Riprendiamo oggi, 07/01/2017, dalla STAMPA a pag.1/2/3, il reportage dalla Tunisia di Domenico Quirico. Dal FOGLIO a pag.3. l'analisi di Cristina Giudici sullo stesso tema.
La Stampa-Domenico Quirico:" Mi hanno reclutato nelle carceri italiane per fare il terrorista"
Domenico Quirico
terroristi tunisini
L’uomo che racconta questa storia l’ho incontrato in un viottolo di campagna vicino a Sousse. Ulivi, terra e cielo. Nessuno che potesse ascoltare. Abbiamo parlato in un furgoncino bianco, che odorava di cipolle e verdura. Precauzioni. L’uomo è tunisino, come il terrorista di Berlino. Racconta di prigioni italiane e di conversioni. Terribili assonanze. Forse il segreto della jihad sanguinaria non era in Siria o nei deserti, ma qui sotto i nostri occhi ciechi. Ecco il suo racconto. «Ecco quello che mi è rimasto in mente delle prigioni italiane, ne ho viste una infinità: Rebibbia, Civitavecchia, Firenze, Venezia, Milano. Il rumore delle porte che si chiudono è un rumore unico, come se tirassero un colpo di fucile. Ma il rumore, poi, si smorza, senza eco, i rumori di una prigione sono tetri e privi di eco. E poi, il volto del Reclutatore. Era egiziano, aveva braccia pesanti come clave e mani curate, i baffi tagliati come usano i salafiti, i radicali di Dio. Non c’era in lui alcuna traccia di senilità. La voce. Magica, ti faceva diventare un uomo. Sapeva tutto il Corano e gli hadith profetici e la sunna. Restare con lui nell’ora d’aria e di socializzazione era una festa per i sensi e per il cuore. Con lui, persino io, giovane delinquente intossicato dall’eroina, mi sentivo purificato, elevato. La Terra e il Paradiso Al sicuro. Con lui, nessuno ti guardava male, nessuno ti giudicava. Eri libero e calmo. Tutto ti apparteneva, tutto ti spettava come seguace di Dio. Al Alim, colui che sa. Il sole che entrava a fatica nel carcere, il vento che sentivi al di là dei muri, il cielo. La voce era calda, melodiosa capace di evocare la terra e il paradiso, i versetti li pronunciava in modo lento e sfolgorante, tanto che diventavano invocazioni, quando smetteva per prender fiato gli chiedevamo: ancora, ancora. “La mia comunità non sarà mai d’accordo nell’errore”. Ricordava e raccontava le storie di quando l’Islam conquistava il mondo, dei Califfi che sbaragliavano i nemici come se fossero polvere del deserto. E dell’emiro Osama, che aveva messo paura all’America. Chi ci aveva mai raccontato queste cose? Li vedevamo tutti, mi vedevo davanti a loro, mi sentivo esaltato, ispirato, arricchito di minuto in minuto, da un racconto all’altro. Gli dicevo: queste storie non le dimenticherò mai, e lui: per questo ve le affido, perché siate buoni musulmani e perché non vengano dimenticate. Eravamo in tanti in quella sezione del carcere, sapevo che lui ci sorvegliava e i suoi occhi ci benedicevano. Droga alla Garbatella Dov’è ora? È morto. Tento qualche volta di immaginarlo avanzare con gli altri combattenti di Dio, tra le rovine di Homs, verso il luogo in fiamme da cui nessuno ritornava. No, non voglio pensarlo là. Non posso. Penso che l’incontro di un uomo con la Morte debba rimanere segreto. Preferisco distogliere lo sguardo, chiudere gli occhi. E lo ricordo la prima volta che mi avvicinò in prigione: nella doccia. Chi ero io allora, vuoi sapere? Fai domande, troppe. Ma tutto è scritto nelle carte, su da voi, che cosa ti nascondo? Tutto è cominciato con un gruppo di ragazzi tunisini come me, arrivati in Italia. Un giorno, mi fanno vedere la droga, spacciavano. Era marrone e io ero sorpreso: ma nei film la droga è bianca, gli