Riprendiamo dal BOLLETTINO della Comunità ebraica di Milano di gennaio 2017, a pag. 20, con il titolo "I genocidi del XX secolo: la Shoah e gli altri", l'analisi di Fiona Diwan.
Fiona Diwan
Oggi, in Francia, la Memoria della Shoah è così pervasiva e presente che la gente ne abusa; tutto diventa genocidio, ogni episodio violento: avviene quello che Levi Strauss chiamava la “reductio ad hitlerum” il fatto di ridurre tutti gli avvenimenti sanguinosi alla Shoah e a Hitler. I clandestini nell’Europa di oggi, i profughi, i migranti sui barconi, i gay perseguitati, tutto diventa genocidio. Ma al di là della sofferenza e della disperazione di migranti o profughi, la nozione di genocidio qui non c’entra niente, viene usata solo per banalizzarla o strumentalizzarla. Questi non sono genocidi, nessuno viene arrestato per essere messo a morte. Creare parallelismi è una disonestà intellettuale, è strumentalizzare la memoria della Shoah a fini politici. C’è gente che oggi va in giro con la stella gialla addosso per dimostrare che la sorte dei Rom è come la sorte degli ebrei nel 1942. O quelli che affermano che i musulmani in Francia sono come gli ebrei negli anni Trenta, e che è in atto una persecuzione contro di loro. A forza di vedere in ciò che accade una ripetizione di Auschwitz non riusciamo più a capire né il presente, né il passato, né tantomeno Auschwitz».
A parlare così sono Yves Ternon e Georges Bensoussan, entrambi storici del Memorial de la Shoah di Parigi, ospiti dell’importante Giornata di studio organizzata dall’Associazione Figli della Shoah e dal Memoriale di Milano, che ha fatto il tutto esaurito con più di 500 presenze tra insegnanti, addetti ai lavori e giornalisti. Il tema, estremamente attuale (La Shoah e i genocidi del XX secolo - Una sfida educativa possibile), ha riunito un brillante parterre di ricercatori e educatori, da Laura Fontana a Alessandro Cattunar a Silvia Antonelli, storici, il tutto alla presenza di Liliana Segre e Roberto Jarach, coordinati da Daniela Tedeschi e dalla perfetta organizzazione dell’Associazione Figli della Shoah. Dagli usi e abusi della Memoria all’analisi comparata dei genocidi del XX secolo, dall’analisi delle fonti visive della Shoah -disegni e graphic novel - fino alla disamina dell’antisemitismo contemporaneo. «Il genocidio degli ebrei d’Europa è diventato, negli ultimi anni, un soggetto culturale che tende a occultare la dimensione storica. La Shoah oggi è vittima di una cristallizzazione culturale, un soggetto amato da cinema, letteratura, arte e musica, cosa di per sé buona ma che rischia di deprivare la Shoah di un serio approccio storico.
Insomma, prima ancor di considerarla metafora del Male assoluto dobbiamo pensare alla Shoah come a un evento preciso, avvenuto in un dato spazio e tempo, analizzarne le caratteristiche e le tipicità. Viceversa rischiamo di banalizzarlo; senza coglierne la reale portata, quella di un evento-cesura: c’è un prima e un dopo Treblinka, un evento-spartiacque così enorme da schiacciare la memoria ebraica e universale. Quando si chiede alla gente che cosa sono gli ebrei, spesso vi rispondono con un’equazione: ebrei=Auschwitz. Ebbene, agli insegnanti e comunicatori va ricordato che l’ebraismo è una civiltà viva, che si incarna in una liturgia, in una filosofia, in una lingua e in un libro, un universo vivo e non defunto. Lo storico Joseph H. Yerushalmi si rifiutava di fare un corso sulla Shoah e sugli ebrei morti a persone che non sapevano nemmeno chi fossero gli ebrei vivi. Se si continua a presentare l’ebreo come vittima si snatura l’ebraismo e non si fa che preparare la persecuzione di domani, legittimandola», spiegano Ternon e Bensoussan.
Come evitare il fenomeno della cosiddetta concorrenza delle memorie? La Shoah è diventata oggi così centrale nel discorso pubblico da finire per confonderla e ibridarla - a sproposito - con gli eventi della contemporaneità. Il rischio è di amalgamare, omologare la Shoah ad altri fatti che, per quanto cruenti e terribili, nulla hanno a che vedere con la sua specificità. Intendiamoci: non significa che non bisogna paragonare la Shoah al genocidio armeno, a quello del Ruanda o ad altri genocidi del XX secolo. Ma il pericolo è appunto amalgamare, fare di tutta un’erba un fascio. È da 20 anni che lo studio di aspetti parziali o peculiari del meccanismo genocidiario, - come si arriva a bestializzare un popolo, a trasformarlo in topo o scarafaggio prima di assassinarlo -, ha preso il sopravvento sui fatti in sé. Giustamente, la psicanalisi considera l’antisemitismo una passione e non un’ideologia. Ma a forza di psicanalizzare e sociologizzare abbiamo perso di vista la sequenza storica. Come possiamo allora aggiornare e attualizzare lo studio della Shoah? Con un approccio che rivaluti il ruolo degli aspetti irrazionali nel processo storico.
