Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/01/2017, a pag. 18, con il titolo "Saber, che reclutava jihadisti in cella: 'Morire per la benevolenza di Allah' ", la cronaca di Giovanni Bianconi; dal FOGLIO, l'editoriale"Riluttanti contro l'Isis".
Ecco gli articoli:
CORRERE della SERA - Giovanni Bianconi: "Saber, che reclutava jihadisti in cella: 'Morire per la benevolenza di Allah' "
Giovanni Bianconi
Saber Hmidi
Sei mesi in carcere, nel 2011, l’avevano trasformato in un fanatico dello jihad . Uscito di galera s’era messo a frequentare un paio di moschee e altrettanti personaggi che l’uomo teneva nascosti alla moglie, italiana convertita alla religione islamica; uno gli aveva regalato la bandiera nera con i bordi dorati e le scritte arabe inneggianti ad Allah, vessillo dell’organizzazione Ansar al Sharia, una fazione dell’Isis. «Diceva che voleva trasferirsi in Siria a combattere, voleva portare anche me — ha raccontato la moglie —. Spesso la notte guardava al computer foto e filmati dei soldati dell’Isis».
A ottobre del 2014 fu fermato dalla polizia per un controllo, e alla richiesta di documenti estrasse una pistola; non fece in tempo a sparare, ci fu una colluttazione, fuggì ma fu riacciuffato dopo poche ore. Fu accusato di reati comuni, probabilmente si preparava a commettere rapine, ma a casa gli sequestrarono computer e telefonini pieni di propaganda jihadista. Tornato in cella è diventato uno degli oltre trecento detenuti di religione musulmana monitorati ogni anno dalla polizia penitenziaria: l’hanno osservato e ascoltato mentre parlava con i compagni e i parenti, hanno chiesto notizie sul suo conto agli altri reclusi. Finché ieri gli agenti della Digos di Roma gli hanno notificato in prigione un ordine d’arresto per partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale, attraverso azioni di proselitismo, reclutamento e istigazione alla discriminazione religiosa.
La storia di Saber Hmidi, tunisino di 33 anni, diventa così un paradigma del pericolo terrorista per come viene oggi percepito e contrastato in Italia; un po’ come è avvenuto per Anis Amri, lo stragista di Berlino, ma in questo caso senza conseguenze nefaste. C’è la radicalizzazione in carcere, che trasforma le persone e le fa diventare aspiranti soldati vogliosi (almeno a parole) di arruolarsi alla guerra santa. Come i mujaheddin che «sono i più forti del mondo — diceva Hmidi intercettato in cella — ... L’America fa sempre la guerra... jihad significa la lotta... Loro hanno lo stesso obiettivo, i mujaheddin vogliono l’applicazione della legge divina». Durante una preghiera del venerdì il tunisino, che nel penitenziario di Salerno era stato indicato come detenuto-imam, è stato sentito «interpretare in modo ortodosso i dettami coranici», e in alcune conversazioni registrate in cella se la prendeva con «i Paesi europei che hanno saputo sfruttare le ricchezze dei Paesi musulmani per lo sviluppo delle loro economie... I governi arabi sono stati manipolati da questi Paesi».
Alcuni detenuti hanno riferito di averlo sentito «esprimere soddisfazione» per gli attentati al settimanale francese Charlie Hebdo e al museo Bardo di Tunisi, nonché manifestare l’intenzione di andare in Siria. Il salto di qualità tra le opinioni e il pericolo di azioni conseguenti deriverebbe, nel caso di Hmidi, dalla risolutezza e dalla violenza dei comportamenti, tentate sommosse, dietro le sbarre, aggressioni, minacce come quelle lanciate verso gli agenti penitenziari nel luglio scorso, quando protestò per non potersi recare al passeggio con le infradito: «Bastardi, vi taglio la testa...». Alcuni compagni di cella hanno raccontato di aver subito vessazioni e «soprusi» dal tunisino che voleva piegarli alle sue convinzioni: «Mi impone di pregare tutte le volte che prega lui e vuole inculcare a noi le sue idee religiose... Tenta di indurre gli altri a creare problemi alla sicurezza del penitenziario — ha spiegato un pachistano che ha voluto cambiare cella —. Mi proibiva di fumare, lui è un integralista convinto. Ha invitato me e Noureddine (altro detenuto, ndr ), una volta usciti dal carcere, a unirci all’Isis in Siria o in Libia, poiché una volta morti avremmo generato la benevolenza di Allah».
