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La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
21.01.2017 Trump Presidente: opinioni, analisi
di Giordano Stabile, Paolo Mastrolilli, Daniele Raineri

Testata:La Stampa-Il Foglio
Autore: Giordano Stabile-Paolo Mastrolilli-Daniele Raineri
Titolo: «Israele riscopre un alleato sugli insediamenti e Iran-Kaplan: inevitabile l'accordo con la Russia per sconfiggere l'Isis'-Donald e Baghdadi»

Riprendiamo oggi, 21/01/2017, alcuni commenti sulla investitura ufficiale di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d'America. Dalla STAMPA il punto di vista da Israele di Giordano Stabile e l'intervista a Robert Kaplan di Paolo Mastrolilli, dal FOGLIO l'analisi di Daniele Raineri.

La Stampa-Giordano Stabile: " Israele riscopre un alleato sugli insediamenti e Iran "

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Giordano Stabile   Efraim Inbar

Buono il commento di Stabile, che cita Efraim Inbar, direttore del Begin-Sadat Center, scrivendo: "Inbar, a differenza dei diplomatici, non ci gira intorno: «Tenersi Gerusalemme Est, gli insediamenti e la riva del Giordano come confine». Poche parole che rendono chiara la realtà del conflitto. Come la questione di Gerusalemme quale capitale.

Un presidente imprevedibile, che ama Israele, d’istinto. L’inaugurazione della presidenza Trump è vista a Gerusalemme come il ritorno della vecchia America dalla parte dello Stato ebraico. «Basta vedere il suo entourage, a cominciare dal genero Jared Kushner», conferma Efraim Inbar, direttore del Begin Sadat Center. Ma al di là della simpatia, Trump offre a Israele «un’opportunità storica per realizzare i suoi obiettivi strategici». Inbar, a differenza dei diplomatici, non ci gira intorno: «Tenersi Gerusalemme Est, gli insediamenti e la riva del Giordano come confine». È l’addio all’ipotesi «due popoli, due Stati», in piedi dagli accordi di Oslo del 1993. Anche se Trump non ha definito una politica mediorientale chiara, dalle dichiarazioni e dal personaggio, Inbar ha dedotto la linea principale, molto favorevole allo Stato ebraico: «Cercherà un grande accordo con Putin. É disposto ad abbandonare l’Ucraina, in cambio chiederà a Putin di ridurre il suo sostegno all’Iran», vera potenza imperiale della regione, il maggior rivale di Israele. Trump «è uomo d’affari, negoziatore, deciso, prepotente». Se l’accordo riesce, vedremo una diminuzione della presenza iraniana in Yemen, Siria, forse in Libano «a nostro vantaggio», sottolinea Inbar. Quanto all’accordo di pace con i palestinesi, «non ci sarà», sotto Trump almeno. Assisteremo a un «processo» infinito «che sta bene a tutti, anche alla leadership palestinese, che così continuerà a ricevere aiuti internazionali». Lo spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme è probabile in tempi brevi, ma è un «non-problema», perché la nuova sede è nella parte Ovest della città, che tutti riconoscono come legittimo territorio di Israele. Il portavoce di Trump, Sean Spicer, ha avvertito: «La decisione può essere imminente, restate sintonizzati». Lo restano anche i palestinesi, che ieri a Gaza e in Cisgiordania, hanno partecipato a manifestazione massicce preventive, mentre i servizi israeliani temono «gravi disordini» in vista.

La Stampa-Paolo Mastrolilli: "  Kaplan: inevitabile l'accordo con la Russia per sconfiggere l'Isis'

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Robert Kaplan

Non capiamo l'innamoramento della Stampa per Robert Kaplan, uno degli 'esperti del giorno dopo', in più schierato ideologicamente - potremmo scrivere perfetta fotocopia- della disatrosa  politica estera di Obama. Leggendo le sue risposte, speriamo che avvenga tutto il contrario di quanto lui si augura.
Pubblicare solo la sua opinione, non è well balanced , ce ne voleva un'altra accanto, e negli Usa c'era solo l'imbarazzo della scelta.