Siamo tutti figli della cultura umanistica e dei Lumi, una visione illuministica della Storia che ha sottovalutato per decenni il lato irrazionale dell’essere umano, pulsioni come la Paura, il risentimento, l’invidia sociale, tutti motori della violenza di massa. Una violenza che noi occidentali oggi non siamo più in grado di capire. Inoltre, abbiamo sottovalutato l’importanza del carisma personale di figure come Hitler, Stalin…, la personalità individuale dei leader come motore degli eventi, sminuendone l’effetto catalizzatore. Molti storici concordano nel dire che senza il carisma e l’odio personale di Hitler verso gli ebrei non ci sarebbe stato nessun genocidio. Insomma, che il personaggio Hitler svolse un ruolo imprescindibile nella cristallizzazione delle pulsioni omicide e genocidarie che esistevano già nella cultura tedesca. E che solo con Hitler e la sua passione antisemita, refrattaria a qualsiasi argomento razionale, si riuscirono a coagulare energie distruttive e passare al delitto di massa. La visione illuministica ci ha tenuto lontano dagli elementi irrazionali. Ebbene, la Storia è spesso fatta di questi ultimi, che entrano in gioco ben più di quanto si creda. C’è un parallelo con l’attualità? Oggi, mutatis mutandis, l’Occidente illuminista fa fatica a pensare a un nemico ideologizzato che non presenta la nostra forma mentis e le nostre categorie. Un nemico preda di pulsioni e forze che non governa e da cui è agito. Si tende a pensare che chi non rientra nella nostra ragion critica, chi non agisce in modo razionale sia solo un pazzo, uno psicopatico. C’è un’impotenza dell’Occidente a pensare fuori dagli schemi del logos.
Invece, la follia può essere profondamente razionale e non penso solo alla Shoah; penso alla Cambogia dei Khmer Rossi, ai gulag, al terrore di Stalin, ai suoi folli processi contro gente che non aveva fatto nulla. Questa nostra tendenza a dire che i nazisti o i generali di Pol Pot o di Stalin fossero una banda di psicopatici o paranoici ci ha gravemente fuorviato. Ma questa gente non era folle. Semplicemente non pensava con le nostre categorie. Il primo errore quindi è credere di spiegare tutto con la barbarie, con l’accecamento collettivo. Non è così. I tedeschi non erano matti, le masse tedesche erano intelligenti e raziocinanti, tutti agirono secondo convinzioni motivate.
Oggi, davanti alle teste tagliate dell’Isis, diciamo che si tratta di pazzi. È un modo per tranquillizzare noi stessi. Cosa accade quando facciamo fatica a spiegare un evento? Lo rimuoviamo, lo respingiamo, lo minimizziamo. E così, quello che ci destabilizza, diventa frutto di pazzia. Di fronte alla violenza islamista quanta gente continua a dire “sono dei folli di Dio, degli invasati?”. Senza capire che non sono affatto matti, semplicemente ragionano in modo diverso da noi. Da vent’anni la Francia è teatro di un antisemitismo violento, che proviene in primis dall’immigrazione maghrebina e araba. Ma poiché questo disturba gli schemi del pensiero dominante, oggi in Francia c’è la tendenza a negarlo, a minimizzarlo. A Tolosa, Mohammed Merah uccise 7 persone di cui tre bambini ebrei, e lo fece con un revolver incollato alla tempia, esattamente come accadeva durante la guerra, coi nazisti. Nella settimana prima del suo arresto, tutta la stampa era convinta si trattasse di un neonazista. Ebbene no, Merah era un francese, nato in Francia convertito all’islamismo. E poiché non c’era una risposta comprensibile a un gesto così efferato non si è stati in grado di intuirlo e decodificarlo.
