Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/01/2017, a pag. 27, con il titolo " 'Biscotti e qualche straccio' prima di diventare cenere", l'analisi di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
Gemma Vitale Servadio
Quanto è difficile fare i conti con il vuoto. Un vuoto scuro, denso, quasi impenetrabile, dal quale a tratti qualcosa si affaccia e a quel qualcosa ci si aggrappa, lo si afferra prima che sparisca di nuovo laggiù in fondo, dove è tutto nero. È un po’ così, la memoria della Shoah: una lotta improba e terribilmente sfiancante con il vuoto che è rimasto. Persino dentro miriadi di tombe che non contengono spoglie ma solo ombre vaghe, solo ricordi.
«A eterna accusa di tanta tragedia umana e famigliare, a ricordo di quella che incarnò le più nobili doti di madre», sta scritto sulla lapide di Gemma Vitale Servadio, nel vecchio cimitero ebraico di Ancona. Ma in quella terra a cui si torna perché è di lì che si arriva, come dice la Bibbia, Gemma non c’è perché è morta ad Auschwitz il 30 giugno 1944, gassata al suo arrivo nel campo e neanche sappiamo se sua madre Nina Levi, che aveva circa novant’anni, sia arrivata viva sino in Polonia o se il viaggio nel vagone merci partito da Fossoli l’abbia uccisa prima. E così, la memoria di lei e di milioni di altre vite si aggrappa al vuoto lasciato persino dentro le tombe, pesca in fondo all’abisso le tracce di quel loro mondo che non esiste più perché ogni vita è un mondo pieno di pensieri, cose, oggetti, parole, e la Shoah si è portata via tutto. E così, la pietra d’inciampo che oggi sarà posata a Torino in ricordo di Gemma è come un appiglio disperato, impossibile eppure necessario, per non lasciare sparire in fondo a quel buio una vita, il suo mondo.
Gemma Vitale Servadio era nata a Torino il 13 agosto 1878, nel pieno di quel processo di Emancipazione ebraica che aveva aperto le porte dei ghetti e avviato l’integrazione degli ebrei nella società italiana, a Torino realizzatasi meglio che altrove. Nel 1899 Gemma aveva sposato Cavour (un nome che era un inno patriottico…) Servadio, di Ancona: nella città marchigiana la coppia aveva messo al mondo cinque figli, una femmina seguita da quattro maschi. E in quegli anni in cui le donne per lo più restavano a fare la moglie e la madre fra le mura di casa, Cavour aveva deciso che la sua primogenita Lucia sarebbe andata all’Università, a studiare Medicina.
Sin da allora, la vita della famiglia Vitale Servadio è un universo di persone, cose, spostamenti: da Torino ad Ancona a Vasto in Abruzzo, dove Lucia vivrà a lungo insieme al marito, Nino Vittorio Bedarida. Rimasta vedova, Gemma lascerà Ancona e tornerà nella sua Torino ad accudire la vecchia madre. Ed è di qui che nel 1938 comincia un tipo diverso di peregrinazioni. Fossoli. Milano. Washington. Ma anche Ecuador - dove però nel 1938 i Servadio Bedarida non riusciranno mai ad arrivare. E Tangeri in Marocco, che poco dopo le leggi razziali divenne per loro un rifugio sicuro e dove un ramo della famiglia resterà molti anni ancora, dopo la guerra.
Ma Gemma no. Gemma è presa insieme alla vecchia madre alla fine di maggio del 1944, e di lì trasportata a Fossoli. Nel campo di transito presso Carpi resterà qualche settimana. Di lì invierà otto missive - brevi lettere o cartoline postali - prima di partire per Auschwitz. Per quelle vie degli affetti e del destino quasi sempre imperscrutabili, tanti anni dopo la nipote di Gemma, Mirella Bedarida Shapiro, figlia di Lucia, entra in possesso delle lettere e le porta con sé in America, depositandole al Memoriale di Washington (nel 2014 sono state pubblicate in inglese a cura del Centro Primo Levi di New York in un volumetto dal titolo I am counting on you, on everyone).
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Eccolo, il mondo di Gemma poco prima di sparire, di diventare cenere senza neanche una tomba con delle spoglie: «Dalle 2 di stanotte in treno, ora ferme a Voghera, pare si vada a Carpi», scrive alla amica Dolores Masi. «Vestiario, zucchero. Biscotti e scatolette», e «oggetti da toelette», chiede. «Scarpacce», «bluse». «Non sto bene», scrive. «Oggetti di prima necessità». Si rivolge invano ad amici e conoscenti, con questi appelli essenziali, legati alle cose della vita. «Mandami qualche vecchio straccio di vestiario per me, per la mamma anche per dopo», scrive il 14 giugno.
Come ci si fa a confrontare con queste cose? Quale peso dare a parole come «vestito» e «fazzoletti», dentro il mondo in cui Gemma si trovava allora, alla vigilia di sparire? È proprio nella «banalità» di queste richieste, nel tenace bisogno di ritrovare attraverso gli oggetti quotidiani un appiglio per restare al mondo, per provare ancora a riconoscerlo, il mondo, che queste lettere sconvolgono. Anzi, lasciano muti. Proprio come le risposte che mai arrivarono a Gemma in quelle quattro settimane in cui rimase rinchiusa a Fossoli con la vecchia madre, prima di partire per Auschwitz e non tornare più.
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