Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/02/2017, a pag. 14, con il titolo "L'Onu a Israele: nuovi insediamenti violano il diritto internazionale", il commento di Giordano Stabile; dalla REPUBBLICA, a pag. 1, con il titolo "Nelle colonie fuorilegge dove Israele sfida il mondo", il commento di Bernardo Valli.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che Oslo è fallito. Quello che molti cercano di nascondere, però, è il motivo per cui è fallito, cioè la volontà, da parte palestinese, di non giungere a un accordo che prevedesse due Stati in pace uno a fianco dell'altro. Arafat prima e Abu Mazen poi hanno rifiutato tutte le offerte di pace che i governi israeliani - di sinistra e di destra - hanno fatto, giungendo a offrire il 98% dei territori contesi e compensazioni territoriali per il restante 2%. Più Gerusalemme Est capitale di un futuro stato palestinese.
Sui media, però, il reiterato rifiuto arabo palestinese non trova mai spazio. Nessuno ricorda che alle proposte di pace di Israele Arafat e i suoi accoliti hanno risposto con il terrorismo della Seconda Intifada, che per anni ha fatto stragi negli autobus, nei ristoranti e nelle discoteche. Nessuno ricorda che ancora oggi Abu Mazen incita a fermare "con ogni mezzo" gli ebrei a Gerusalemme: "con ogni mezzo" è un modo chiaro per dare il via libera al terrorismo.
Fino al 1948 la regione di Israele e territori contesi era sotto il Mandato britannico. Dal 1948 al 1967 è stata amministrata dalla Giordania, prima di passare al controllo israeliano dopo la vittoria dello Stato ebraico nella guerra difensiva dei Sei Giorni. Prima del 1967 il catasto di riferimento per quella regione era quello ottomano, lacunoso, poverissimo e impreciso. I territori sono divenuti contesi dal 1967, per cui teoricamente aperti all'insediamento di chiunque. Tutto questo non viene ricordato mai dai giornali e dagli altri media.
Tra gli articoli di oggi, quello che più disinforma è firmato da Bernardo Valli sulla Repubblica. Una serie di affermazioni unilaterali contro Israele, che "sfiderebbe il mondo", mentre non viene spesa una parola sui motivi per cui i territori sono contesi e per cui non esiste uno Stato palestinese, motivi che noi abbiamo ricordato. Repubblica si spinge fino a titolare come prima notizia, in prima pagina - quando i quotidiani avevano un formato più grande si sarebbe scritto 'su nove colonne - "Nelle colonie fuorilegge dove Israele sfida il mondo". Pazzesco !
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Giordano Stabile: "L'Onu a Israele: nuovi insediamenti violano il diritto internazionale"
Giordano Stabile
Ma'ale Adumim
Israele «ha superato la linea rossa», punta «all’annessione» di parti della Cisgiordania e viola «il diritto internazionale». A dirlo è l’Onu, prima con il suo inviato in Medio Oriente Nicolay Mladenov e poi con lo stesso Segretario generale Antonio Guterres. Una presa di posizione dura, che arriva il giorno dopo l’approvazione da parte della Knesset del provvedimento per la legalizzazione di quattromila case costruite su terre private palestinesi.
La legge, voluta dall’ala destra del governo guidato da Netanyahu, va in senso contrario alla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza, approvata lo scorso 23 dicembre, quella che chiedeva lo stop agli insediamenti nei Territori. Per questo le parole al Palazzo di Vetro sono pesanti. Guterres ha parlato di «violazione» che avrà «conseguenze legali di vasta portata» e ha invitato Israele a «evitare qualsiasi azione che possa far deragliare la soluzione dei due Stati».
«Due popoli, due Stati»
È proprio «due popoli, due Stati» - la formula che ha retto il processo di pace fra Israele e i palestinesi per 24 anni, dagli accordi di Oslo in poi - a essere in pericolo. I maggiori alleati di Netanyahu, Avigdor Lieberman e Nafatali Bennett, parlano apertamente di annessione di tutta o parte della Cisgiordania. L’ala destra del Likud ha presentato un mese fa un piano che lascerebbe all’Autorità palestinese solo il 39 per cento dei Territori.
L’archiviazione della formula era tabù fino a pochi mesi fa, ma ora, con Donald Trump alla casa Bianca, tutto è possibile. L’Amministrazione Usa ha criticato i «nuovi insediamenti» autorizzati da Netanyahu a partire dal 20 gennaio, oltre 6 mila nuove case, ma ha precisato che non ritiene «un ostacolo» quelli già costruiti. Netanyahu e Trump ne discuteranno a Washington mercoledì prossimo, il piatto forte del summit assieme al dossier iraniano. Il 23 dicembre, quando Obama non oppose all’Onu il veto americano alla risoluzione di condanna, sembra lontano ere geologiche.