L’idea che dopo Auschwitz l’antisemitismo sarebbe stato sradicato dall’Europa si è rivelata quindi falsa? Certo. Si è verificato persino il contrario, una forma di disinibizione che ha sdoganato l’idea che se gli ebrei continuano a essere odiati un motivo ci sarà, che non c’è fumo senza fuoco. Intendiamoci, non è un fenomeno nuovo; ad esempio prendiamo la Polonia dove si svolse gran parte dello sterminio degli ebrei. Ebbene, dopo la guerra, tra il 1945 e il 1947 si verificò un’ondata di pogrom che provocarono più di 2 mila morti, vi rendete conto? A guerra finita ancora 2000 morti ebrei che tornavano dai campi stremati, uccisi a guerra finita. Eppure i polacchi avevano visto tutto con i loro occhi. Ma la cosa non impedì loro di infierire, come se la Shoah avesse sdoganato i loro peggiori istinti. In Europa, la Francia è il Paese dove la Shoah è meglio insegnata. Eppure, oggi ha il triste primato di avere il maggior numero di ebrei uccisi per crimine di nascita, dalla fine della Sconda Guerra mondiale. E gli assassini sono francesi, sono andati a scuola e hanno beneficiato dell’insegnamento della Shoah. Non vi sembra incredibile? Oggi constatiamo che la solitudine ebraica è più grave che mai e la solitudine di Israele ne è la prova più amara. Un rischio: sacralizzare la Shoah... Altroché. Il mondo occidentale è orfano di trascendenza. Ed è proprio questa sete di trascendenza a trovare risposta oggi nella Memoria della Shoah, diventata, per molti, una specie di religione secolare. Ma attenzione: il rischio è di non riuscire più a capire l’evento in sé, e occultare quella cesura antropologica che è stata Treblinka.
È proprio questa rottura antropologica che permette di paragonare Treblinka al Ruanda o alla tragedia armena o a un altro attuale genocidio, ignorato e terribile, quello dei Yazidi e dei cristiani d’Oriente in Irak da parte dell’Isis. Anche qui siamo davanti a uno sterminio deciso a tavolino, che presenta le tipiche caratteristiche genocidarie. Ma la specificità della Shoah è che gli ebrei sono stati assassinati unicamente per crimine di nascita. Non avevano fatto nulla, erano solo nati ebrei. Il nazismo non li volle mai convertire o derubare, non volle prendere le loro terre, li eliminò perché vedeva in loro l’incarnazione del Male. Ad esempio: non furono mai rapiti bambini ebrei per farne dei buoni tedeschi; mentre sappiamo che nel genocidio armeno molti bambini furono portati via ai genitori per farne buoni musulmani, islamizzandoli con la forza e dandoli a famiglie turche. È la passione genocidaria, il voler distruggere un solo popolo tra tutti, questo carattere gratuito della Shoah che costituisce una delle sue specificità assolute. In Ruanda, ad esempio, si uccise per appropriarsi delle ricchezze della vittima, accadde tra hutu e tutsi sullo sfondo di una pressione demografica spaventosa, una mancanza di terra e spazio vitale che veicolò la cupidigia nei confronti delle ricchezze dei tutsi da parte degli hutu. Per la Shoah non fu mai così. La Shoah ha confuso e stravolto le nostre categorie e il nostro quadro di riferimento.
Questa specificità radicale è anche la ragione che ci impone di non dimenticare. E non perché ci piaccia crogiolarci nella morbosità o nell’evocazione dell’orrore: ma perché è la stessa condizione umana a esserne uscita guasta. Ma ogni società ha bisogno di dimenticare per continuare a vivere… Certo, si è molto parlato di riconciliazione. Ma questa avviene tra due avversari che si combattono, non con l’inerme che viene schiacciato. Per questo nessuna riconciliazione è possibile. Un genocidio non finisce mai. Sono passati 20 anni dalla tragedia del Ruanda, ma dal 1984 nulla è dimenticato. La memoria dei tutsi, degli ebrei, dei discendenti armeni è avvelenata, abitata dalla catastrofe. Il Giorno della Memoria in Francia è importantissimo… Sì, ed è tale da aver generato negli altri una sorta di gelosia memoriale, una concorrenza vittimaria. In una società multietnica dove la nozione di cittadinanza perde forza, sembra che tutti aspirino allo statuto di vittime, poiché una vittima ha solo diritti e non ha doveri; sembra paradossale ma essere vittime oggi è comodo e ciascuno si sente legittimato nel rivendicare una propria peculiare catastrofe.