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Paolo Mastrolilli

L’accordo con la Russia sulla Siria è inevitabile. Tutto il resto non si farà, o non inevitabile. Tutto il resto non si farà, o non andrebbe fatto. È il giudizio dello studioso Robert Kaplan, sulla politica estera di Trump.
Perché scommette sull’intesa con la Siria?
«Il ruolo di Mosca è un fatto compiuto, e cacciare Assad è un’illusione. Bisognerà lavorare insieme per eliminare l’Isis».
E la ripresa generale delle relazioni con la Russia?
«Ci sarà un’intesa, ma il Cremlino non la rispetterà. Continuerà a usare mezzi sovversivi, per destabilizzare le democrazie baltiche, l’Ucraina, e altri paesi dell’Europa orientale». Come risponderà l’amministrazione Trump?
«Obama aveva ritirato due brigate dall’Europa, ma poi il capo del Pentagono Carter ha riportato i nostri militari nel Continente. Bisogna continuare a farlo, perché Mosca ascolta solo la forza».
La Nato è obsoleta?
«Assolutamente no. Svolge una funzione essenziale per la sicurezza dell’Europa e gli interessi americani».
E l’Unione Europea verrà abbandonata?
«Sarebbe un grave errore. La Ue ha bisogno di riforme, ma è molto più che commerci e moneta unica. Promuove valori e visione del mondo uguali ai nostri, ci conviene difenderla».
Cambierà la politica di «una Cina»?
«Ha consentito a Taiwan di prosperare, a noi di aver un rapporto civile con Pechino. Va conservata, anche perché in quella zona dovremo affrontare l’intrattabile problema di Pyongyang».
Trump ha detto che l’Onu è un club di gente che vuole divertirsi.
«L’America usa l’Onu a suo favore da decenni, se non ci fosse dovremmo crearlo. I risultati concreti sono pochi, ma questo è colpa della complessità geopolitca, non dell’organizzazione».
Sulla Libia ci sarà l’accordo con Putin e Haftar?
«Dobbiamo sfruttare ogni intesa possibile per stabilizzare il Paese, ma abbandonare il governo Sarraj sarebbe sbagliato».
Trump vuole spostare l’ambasciata in Israele a Gerusalemme.
«Mossa irresponsabile. Andrà fatta, ma come completamento di un’intesa complessiva, che ancora non esiste».
L’accordo nucleare con l’Iran va cancellato?
«No, mantenuto com’è. Risolve un problema per una decina di anni, rimettere le sanzioni sarebbe impossibile, perché gli europei non ci seguirebbero. Possiamo essere duri con l’Iran su altri temi, come il programma missilistico».
Trump ha minacciato di revocare l’apertura a Cuba.
«Errore, è l’unica possibilità di cambiarla».
L’impressione generale è che Trump voglia ristabilire i rapporti di forza fra gli stati, al posto delle regole multilaterali.
«É una politica che si poteva fare prima della II Guerra Mondiale, quando per andare dagli Usa all’Europa ci volevano cinque giorni di navigazione. Ora non è più realistica».
Questo vale anche per la globalizzazione?
«É in corso una reazione populista, ma si tratta solo di una pausa, non la fine del fenomeno. La globalizzazione continuerà».

Il Foglio-Daniele Raineri: " Donald e Baghdadi"

Trump sicuramente, non è un inellettuale nè un analista strategico, come Robert Kaplan intervistato da Mastrolilli, ma su quale sarà la sua politica estera è in grado di comunicarlo con parole chiare. Vedremo come saranno i fatti, le premesse lasciano spazio alla speranza.