I Paesi arabi e l’Ue
Fra i palestinesi e nei Paesi arabi c’è sconcerto e preoccupazione. Il presidente Abu Mazen ha parlato di «furto di terra», attraverso un provvedimento «inaccettabile», condannato anche da François Hollande, il più stretto alleato in Occidente, ma agli sgoccioli del suo unico mandato all’Eliseo. Il segretario generale della Lega araba Ahmed Abul Gheit ha puntato il dito su una legge che «riflette le reali intenzioni del governo israeliano e la sua posizione ostile verso la pace». Gran Bretagna, Francia, Giordania, Turchia, e l’Ue, hanno chiesto il ritiro del provvedimento.
La Corte Suprema
Ora la legge deve essere controfirmata dal presidente Reuven Rivlin. Ma si annuncia già una battaglia alla Corta Suprema. Le Ong di sinistra, come Peace Now e Yesh Din, sono pronte a presentare ricorso e contano su un alleato di peso, il presidente della Corte Avichai Mandelblit, che già aveva avvertito nelle scorse settimane sul rischio per lo Stato ebraico di dover comparire davanti al Tribunale dell’Aja in caso di annessioni.
Mandelblit è anche il giudice che ha ordinato lo sgombero dell’avamposto di Amona, eseguito una settimana fa. E ha fissato per il 2018 la demolizione di altre 17 case nell’insediamento ebraico di Tapuach, vicino a Nablus. Sono 97 gli «outpost» costruiti senza autorizzazione nei Territori. Ma almeno 600 mila israeliani vivono ormai in 140 insediamenti realizzati con l’approvazione del governo, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.
LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "Nelle colonie fuorilegge dove Israele sfida il mondo"
Bernardo Valli
L'ingresso di Ma'ale Adumim
FORSE la storia sta cambiando ancora. Ma accade troppo spesso e pochi ci fanno attenzione. La città era impassibile. Sulla Ben Juda, cuore della metropoli israeliana, le radio diffondevano a tutto volume la cronaca del mattino alla Knesset. Dei giovani coloni, col mitra a tracolla, hanno applaudito quando hanno udito che il loro insediamento, nella Samaria, non era più un accampamento di fuorilegge, ma una cittadina legale. Così ha deciso il Parlamento. Parlavano russo e nessuno gli ha dato retta. Più tardi, alla Porta di Jaffa, scendendo verso il Santo Sepolcro, i mercanti arabi, indaffarati con comitive giapponesi, non ascoltavano quel che le radio dicevano.
LEGITTIME o non legittime le colonie, attorno a Gerusalemme, si moltiplicano come funghi. Il voto eccezionale della Knesset che le promuove, le legittima, non scuote la città araba. Per i palestinesi di Gerusalemme la storia non è cambiata. Loro non hanno sentito l’“effetto Trump”. Eppure alla Knesset c’è stato. Ed è stato provocatorio come il linguaggio del neo presidente. È come se tutto avvenisse ai piedi della Casa Bianca e si udisse la sua voce. Anche se in realtà lui si è ben guardato dall’incoraggiare e ancor meno dal dare la benedizione alla decisione del parlamento israeliano.
L’influenza che esercita va oltre le sue parole. È dettata dalle sue virutali o supposte intenzioni. Con Barack Obama alla Casa Bianca 60 deputati (contro 52) avrebbero esitato ad approvare una legge definita provocatoria in molte capitali anche amiche di Israele. E infatti ne ha tutte le caratteristiche poiché, con valore retroattivo, quella legge legalizza migliaia di edifici costruiti su proprietà private di palestinesi, che sorgono in sedici colonie israeliane di Cisgiordania. Si tratta di insediamenti approvati, protetti quando necessario dall’esercito israeliano, anche se i coloni (circa 700mila tra Cisgiordania e Gerusalemme) sono armati, ma la cui espropriazione di fatto non era mai stata approvata da una legge del parlamento. Erano quindi formalmente illegali. Da ieri mattina non lo sono più. Ma non si capisce fino o quando saranno legali. La Corte suprema sarà presto investita del caso e potrebbe dichiarare incostituzionale la legge appena approvata dal parlamento. Il procuratore generale ha già fatto sapere che si guarderà bene dal difenderla. Per cui il voto della Knesset appare un colpo di mano ispirato dall’avvento di Trump.