Curiosamente, questa gelosia memoriale aggrava un senso di solitudine molto forte negli ebrei, accusati di volersi accaparrare tutta la sofferenza in una specie di monopolio del dolore. Non è incredibile? Avviene così la saldatura col vecchio pregiudizio antisemita che vedeva gli ebrei come approfittatori, monopolizzatori, sfruttatori, accaparratori dei media, del potere, del denaro e ora persino della sofferenza. La centralità della Memoria della Shoah genera un effetto perverso: quello di nutrire un pregiudizio arcaico che pensavamo sepolto: l’ebreo rapace e cupido, che arraffa. In una società multietnica, il sedicente monopolio ebraico del dolore suscita irritazione: allora, anche i neri vorranno rivendicare la propria sofferenza in quanto discendenti dagli schiavi; la comunità algerina vorrà giustamente vedere riconosciuti gli orrori della guerra d’Algeria e della decolonizzazione… Eppure quella di genocidio è una nozione molto precisa. La guerra d’Algeria è stata un abominio ma non è stata un genocidio. La tratta degli schiavi è stata un orrore, un crimine contro l’umanità ma non un genocidio. Nel momento in cui la Shoah diventa l’alfa e l’omega della sofferenza, ecco che tutti vorrebbero esibire lo stesso grado di sofferenza degli ebrei. Sta succedendo nella Francia multietnica di oggi. Ecco perché la pace tra le comunità etniche e religiose è continuamente minacciata. Lei parla spesso di rischio di banalizzazione… La trivializzazione della Memoria della Shoah ha a che fare oggi con la questione della memoria collettiva. Ecco perché dobbiamo stare attenti alla memoria edulcorata, che tende a ricostruire il passato attraverso memorie rassicuranti, gratificanti ma lontane dai fatti della Storia. Faccio un esempio. Si dice che gli ebrei furono passivi e amorfi di fronte all’affermarsi del nazismo, prima del 1933. Ebbene, è falso. Furono lucidissimi e c on s ap e voli, anche se nessuno poteva mai immaginare Auschwitz. Combatterono, manifestarono, si appellarono alla Società delle Nazioni... Ma oggi ci fa comodo dire che furono delle pecore passive: questo ci consente di raccontare che NOI avremmo agito diversamente, in modo migliore.
Altro luogo comune: i tedeschi non sapevano davvero quello che accadeva nei lager. Non è vero, si sapeva tutto e in tutte le famiglie. Come? Perché i soldati, semplicemente, tornano in licenza a casa e parlano e dicono ciò che vedono e ciò che sanno… Altro luogo comune: gli Alleati non sapevano. Non è vero. Gli Alleati erano al corrente di tutto a partire dalla fine del 1942. Ma il fatto è che travestire il passato, illuderci che l’Occidente non sapesse nulla delle camere a gas ci aiuta a sentirci meno in colpa. Un altro esempio di travestimento rassicurante della Storia? Ad esempio che il Re del Marocco avrebbe protetto gli ebrei durante la guerra. Non è vero affatto. È un mito. Altra mitologia? Che lo Stato d’Israele sia nato a motivo della Shoah. Non è così, non c’è nessun nesso di causalità tra i due eventi, l’Yishuv nacque ben prima dell’avvento di Hitler e la Shoah, al contrario, rallentò l’autodeterminazione ebraica che contava sulle masse di ebrei dell’Europa orientale e sulla loro immigrazione in Palestina. Anzi, forse la Shoah ha impedito la nascita dello Stato d’Israele poiché il battaglione che doveva accelerarne la costituzione morì tutto a Treblinka.
Quindi l’idea di Israele come forma di redenzione o di riparazione è sbagliata e fuorviante. Un errore storico diffuso e che ignora la realtà del sionismo, dell’Yishuv, del ruolo degli ebrei dello Yemen e orientali, che contribuirono a costruire lo Stato d’Israele. Ci fu chi capì, in tempo reale, quello che stava accadendo? Sì, in primis, un grande intellettuale cattolico francese: Jacques Maritain colse il progetto di sterminio nazista verso gli ebrei, lui e pochi altri, - tra cui Francois Mauriac, Julien Green, Marguerite Duras-. A guidarlo è stato lo schema del capro espiatorio, dell’agnello sacrificale applicato al popolo ebraico intero e identificato con lo schema del crimine commesso contro Gesù. È stato il quadro mentale di riferimento a permettere al mondo cattolico la percezione precoce dell’immensità del crimine. Nazismo, comunismo, sono spesso “amalgamati“, come dice lei… La Guerra Fredda ha facilitato la confusione inducendo una similitudine tra comunismo e nazismo. Certo, ci sono molti punti comuni ma di fatto i due fenomeni restano opposti. Il nazismo è particolaristico, cerca la felicità dei tedeschi non dell’umanità, mentre il comunismo ha un’afflato universalistico e mira alla felicità globale e planetaria.
Che pericoli corre la Memoria? È in atto un fenomeno, la cosidetta de-giudaizzazione della Shoah. Parte da lontano: dal massacro di Babi Yar, 1941, i russi non menzionano l’origine ebraica delle vittime. Per decenni diranno che si trattò di patrioti sovietici assassinati dai nazisti, anche se erano bambini, anche di due anni. Per 50 anni, sovietici, polacchi, lituani... non hanno menzionato la dimensione ebraica della Shoah. Anche in Occidente è accaduto qualcosa di simile, specie negli ambienti comunisti europei. E oggi sta crescendo in Francia una generazione di giovani storici estremamente tecnicistica, fredda, priva della minima empatia, fautori di una Storia fatta di cifre, asettica, sterilizzata, priva delle voci di carnefici e vittime; così, come ci sono torte senza zucchero, finiremo per avere una Shoah senza ebrei.
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