dicevo. Ho provato, era buona. Spacciavo nelle strade e la prendevo, l’eroina, spacciavo per farmi, non per diventare ricco. Alla Garbatella c’era un posto semi abbandonato, quasi in rovina. Ne avevano fatto una moschea irregolare, ma era destino che fede e droga fossero per me sempre vicini. Noi la usavamo per tagliare l’eroina e per dormire. C’era un odore pazzesco di piscio di gatti, quando eravamo fatti davamo la caccia ai gatti e li ammazzavano a bastonate. Eravamo tunisini e qualche algerino. Non era un giro grosso e così un giorno, con altri tre, decidiamo di tentare il colpo: rapinare altri spacciatori più ricchi di noi. Scegliamo i nigeriani, perché? Sono negri. Ne adeschiamo uno, proponendogli una partita di eroina a prezzo buono, quando arriva con il denaro uno di noi, tira fuori una 7,65 e prendiamo tutto. Venne fuori una sparatoria, uno dei nigeriani fu ferito gravemente. In tre giorni, ci hanno preso. Tentato omicidio, spaccio, stavolta ero nel giro grosso, ma in galera. E in regime di sorveglianza speciale, si chiamava così, mi pare. Allora: la doccia. Io la doccia la facevo nudo, dell’Islam non m’importava nulla, mi piacevano le donne con le tette grosse e il vino. Lui mi parla: “Perché fai la doccia senza mutande, siamo musulmani noi, abbiamo degli obblighi che ci impone Dio, e Dio non vuole”. Ma non era una minaccia, un ordine, era una conversazione tra amici. Si vedeva che mi aveva già studiato, lui controllava tutti i nuovi, quelli che venivano da Paesi dell’Islam. Sapeva tutto: perché erano dentro, la durata della condanna, quelli che avevano pene lunghe li teneva per ultimi, aveva tempo per non farseli sfuggire, quelli più interessanti erano i tossici, sapeva se prendevano il metadone. Sapeva perfino cosa compravamo allo spesino, cibo, sigarette. Sapeva, per esempio, che io compravo vino, quello da poco prezzo, ma sempre vino era. È dalla spesa che si capisce se sei un detenuto che ha soldi o sei un poveraccio che non ha nulla, una recluta più facile per Dio. Perché lì non hai speranze, non sei nessuno senza la droga, sei un malato. Gli educatori, lo psicologo? E chi li vede mai. Aspetti qualcuno che ti prenda con sé, che ti chiami fratello nell’Islam. Ci vediamo in paradiso. I reclutatori sono persone che ti riempiono di emozioni. Simile con il simile La seconda volta che mi parlò, fu a causa delle partite di pallone. Giocavamo a calcetto nell’ora d’aria, in genere quasi tutti in slip. E lui sempre gentile, calmo: “Sai che noi dobbiamo coprirci le gambe. Perché non vieni a pregare con noi? Non sai i versetti? Non importa, ti insegneremo. E poi, perché parli con gli italiani, kafir, questi cani di miscredenti? Non vedi come ci trattano?” In quella sezione, c’erano camorristi che avevano separato da famiglie rivali, e forse qualcuno che aveva cominciato a pentirsi. E poi slavi, romeni e serbi. L’odio tra noi e loro saliva, erano risse continue. Solo gli albanesi erano con noi, perché erano anche loro musulmani. In carcere ci si raggruppa subito, tunisini con tunisini, Islam con Islam. E poi, alla matricola arrivi e leggono da dove vieni: sei musulmano? Benvenuto! Ti metto con i tuoi, così vi tenete compagnia tra maomettani. I guardiani sono stupidi: notano che, dove ci sono quelli che pregano, tutto è tranquillo, mentre gli altri fanno risse, bevono, danno problemi. Allora, quando il Reclutatore andava dal direttore a chiedergli, umilmente, una stanza per pregare il venerdì - in fondo, noi musulmani siano gli unici che non abbiamo nulla -, quello la concedeva con