Un colpo di mano accompagnato dal dubbio che la legge approvata possa essere applicata. Vale a dire che diventi di fatto un primo serio passo verso una annessione definitiva dei territori occupati da Israele nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni. L’opposizione internazionale è per ora forte. Il voto dei sessanta deputati israeliani riporta ai momenti peggiori i rapporti tra le due comunità, quella degli occupati e quella degli occupanti. Situazione che dura da mezzo secolo. Quest’anno si potrebbe celebrare il cinquantenario. Il dinamico Yair Lapid, che punta al posto di Benjamin Netanyahu, ha definito il voto della Knesset «ingiusto, non elegante, dannoso per Israele e la sua sicurezza». Saeb Erekat, il negoziatore palestinese al momento senza lavoro, ha parlato di «un saccheggio della pace che ne affossa le possibili- tà di realizzarla e cancella la soluzione dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese». Altri hanno denunciato il tentativo di annessione della Cisgiordania. Ad affrettare l’approvazione della legge non è stata soltanto la speranza di poter contare sul Donald Trump, in più occasioni dichiaratosi in favore di Israele, al punto da dare l’annuncio (poi ritrattato o ritardato) di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv e Gerusalemme, che potrebbe provocare una sollevazione degli arabi, già in aperta tenzone con Trump. Ad accelerare i tempi parlamentari è stata anche la decisione di sfrattare quaranta famiglie di coloni e di demolire le loro case ad Amona, perché da dieci anni giudicate illegali. Per evitare la distruzione di quell’insediamento è stata votata la legge retroattiva di gran fretta. Benjamin Netanyahu era esitante.
Dopo avere accolto con entusiasmo la partenza di Obama e l’arrivo di Trump il primo ministro ha capito che il neo presidente, pur sostenitore della destra israeliana, non poteva inimicarsi il mondo arabo. Ne aveva bisogno nella guerra contro lo Stato islamico e per questo era diventato vago sul trasloco dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e aveva invitato a non estendere gli insediamenti in Cisgiordania per non impedire la ripresa del dialogo israelo-palestinese. Durante la visita a Londra, al primo ministro britannico che insisteva sulla formazione dei due Stati, Netanyahu non ha risposto. Ha sorvolato sul problema. Non ha parlato della possibile creazione di due entità indipendenti. Il silenzio è stato interpretato come un tentativo di non apparire contrario al colpo parlamentare che si stava preparando a Gerusalemme. Fino ad allora, senza manifestare entusiasmo, adottando una accurata riservatezza, il primo ministro non aveva ripudiato del tutto la possibilità remota di creare due Stati. In realtà si adattava alla volontà di larga parte della società internazionale. Al tempo stesso era prigioniero della forte contraddizione di cui era ed è prigioniera la sua società, quella israeliana.
Da un lato, ad ogni sondaggio i cittadini dello Stato ebraico non si dichiarano contrari alla nascita di un Stato palestinese alle porte di casa. Ma i meccanismi politici, alimentati da una classe politica sempre più a destra e sempre più votata, porta in un’altra direzione. La situazione viene descritta in modo irriverente da un intellettuale di Tel Aviv: la soluzione dello Stato palestinese è considerata ineluttabile come la morte, nessuno può negarla, ma tutti la vogliono ritardare. In mille maniere, non sempre confessandolo. Il caos mediorientale, il mosaico di guerre ai confini, il livello del terrorismo che non decresce, l’instabilità delle frontiere nazionali in tutta la regione, sono tutti fattori che conducono a radicalizzare le posizioni. Non a caso si è praticamente spento il Movimento della Pace che ha avuto un ruolo di rilievo nella vita politica israeliana degli ultimi decenni. Un tempo i giovani scendevano in piazza, anche in divisa militare, per invocare la pace. Oggi pacifista viene spesso tradotto disfattista. Esitante, preoccupato di non turbare Donald Trump, di cui sarà ospite il 15 febbraio alla Casa Bianca, Benjamin Netanyahu è ritornato da Londra a Gerusalemme lasciandosi alle spalle la finzione dei due Stati e deciso ad adeguarsi alla provocazione che si stava preparando alla Knesset. In parlamento si stava celebrando con il voto retroattivo della legalizzazione di tante colonie l’avvento di Trump alla presidenza americana.
Anche se Trump non è affatto d’accordo con quel voto, che accresce l’inimicizia degli arabi, già furiosi per l’annullamento dei visti, ma necessari come alleati per combattere lo Stato islamico in Siria e in Iraq. La guerra dei Sei Giorni, che nel 1967, portò all’occupazione della Cisgiordnia e di Gerusalemme Est, fece nascere il sogno del grande Israele. Il sogno è diventato un progetto. Alla Knesset, di primo mattino. Si è tentato di realizzarlo almeno in parte.
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