Roma. Il presidente Trump ha promesso un’accelerazione della campagna militare per battere lo Stato islamico ma è da vedere se quella campagna può davvero accelerare – o se non è già alla velocità massima – e se ci sono davvero opzioni ancora inesplorate da provare. A settembre, durante una tappa della campagna elettorale in North Carolina, Trump disse che quando fosse arrivato il suo primo giorno alla Casa Bianca avrebbe convocato i generali e avrebbe chiesto loro di tornare dopo trenta giorni nello Studio ovale con un piano pronto per battere lo Stato islamico. Nei mesi precedenti era stato più spavaldo. In aprile aveva detto della sua strategia contro l’Isis: “Ho un grande piano. Funzionerà alla grande. Mi chiedono: cos’è? Be’, preferisco non dirlo. Preferisco essere imprevedibile”. A giugno sulla rete tv Fox aveva annunciato che “c’è un metodo per batterli in modo efficiente e veloce e per ottenere la vittoria totale”. Il numero di decisioni possibili a disposizione di Trump in questo settore è però ristretto, come dimostra anche il fatto che – pur non fidandosi dell’apparato militare e di intelligence – ha lasciato al suo posto Brett McGurk, l’uomo nominato dal suo predecessore, Barack Obama, per coordinare la guerra contro l’Isis. Secondo la Cnn, Trump potrebbe ordinare l’invio di alcune migliaia di soldati nel nord della Siria, nei territori controllati dalle Forze democratiche siriane – che sono una forza mista formata da una maggioranza di combattenti curdi e da una minoranza di arabi (circa un quarto). Le Forze democratiche in questo momento sono a 28 chilometri da Raqqa, capitale di fatto dello Stato islamico, e con loro sono embedded decine di Forze speciali americane. Il piano è arrivare a stringere d’assedio la città e poi entrare – come l’esercito iracheno sta facendo con l’aiuto delle forze speciali americane e francesi a Mosul, in Iraq. I soldati americani in più potrebbero fare da addestratori e reclutatori per aumentare il numero di arabi dentro le Forze democratiche siriane e farle sembrare meno curde e più miste: altrimenti gli abitanti arabi di Raqqa vedranno l’arrivo dei liberatori come un’invasione etnica. Ma in Siria è tutto più complicato. Se manda i soldati americani ad aiutare o anche soltanto se manda armi e munizioni alle Forze democratiche siriane, Trump rischia di scatenare la rabbia della Turchia, perché quei combattenti curdi attorno a Raqqa fanno parte delle Unità di difesa popolare (Ypg) – che sono legate al Pkk, il movimento curdo che è sulla lista dei gruppi terroristi in Turchia e anche in America. Inoltre, come nota il Washington Post, ogni invio massiccio di truppe americane in medio oriente rischia di “creare anticorpi” fra gli estremisti sunniti e sciiti, vale a dire che rischia di eccitare la propaganda jihadista. Al Qaida negli anni Novanta è nata anche come reazione fanatica alla presenza di truppe americane in Arabia Saudita durante la prima Guerra del Golfo nel 1991, lo Stato islamico e le milizie sciite hanno trovato un formidabile incubatore nella guerra contro l’intervento americano in Iraq cominciato nel marzo 2003. Trump potrebbe ordinare bombardamenti più intensi, perché aveva detto che lui avrebbe “bombed the shit out of them”, che potremmo tradurre con un pudibondo “li raderei al suolo”. Tuttavia, già adesso i bombardieri americani in collaborazione con l’intelligence militare trovano soltanto un numero limitato di bersagli. Non manca la volontà di colpire, mancano gli obbiettivi da colpire in grande numero – e non sono frenati da questioni di politicamente corretto: secondo il sito Airwars, che monitora queste situazioni, dal 17 ottobre gli aerei americani hanno ucciso un numero di civili compreso tra 154 e 229 nella regione di Raqqa. L’ultima operazione militare autorizzata da Obama è stata, due giorni fa, l’uccisione di circa 80 uomini dello Stato islamico sotto cento bombe guidate in due campi nel sud della Libia. Una ulteriore opzione è la creazione di una nuova alleanza – oltre alla Coalizione attuale – con la Russia per eseguire operazioni congiunte contro lo Stato islamico. Le città di Palmira e di Deir Ezzor, nell’est della Siria, sono candidate a inaugurare questa possibile collaborazione, ma il Pentagono in passato s’è opposto alla condivisione di intelligence e di procedure operative con i russi. Tuttavia, il presidente è Trump.

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