La questione di fondo
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: il soldato Elor Azaria
Cari amici,
non ho partecipato finora alle accese discussioni sulla condanna del soldato Azaria e sulla risposta degli allievi ufficiali attaccati al recente attentato di Gerusalemme. Non voglio nemmeno riaprire questi dibattiti perché le cose che ho in mente sono amare e per carità di patria preferisco tacerle. Anche se si tratta di un discorso triste e difficile, devo però aggiungere alla vostra informazione i dati di un sondaggio promosso dallo stato maggiore dell’esercito israeliano (IDF), riportati da Haaretz (ma io cito da qui: http://www.jewishpress.com/news/breaking-news/internal-report-majority-of-idf-soldiers-dont-expect-support-from-commanders-in-case-of-errors/2017/01/12/) perché sono molto preoccupanti:
“Solo il 41% dei soldati da combattimento israeliani si aspettano che i loro comandanti li sostengano se dovessero fare un errore, secondo un sondaggio interno IDF […] se si considera invece un campione di tutti gli arruolati dell’IDF, una piccola maggioranza, il 51%, crede che riceverebbe sostegno. Solo il 61% dei soldati di combattimento dicono di essere soddisfatti dei loro comandanti. Nel 2014 la percentuale era del 65%, nel 2012 del 76%. Solo il 23% dei soldati di combattimento vogliono diventare ufficiali. Nel 2014 era del 24%, e nel 2012 il 33%. Solo il 25% dei soldati di combattimento prende in considerazione una carriera militare, rispetto al 32% nel 2014 e 41% nel 2012. Gli autori dello studio hanno osservato che "si può presumere che questi risultati sono stati influenzati dagli eventi con Elor Azaria. È interessante notare che, nonostante la loro chiara diffidenza, il 73% dei soldati da combattimento israeliani si dicono soddisfatti con il loro servizio, rispetto al 76% nel 2012. Tuttavia, alla domanda se il servizio di combattimento contribuisca di più per il paese, solo il 40% dei soldati di combattimento è d'accordo, rispetto al 54% nel 2014. Tra la truppa IDF in generale 41% pensano allo stesso modo.”
E’ il segnale di una crisi grave nel rapporto fra vertici dell’esercito israeliano e soldati. Bisogna ricordare che in Israele c’è la coscrizione obbligatoria, ma per chi vuole evitare il servizio non mancano le vie d’uscita e soprattutto che ognuno chiede la propria destinazione, sicché chi fa parte dei corpi combattenti l’ha scelto ed è motivato a mettere a rischio la propria vita per difendere il paese, come lo era Elor Azaria. Le sue vicende secondo me hanno pesato non tanto per via della sentenza, quanto dell’atteggiamento degli alti gradi (soprattutto il capo di stato maggiore Eisenkot e il ministro della difesa di allora Ya’alon) che sono intervenuti ben prima del processo a condannare Azaria e hanno continuato a farlo fino alla vigilia della sentenza (Eisenkot) e anche dopo con le pressioni di discutibile legalità esercitate da parte del comandate dell’unità di cui fa parte Azaria di convincere i suoi genitori a rinunciare all’appello, che è un diritto garantito a tutti (http://www.ticinolive.ch/2017/01/13/israele-colpo-scena-nel-caso-elor-azaria-due-colonnelli-fanno-pressioni-promesse-ai-genitori-michael-sfaradi/). Ben diverso è stato l’atteggiamento dell’attuale ministro della difesa Lieberman che ha dichiarato “dispiacere” perché le cose “sono arrivate dove non dovevano arrivare” (http://www.debka.com/newsupdatepopup/19740/Defense-Minister-Media-scandal-harms-case-of-Hebron-soldier).
Ma c’è qualcosa che va al di là di questo schieramento degli alti gradi dell’esercito contro un suo soldato che avrà sbagliato, sì, ma nella convinzione di combattere i nemici (mentre analogo rigore non c’era stato nei confronti di Gilad Shalit, che Hamas era riuscito a rapire probabilmente anche perché non si era attenuto bene alle procedure di sicurezza, con la conseguenza dei danni che Israele ha subito per pagarne il riscatto). Vorrei chiarire che il discorso che sto facendo è politico e non militare; io non mi sogno affatto di discutere il senso di sacrificio, possiamo dire l’eroismo di tutto Tzahal, come si chiama in ebraico l’esercito israeliano, dalla base ai vertici; credo però che sia opportuno parlare delle linee politiche di questi ultimi, che sono parzialmente indipendenti, perché assai filtrate, rispetto alle scelte elettorali.
