiale accanto all’arabo. In Marocco resta anche una comunità ebraica stimata tra le 2.500 e le 10.000 persone. Ci sono relazioni diplomatiche con Israele, la doppia cittadinanza israeliana e marocchina è diffusa e consentita, e la Costituzione del 2011 riconosce al paese nel suo preambolo ben sei identità: araba, islamica, amazigh, ebraica, africana e mediterranea.

Pur riformista e illuminato, Maometto VI secondo le testimonianze di chi lo conosce non ha un buon carattere. Si arrabbia facilmentre, se se la lega al dito si vendica, e ha un fisico da sollevatore di pesi che se possibile lo rende ancora più minaccioso. Il giornalista dissidente Ali Lmrabet per averlo descritto come “uno che tratta il Marocco come il suo pollaio e noi come le sue galline”, è finito in galera più volte. Dure proteste ci sono state anche per il recente dramma di un ambulante che è stato triturato da un raccoglitore di rifiuti mentre cercava di recuperare il suo pesce spada sequestrato e buttato nei cassonetti dalla polizia, ma nulla di comparabile all’esplosione che in Tunisia dopo il suicidio col fuoco dell’ambulante Mohamed Bouazizi innescò la Primavera araba. Con tutto ciò, i suoi sudditi a Maometto VI vogliono bene sinceramente, e i giovani che imitano i suoi caratteristici abiti attillati e indossano occhiali dalla montatura dorata sono stati ribattezzati “Generazione M6”.

Come già ricordato, ha una moglie sola, che si chiama Salma Bennani e che per di più va in giro a volto scoperto, è “plebea” e lavora da ingegnere informatico. Che acadrebbe se il Pjd acquisisse in Parlamento una forza paragonabile a quella del suo omologo turco? Al voto del 7 ottobre il Pjd è andato con la chiara intenzione di dare la spallata, mentre il Pam si presentava come la diga laica contro di esso. Che intanto i Servizi manovrassero dietro le quinte lo hanno lasciato intuire un paio di episodi clamorosi. Da una parte, una misteriosa manifestazione “contro l’islamizzazione” che ha portato migliaia di persone in piazza senza che si sapesse chi l’aveva convocata. Dall’altra, lo scandalo di due leader integralisti che la Polizia ha sorpreso a fare sesso in auto. Lui, Moulay Omar Benhammad, 63 anni, sposato e padre di 7 figli, è docente universitario di Studi islamici alla facoltà di Lettere di Rabat: aveva emesso una fatwa sullo “scambio di parole d’amore via Facebook”. Lei, Fatima Nejjar, 62 anni, vedova, 6 figli, è predicatrice molto conosciuta, con un suo seguito anche sul web, perché posta video educativi su YouTube: aveva supplicato le sue studentesse di non sedersi al posto dei maschi e non ridere davanti a loro, perché le due cose sono “l’inizio della fornicazione”. Entrambi erano vicepresidenti del Mur, Movimento per l’unità e la riforma: associazione di carattere religioso e associativo strettamente legata al Pjd.

Con un imbarazzo non inferiore a quello del Movimento cinque stelle quando sulle sue amministrazioni arrivano gli avvisi di garanzia, il partito li ha sospesi. Alla fine, il Pjd ha guadagnato qualcosa: da 107 a 125 deputati. Ma il Pam è cresciuto molto di più, da 47 a 102. Con risultati minimi. Tutti gli altri partiti tradizionali hanno perso. In base alla legge elettorale vigente, Benkirane è stato confermato, ma con postcomunisti e Istiqlal arriva appena a 183 seggi dei 198 che servirebbero. Invitati come quarto partner gli indipendenti di Aziz Akhannouch, ex ministro dell’Agricoltura e uomo d’affari tra i più ricchi dell’Africa, hanno chiesto di escludere l’Istiqlal, ormai sempre più allineato e coperto col Pjd, mettendo al suo posto socialisti e Unione costituzionale. I socialisti peraltro di Benkirane non vigliono saperne, e il sistema è andato in stallo. Come nella vicina Spagna durante il lungo interim di Rajoy, però, anche nel Marocco l’assenza di un governo non impedisce all’economia di volare. Anche qui, il fatto che il re sia anche il primo imprenditore del paese non è del tutto conforme all’ideale di un monarca moderno, ma in compenso ne fa un protagonista in prima persona del decollo.

Dopo che in 38 anni di regno suo padre Hassan II aveva costruito solo 80 chilometri di autostrada, ad esempio, è stato lui a farne asfaltare più di 2.000. E’ lui che sta facendo costruire in Marocco il più grande impianto solare del pianeta. Con lui il Marocco è diventata la nazione più connessa di tutta l’Africa, con 19 milioni di internauti. Con lui sono arrivati massicci investimenti stranieri, facendo partire settori come l’industria automobilistica, l’aeronautica, perfino lelettronica. A sua volta l’Office chérifien des phosphates, società di stato che è la numero uno mondiale nell’estrazione dei fosfati, ha aperto filiali in 14 paesi africani, trasformando l’export di questi preziosi fertilizzanti in un soft power altrettanto efficace del petrolio. Grazie a qusto soft power all’ultimo vertice dell’Unione africana di Addis Abeba il 31 gennaio il Marocco è stato riammesso nell’organizzazione, a 33 anni dalla sua uscita per protesta contro l’ammissione della Repubblica araba democratica sahrawi, che dall’esilio in Algeria rivendica l’indipendenza del Sahara occidentale ex spagnolo. Dal 2000 il pil è raddoppiato, e dopo i 43 morti degli attentati di Casablanca del 2003 il jihadismo è stato stroncato, con oltre 3.000 arresti.

“Il Marocco è un paese che innegabilmente sta nel XXI secolo: moderno, aperto e aspirante a una democrazia perenne e a una identità plurale. Purtroppo però vi perdurano alcune pratiche tribali del passato come la corruzione, il nepotismo, il clientelismo, il favoritismo, l’abuso di potere e lo spirito del redditiere”, fu il riassunto che ci diede nel 2015 Mohamed Chtatou, docente all’Università di Rabat ed esperto in risoluzione dei conflitti di etnia berbera, che intervistammo quando fu in Italia ospite al workshop di geopolitica ed economia internazionale della rivista “Nodo di Gordio”. Ricordò anche che “la polizia marocchina è considerata tra le migliori nella sua lotta contro il radicalismo e il terrorismo religioso”. Adesso, forse approfittando proprio del fatto che Benkirane è in tutt’altra faccende affacendato, il re discendente di Maometto ha fatto dare all’integralismo un altro colpo decisivo.

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