Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 09/01/2017, a pag. 26, con il titolo "Il guardiano di Auschwitz", l'intervista di Wlodek Goldkorn a Piotr Cywinski, direttore del Museo di Auschwitz.
Wlodek Goldkorn
Piotr Cywinski
Da dieci anni il 44enne Piotr Cywinski, storico, cattolico, studi in Svizzera e Francia, dirige il Museo di Auschwitz. Viene da una famiglia importante Cywinski, il padre Bohdan, filosofo, amico personale di Karol Wojtyla, è stato un uomo di dialogo tra laici e cattolici in Polonia, nonché attivista dell’opposizione democratica. Cresciuto nell’ambiente dei Club di intellighenzia cattolica (Kik) - una rete di intellettuali di cui faceva parte il primo premier post-comunista, Tadeusz Mazowiecki, che da sempre ha combattuto l’antisemitismo e la xenofobia in un Paese dove la Chiesa non è mai stata immune a queste due piaghe - da due lustri appunto, Cywinski ogni mattina va a lavorare in un luogo diventato simbolo della Shoah. Un posto dove la dimensione concreta dell’assassinio di oltre un milione di persone si scontra con il significato quasi metastorico che a quello spazio si vuol dare. Ora sulla sua esperienza ha scritto il libro Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz, in uscita per Bollati Boringhieri a cura di Carlo Greppi.
Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz (Bollati Boringhieri ed.)
Che cosa ha imparato in questi dieci anni? «Quando sono stato nominato direttore del Museo molti sopravvissuti erano ancora tra di noi. Oggi, purtroppo, ce ne sono pochi. E tra questi solo pochissimi sono in grado di dare un consiglio o fornire un appoggio riguardo alle decisioni che devo prendere ogni giorno. Penso di aver capito che occorre conciliare due virtù che crediamo alternative tra di loro. Da un lato ci vuole umiltà. Non è facile. Io ho la facoltà di decidere cosa fare in un luogo che non è di mia proprietà né lo è della Repubblica di Polonia e neanche dell’Europa. Ma sono consapevole di quanto ogni decisione debba essere frutto di una riflessione e di quanto debba tener conto degli i aspetti etici e non solo estetici. Mi chiedo ogni giorno, che indirizzo sto dando alla memoria? Ma accanto all’umiltà ci vuole qualcosa che chiamerei “insolenza”. Mi spiego: ognuno di noi ha una sua idea su cosa sia la memoria, a cosa debba servire. E allora occorre una buona dose di insolenza per dire “no, grazie”, ai consigli dati da persone che hanno un rapporto emozionale fortissimo con questo luogo».
Tra le persone che hanno un rapporto emozionale fortissimo con questo luogo, ci sono pure io. Auschwitz è il mio cimitero di famiglia. E mi chiedo e le chiedo: qual è il senso di questo museo? Perché si insiste nel rinnovare il filo spinato, a costruire le fondamenta sotto le baracche, a preservare gli oggetti come le valigie, le bambole, gli occhiali, le scarpe, che comunque non sono in grado di trasmettere l’indicibile e l’inimmaginabile? Non sarebbe meglio se tutto questo un giorno diventasse solo un cumulo di macerie? Non sarebbe meglio che la memoria avesse solo una dimensione simbolica e non materiale? «Se prendiamo in esame vari luoghi della memoria, vediamo soluzioni diverse. Ci sono luoghi la cui esistenza si basa sulla ricostruzione quasi fedele di quello che c’era prima e luoghi dove tutto è stato distrutto, e dove la memoria è espressa attraverso opere d’arte e di architettura».
Ad esempio Belzec, un campo di sterminio dove morirono mezzo milione di ebrei e dove i sopravvissuti sono stati due o tre. Là la memoria ha una dimensione solo simbolica: un monumento, lapidi, e querce testimoni del crimine... «Vorrei però citare i luoghi di genocidio fuori dall’Europa, ad esempio in Ruanda, dove si possono vedere le ossa, i teschi. Chi viene a visitare questi luoghi lo fa per cercare autenticità. Auschwitz è l’unico tra i principali campi di sterminio dove si sono conservati alcuni caratteri di autenticità perché i tedeschi non fecero in tempo a raderlo al suolo. È d’accordo con me?».
Deve convincere i lettori, non l’autore dell’intervista... «E allora, finché non sarò convinto che Treblinka o Belzec funzionino meglio di Auschwitz per quanto riguarda la memoria, difenderò questi elementi di autenticità, anche a costo di rinunciare a qualche accorgimento estetico museale o artistico. Mettiamola così: è molto importante il fatto che la gente vada a vedere film come Schindler’s List o Figlio di Saul, tuttavia le testimonianze come quella di Shlomo Venezia (un Sonderkommando, uno dei prigionieri addetti ai crematori, autore di Sonderkommando Auschwitz, ndr) sono un’altra cosa. Una cosa è una parola scritta per narrare una storia, altra cosa è la parola incisa qui sul terreno. Finché posso preservare gli oggetti, lo faccio».
Cosa non si vede ad Auschwitz? «Non possiamo vedere la vittima. Delle vittime non sappiamo niente. Erano persone che sono state portate qui solo per essere assassinate. Questo non è il luogo delle loro vite. A Washington all’Holocaust Museum ogni visitatore all’ingresso riceve una finta identità di una vera vittima. Da noi non avrebbe senso farlo, perché Auschwitz non è un Museo della Shoah. E poi, scegliere biografie per così dire esemplari significa creare icone che mettono all’ombra l’inimmaginabile quantità delle vittime meno note o ignote. La figura di Anne Frank, per esempio, ha finito per gettare un velo sulla sorte di oltre un milione e mezzo di bambini. Se ci si concentra su un solo esempio si rischia di non percepire la dimensione massiccia dell’assassinio».
Quindi Auschwitz è anche il vuoto? «Quando si entra in una baracca vuota, si vede un baracca vuota. E io voglio che quel vuoto risuoni forte. Le ceneri delle vittime sono state gettate nella Vistola, quindi non ci sono tombe. Ma poi, c’è chi propone di ricostruire uno dei crematori, fatti saltare in aria dai tedeschi. Io penso che sarebbe un atto revisionistico».
E forse, anche di cattivo gusto, una Disneyland dell’orrore. Da quello che ha detto si evince che il museo di Auschwitz, con i suoi due milioni di visitatori l’anno e un budget di oltre 12 milioni, esiste per suscitare empatia. È così? «Al riguardo, in questi dieci anni, in cui spesso vado a passeggiare nel terreno del ex Lager, e dove vedo animali, piante, uccelli e ho tempo per riflettere...»
Ne parla nel suo libro delle passeggiate solitarie... «...ecco in questi dieci anni ho cambiato più volte opinione sull’empatia. L’empatia è una forza enorme, e ho pensato a lungo che fosse il fondamento del nostro essere umani, ma è irrazionale. Penso che in un luogo come questo ci vuole un misto di empatia e di radicale razionalità».
Auschwitz è anche meta di viaggi dei politici. Alcuni vengono qui a dire “Mai più” e poi fanno guerre, torturano, commerciano in armi. Auschwitz è forse diventata una specie di “lavanderia della coscienza”? «Occorre distinguere. Ci sono tre categorie di politici. Coloro che vengono qui e la visita cambia o rafforza la loro visione umanistica del mondo. Quelli che arrivano con sette telecamere, alla viglia delle elezioni. E ci sono politici alle cui visite io non partecipo».
Lei è un cattolico credente. I dieci anni qui hanno cambiato la sua visione di Dio? «Di Dio, no. Ma dei sistemi religiosi sì».
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