Per chiarire quel che voglio dire, penso sia meglio citare un articolo molto equilibrato del Jerusalem Post, firmato da un giornalista molto esperto e rispettato, per nulla estremista, come Ira Sharanski, professore emerito di scienze politiche alla Hebrew University di Gerusalemme. Nell’ambito di un’analisi molto distaccata e basata sui fatti, ma sostanzialmente colpevolista, di quanto è accaduto nel caso Azaria (http://www.jpost.com/Blogs/Window-on-Israel/IDF-norms-and-a-court-martial-477854), Sharanski a un certo punto scrive:
“E’ chiaro che nelle discussioni su Azaria agiscono opinioni contrastanti su come l'IDF dovrebbe funzionare, e - al di là di questo - su quella che dovrebbe essere la politica di Israele nei confronti dei palestinesi. Un punto di vista è che l'IDF dovrebbe impegnarsi per la vittoria totale, dovrebbe combattere il nemico, al quale bisognerebbe far pagare il prezzo della sua aggressività. Contro questa tesi si trova l’opinione che non esista una soluzione semplice al conflitto nazionale; che i palestinesi e i loro sostenitori non possono essere sconfitti in modo totale; che Israele e i palestinesi devono continuare a vivere l'uno accanto agli altri. C'è una commistione inevitabile di residenza e/o di lavoro fra ebrei e arabi israeliani, e, in misura minore, palestinesi. La politica ufficiale, seguita e inculcata nella reclute dall'IDF, non è solo un approccio umano a singoli palestinesi che non rappresentano un pericolo immediato, ma anche di realizzare il più possibile compromessi al fine di facilitare la coesistenza.”
Il punto è proprio questo. Sharanski riprende un’idea che le autorità militari non solo usano probabilmente come regola d’azione, ma che presentano come la loro “etica” da “inculcare” alle reclute, cioè a tutti gli israeliani: non è possibile sconfiggere il terrorismo, non si può pensare di vincere davvero, usare la forza disponibile è futile, bisogna invece cercare accomodamenti, compromessi, convivere col terrorismo. Normalmente non ne parlano in pubblico, ma questo è un esempio di dichiarazione fatta da ex leader militari, che vi suggerisco di leggere con attenzione: http://fr.timesofisrael.com/danciens-generaux-reclament-en-arabe-la-separation-des-palestiniens/. Solo dando uno stato ai terroristi, dicono gli ex militari, si garantisce la sicurezza di Israele. E’ un paradosso, che purtroppo ha dominato il pensiero della sinistra israeliana fino a portare agli accordi di Oslo e al ritiro da Gaza, e che non ha più corso nell’elettorato, ma domina ancora gli alti gradi dell’esercito e dei servizi. E’ accaduto anche a me di persona di sentire un alto ufficiale dell’amministrazione civile dell’esercito dire in sostanza che la sconfitta di Hamas non è nell’interesse di Israele – come lo vedeva lui e i suoi superiori, naturalmente.
Non sta a me, che scrivo dall’Italia, contestare queste opinioni. Ma è chiaro che la maggioranza dell’elettorato israeliano non la pensa così, che il prezzo di questa politica è probabilmente il perpetuarsi di un terrorismo il quale non viene schiacciato in tutti i modi possibili, ma solo gestito; che le regole concrete imposte alle comunità ebraiche di Giudea e Samaria e perfino sul Monte del Tempio prefigurano una politica di cessione. Di queste cose è ovviamente difficile parlare, ma certamente bisogna rifletterci; perché al di là delle schermaglie politiche e dei programmi espliciti, il futuro di Israele e del mondo ebraico, compresa la Diaspora che ormai è minoritaria e spesso confusa, dipende da questa alternativa: cercare di vincere imponendo le proprie regole o trovare una forma di compromesso che l’altra parte dichiaratamente non vuole, se non come passaggio provvisorio sulla strada della sua vittoria finale?
Ugo Volli