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Ugo Volli
Cartoline
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Il topo che prova a ruggire contro il leone 24/01/2017
Il topo che prova a ruggire contro il leone
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

A destra: bandiere israeliane presso il Muro occidentale, a Gerusalemme

Cari amici,

bisogna cercare di andare al di là delle simpatie o antipatie per Trump e dell’azione coordinata dei media e delle celebrities per farlo passare per un criminale “come Hitler” (un’allusione che accomuna giustamente le dichiarazioni di Bergoglio e di Madonna – la signora Ciccone, non la donna ebrea di venti secoli fa venerata dalla Chiesa. E’ importante capire in che direzione va la sua presidenza e quali effetti sta già avendo. In particolare a noi interessa il Medio Oriente, anche se i problemi lasciati in eredità da Obama sono molto più vasti.

Si è fatto un gran parlare del trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Diciamo subito che è un atto significativo, ma per nulla azzardato, checché ne dicano gli islamisti e gli avversari di Trump. Ogni stato ha ovviamente diritto a stabilire le proprie articolazioni amministrative come crede, senza interferenza da parte degli altri stati. Di queste articolazioni fa parte anche la capitale, che ovviamente può essere stabilita dove lo stato decide. L’Italia la spostò da Torino a Firenze e poi a Roma, dopo la guerra del 1870 allo Stato della Chiesa, che non fu certo meno traumatica per quel momento della Guerra dei Sei Giorni con cui Israele prese possesso di Gerusalemme poco meno di un secolo dopo. Dopotutto la Chiesa aveva governato Roma per più di un millennio e mezzo e aveva una legittimità immensamente superiore alla Giordania – occupante illegale di Gerusalemme fra il 1948 e il 1967.

Il parlamento israeliano, la Knesset, vi stabilì per legge la capitale subito dopo, nel 1950, esattamente 67 anni fa. Ma mentre nessuno stato ha avuto obiezioni ad accettare il trasferimento della capitale tedesca da Bonn a Berlino, dopo l’unificazione, o l’inconsueta decisione del presidente brasiliano Kubitschek di trasferire nel 1960 la capitale del paese in una città tutta nuova, Brasilia, pochissimi dei 161 stati che hanno relazioni diplomatiche con Israele hanno l’ambasciata nella capitale. Sanno benissimo che a Gerusalemme hanno sede il parlamento, il governo, incluso il Ministero degli esteri e la presidenza dello Stato: è qui che vengono a presentare le credenziali, qui che si svolgono le visite di stato e i colloqui politici, qui che si compiono le scelte su cui cercano di influire gli altri paesi; ma a Gerusalemme rifiutano bizzarramente di risiedere. Badate bene, non solo a “Gerusalemme Est”, se vogliamo supporlo per un momento, ma non certo per accertare questa bizzarra divisione geografica, ma nemmeno a “Gerusalemme Ovest”, la parte della città che rimase in mani ebraiche già nel 1948, dopo un’eroica difesa dall’assedio degli eserciti arabi.

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Gerusalemme, capitale di Israele

E alcuni di questi stati rifiutano di scrivere "Israele" sui passaporti dei loro cittadini nati o residenti qui che vivono in Israele: su quelli italiani scrivono “città: Gerusalemme; stato ZZZZZ.” Che paese sia designato da questa sigla impronunciabile, la Farnesina non l’ha mai spiegato; essa può forse solo sembrare un simbolo fumettistico del sonno della ragione diplomatica. Ma in realtà è qualcosa di più serio, il sintomo del rifiuto da parte della “comunità internazionale” di accettare non solo il risultato delle guerre di autodifesa di Israele nel ‘67 e nel ‘73, ma anche della sua guerra di indipendenza del 1948, almeno per quel che lede l’idea di una Gerusalemme internazionalizzata, oggi del tutto irrealistica ma ben viva nelle speranze vaticane.

Il Congresso americano ha approvato nel 1995 una legge che impone all’amministrazione di spostare l’ambasciata nel luogo normale dove si fanno le ambasciate, cioè nella capitale del paese ospite, cioè Gerusalemme; ogni sei mesi da allora tutti i presidenti americani (cioè nell’ordine: Clinton, Bush jr, Obama) hanno firmato un ordine presidenziale in cui dichiarano che per urgenti ragioni di sicurezza, sospendono l’efficacia della legge. Obama l’ha fatto per la sedicesima volta un mese fa. Trump dunque non fa che obbedire alla legge (e al buon senso). E, se davvero farà quel che ha promesso, darà il segnale che i luoghi comuni immotivati su cui si è basata la politica occidentale negli ultimi vent’anni almeno, non sono più attuali, che bisogna ripartire dai fatti concreti.

Il fatto concreto più evidente è che la politica dei due stati non ha mai prodotto frutti, come non ha funzionato coi palestinisti la nenia di “terra in cambio di pace”. E dunque bisogna ripensare tutto questo, sulla base dei rapporti di forza reali e non di quelli gonfiati dalle organizzazioni internazionali e dall’adesione ideologica al palestinismo di Obama e dell’Unione Europea. La proposta di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme significa questo e diventa tanto più importante quanto più i palestinisti ci tessono intorno minacce insensate, come il topo che prova a ruggire contro il leone.

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