Per i precedenti reati Saber Hmidi è stato condannato a 3 anni e otto mesi di pena che avrebbe finito di scontare fra breve. Il monitoraggio in carcere ha dimostrato, secondo il giudice dell’indagine preliminare, che ne stava commettendo di nuovi, più gravi, e per questo resterà in galera. Due connazionali con i quali era in contatto da libero, su cui non sono stati raccolti sufficienti indizi per accusarli formalmente, sono stati espulsi: altra decisione emblematica di come l’Italia tenta di difendersi dalla nuova minaccia.
IL FOGLIO: "Riluttanti contro l'Isis"
Franco Gabrielli, capo della polizia
Roma. Il capo della polizia Franco Gabrielli ha detto che nel nostro paese la sicurezza funziona, “ma anche noi prima o poi pagheremo un prezzo”, e quindi ci si aspetta un attentato come in altri paesi europei. Se questa è la valutazione, la domanda allora è: cosa abbiamo fatto in questo conflitto? L’Italia in guerra contro lo Stato islamico – come tutti, del resto – ha scelto finora un approccio morbido e preferisce occuparsi di ogni genere di attività di contorno piuttosto che delle operazioni di combattimento sostenute da altri paesi occidentali. In Libia il governo ha mandato un contingente militare-sanitario di circa 300 uomini che cura i feriti della città di Misurata, feriti però in una campagna per liberare la città di Sirte dagli estremisti che è finita un mese fa, nella prima settimana di dicembre. E’ una missione destinata a esaurimento naturale.
In Libia facciamo anche un lavoro di intelligence disingenuo, un po’ dalla parte di Tripoli e un po’ assieme con i rivali di Bengasi, ma non amiamo le esposizioni o le circostanze che implicano operazioni di guerra. Quando l’anno scorso gli alleati americani ci hanno chiesto di usare le basi in Sicilia per colpire lo Stato islamico in Libia con i droni, abbiamo imposto una clausola molto limitante: i droni possono colpire soltanto in alcuni casi d’emergenza, per esempio se a terra c’è una squadra delle forze speciali americane in pericolo. In Iraq c’è un nostro programma di addestramento militare – siamo considerati istruttori eccellenti – c’è la guardia alla diga di Mosul e ci sono le missioni di ricognizione aerea affidate a droni e caccia che decollano dal Kuwait, ma anche in questo caso c’è una scadenza, il territorio in mano allo Stato islamico si sta rimpicciolendo sempre di più e se Mosul, capitale di fatto dei terroristi, dovesse cadere nei prossimi mesi – come potrebbe accadere – anche la nostra presenza diventerà obsoleta.
In Iraq come in Libia ci sono gli operatori delle forze speciali italiane, ma si parla di numeri bassi – cinquanta alla volta – e impiegati in compiti d’intelligence, non di guerra. Anzi, quelle forze sono poche, selezionate e già al limite operativo. In Afghanistan ci sono ancora circa 950 soldati italiani sotto le insegne Nato, ma per ora non si tratta di un impegno specifico contro lo Stato islamico – che pure sta tentando un’ escalation lenta anche in quel paese. L’Italia in casa è severa con le espulsioni di soggetti pericolosi – sono quasi decuplicate negli ultimi due anni – ma si tratta di misure antiterrorismo da sistema immunitario nazionale, non di lotta contro lo Stato islamico. Questo impegno defilato non ci mette al riparo da attacchi, a partire dal 2016 la propaganda dello Stato islamico ci ha citato in molte occasioni e tutte queste citazioni e minacce si traducono poi davvero in attentati, come è accaduto in Francia, Belgio e Turchia – dove l’ordine di colpire è arrivato direttamente da Siria/Iraq – e in altri paesi, come l’America e la Germania, dove hanno agito soggetti con legami meno diretti. Siamo un paese che contiene bersagli simbolici e già annunciati – come Roma, centro della cristianità.
Viviamo in una situazione di attesa strana, temiamo una strage, siamo al centro delle attenzioni dello Stato islamico, abbiamo militari in tutti i teatri di operazioni (Siria esclusa) – ma se un domani volessimo rispondere a un attacco in breve tempo non potremmo, perché ci siamo limitati a una partecipazione riluttante.
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