gioia. Anche il cappellano del carcere era d’accordo! Tra credenti, ci si dà una mano. Usavamo la stanza del biliardino, stendevamo dei tappeti. Si pregava molto, e molto si parlava: la Palestina, l’Iraq, la Siria, il Califfato, le solite storie, guarda gli infedeli come ci rubano tutto il petrolio. Uno si convertì quando gli raccontarono che le donne cecene non chiedevano cibo o aiuti in denaro, ma solo confezioni della pillola del giorno dopo, perché i soldati russi le violentavano tutte. Ti senti vuoto Questo è il punto essenziale: tu entri in prigione, non hai più niente, niente droga, niente soldi, ti senti vuoto, ti pare d’impazzire. È una sorta di ingombro che senti confusamente annodarsi giù, e diventare corpo nel corpo. Scopri di punto in bianco che non sei più niente, ti palpi dentro la mente, lo spessore del buio che avanza nelle viscere. Questa è la materia prima per convertire. Le celle, diciamo un po’ delle celle: in dieci, quattordici. In buchi che puzzano di tutti quelli che ci hanno vissuto dentro. È lì che vivi. Al mattino alle 8,30 la doccia, se è giorno stabilito, poi più nulla, fino alle 12, quando passa il carrello del cibo. Al pomeriggio, due ore d’aria, torni in cella, la conta, ti resta un’ora di socialità, passi da una cella all’altra, prima che chiudano. Non fai niente, magari per anni, perché c’è la graduatoria prima di diventare scopino o porta vitto: parli, parli e vedi la tv, sempre accesa, e vedi gli attentati, gli americani sgozzati, le bandiere con i segni islamici sulle città conquistate, e cominci a fare il tifo per Bin Laden, per il Califfo, per i vendicatori. Parla calmo e gentile E il Reclutatore parla sempre, calmo e gentile: dice che la religione vera non è quella che abbiamo imparato da piccoli, che siamo nati per una missione, combattere per il Profeta. È la jihad della comunicazione questa, la jihad della parola, più efficace delle bombe. Lui sceglie proprio i peggiori, quelli più istupiditi dalla droga e quelli poveri, a cui non arriva mai nulla dall’esterno. Offre buoni piatti di cibo, regali. I soldi non mancano, accrediti postali da spendere allo spaccio interno, che non destano sospetti. E poi ci sono i telefonini. Dal carcere i Reclutatori sono in contatto continuo con i loro confratelli, per avere i telefoni corrompono una guardia o qualche volontario ingenuo di buona volontà: devo chiamare la mia famiglia, non li sento da anni, e con il telefono fai tutto. Li si nasconde nel water per sfuggire alle ispezioni, basta svitare due bulloni, togli la memoria e lo avvolgi accuratamente in modo che non si danneggino. Oppure nel frigorifero, tra la verdura che non permette, in caso di scoperta, di risalire a un detenuto. Il Reclutatore è in carcere sempre per reati in fondo minori: documenti falsi, detenzione di un’arma. La sua è una missione specifica. Si diventa emiri così: più conversioni ottieni in prigione e più sali nelle gerarchie della jihad. La violenza se sgarri Se ti opponi, se sgarri, c’è la violenza. Un giorno, all’inizio, devo incontrare l’avvocato, prima di andare in parlatorio, bevo due sorsi di Tavernello, ti ho detto che mi piaceva il vino. Sulle scale incontro il Predicatore, lui scende, io salgo. Mi chino per omaggiarlo e lui sente subito l’odore del vino: miscredente, infame, attento a non rifarlo. Mi hanno picchiato, non so come sono rimasto vivo. Voi non capite niente: sempre a ragionare, ma quelli sono drogati, spacciatori, cosa c’entra l’Islam? La droga, il vizio, tutto ciò che disonora, ha in certi esseri un potere eguale a quello