Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 30/01/2017, a pag. III, l'articolo "Paradossale Israele, in guerra ma felice", tratto da un'analisi del Jerusalem Post.
Benvenuti in Israele, il paese degli investimenti stradali terroristici, degli accoltellamenti, dei razzi e dei lanci di pietre sulle auto di passaggio; dell’alta disparità di reddito e degli alti tassi di povertà; dei politici corrotti, della siccità, degli incendi; delle tensioni fra arabi ed ebrei, fra laici e religiosi, fra religiosi di diverse fedi, fra ashkenaziti e sefarditi. Eppure, contro ogni aspettativa, le inchieste sugli israeliani rilevano costantemente che siamo, nel complesso, un gruppo umano felice. A cosa si può attribuire questo senso di appagamento, a quanto pare autoctono? Evidentemente non è correlato con le dimensioni dei nostri appartamenti o dei nostri conti bancari. Né riflette, stando a queste stesse ricerche, un grado comparabile di soddisfazione per le performance dello stato. L’Israel Democracy Index 2016, da poco pubblicato, mette in evidenza quello che si potrebbe chiamare il “paradosso della felicità”.
Tre quarti degli israeliani intervistati definiscono la propria situazione personale come “buona” o “molto buona”. La grande maggioranza degli israeliani si dice ottimista circa il futuro del paese. Sono numeri che sarebbero notevoli anche per un paese non assediato e afflitto da conflitti. Non mancano dati comparativi di ricerche internazionali a conferma della conclusione che Israele – con tutti i suoi problemi e le sue incertezze, dagli scioperi dei servizi pubblici al caro-benzina – è un posto alquanto felice.
Anche quest’anno Israele si è piazzato fra i primi cinque della lista, superato solo da Danimarca, Svizzera, Islanda e Finlandia. Gli Stati Uniti, tanto per dire, non sono nemmeno fra i primi dieci. L’Ocse classifica i paesi anche in base a ventidue variabili che vanno dal reddito all’istruzione, alla sanità, agli alloggi. Israele presenta risultati misti: più forte della media in alcuni campi come salute e longevità, disoccupazione e tassi di scolarizzazione; più debole della media in altri campi come il reddito pro capite, i punteggi dei test standardizzati e l’equità salariale. Anche l’Onu svolge analoghe ricerca sulla felicità dei cittadini degli stati membri. Il suo Rapporto 2016 sulla felicità mondiale colloca Israele in un’impressionante undicesima posizione (dev’essere l’unico rapporto che esce dal Palazzo di vetro in cui Israele non viene bistrattato…). Dunque, cosa c’è dietro a questo straordinario paradosso, che trova conferma sondaggio dopo sondaggio? Israele non può permettersi i generosi programmi di assistenza sociale di una Danimarca, né la quiete uniforme della Nuova Zelanda. Il valore che abbiamo, in abbondanza, è il significato. Israele allora non è solo un posto dove vivere. E’, per molti di noi, il posto in cui si vuole vivere.
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