della fede: la stessa disperazione cerca diverse profondità. Milano è un posto importante della jihad e dello spaccio. Hanno emanato a Milano una fatwa: la droga potete venderla, per fare soldi per la causa, e poi quelli che crepano sono i figli dei miscredenti, che vadano in malora. Sui sacchetti di eroina scrivono la frase del Corano: in nome di Dio, cominciamo. Quando passa la polizia e tu sei lì che spacci, ti insegnano un versetto del Corano da dire: “Dio ha alzato una barriera attorno a noi per difenderci. I nostri nemici sono ciechi’’. E quelli sono convinti davvero che, per la polizia, loro sono invisibili. Quando sono entrato in carcere la prima volta, quelli che pregavano erano forse il cinque per cento, ora sono la maggioranza. E quelli che resistono sono pochi e senza aiuto. Un tunisino che aveva denunciato le violenze e le minacce di morte dei salafiti al capo delle guardie si è sentito rispondere: che posso fare? Portarti a casa mia? Dio vi acceca e non vi lascia immaginare l’unica misura efficace, infiltrare detenuti musulmani che siano con voi e far cadere tutta l’organizzazione interna. Noi possiamo mentire, comportarci in modo empio, per ingannarvi meglio. Voi non comprendete che la grazia e il peccato sono spesso molto vicini. A proposito: non ti è venuto il dubbio che io potrei essere il Reclutatore?».
Il Foglio-Cristina Giudici: " Ecco come funziona la radicalizzazione islamista nelle galere "
Cristina Giudici
Milano. Il fenomeno della radicalizzazione islamista nelle galere è noto da tempo perché è soprattutto dal carcere che arrivano i terroristi. Ora però un rapporto del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, lo ha fotografato in modo più nitido. La classificazione elaborata dal Nic – il Nucleo investigativo della polizia penitenziaria – include quattro gruppi di detenuti musulmani ritenuti pericolosi. Oltre a coloro che sono detenuti per reati di terrorismo, ci sono i “leader”, ossia criminali comuni che hanno aderito all’ideologia jihadista e nelle celle sono diventati riferimenti carismatici, adeguati per il proselitismo; mentre, fra i criminali comuni, quelli considerati più vulnerabili e disponibili a diventare prede facili per i reclutatori, vengono definiti “follower”. Infine c’è la categoria dei “criminal opportunist”. Ossia quelli che entrano in contatto con i radicali per offrire loro servizi logistici come i documenti falsi. In realtà ci sarebbe un’altra categoria da aggiungere nella lista delle definizioni coniate dal Nic per gli aspiranti jihadisti: quella dei “mimetizzati”. Niente barbe lunghe né urla di estasi dopo un attentato; mai un rapporto disciplinare, mai un segno di ostilità verso gli agenti o compagni di cella non musulmani. Sono però questi a rappresentare la minaccia più grande, o più difficile da individuare, come probabili ufficiali di collegamento fra gli aspiranti jihadisti e una possibile cellula all’esterno. Questo, in sintesi, è quanto emerge dalla relazione del Dap dedicata alla radicalizzazione nel 2016. Alcuni aspetti sono importanti. Innanzitutto i numeri, che sono più alti rispetto a quelli divulgati fino a ora. Il calcolo complessivo che comprende i monitorati (172), gli attenzionati (64), i segnalati (137), soggetti considerati a rischio (230) e – dato molto si gnificativo – quelli radicali usciti a fine pena (272) raggiunge un numero consistente e purtroppo in crescita: 875 su 7.646 musulmani praticanti detenuti. Come avviene la radicalizzazione? Nella relazione del Dap che il Foglio ha potuto leggere, il sintomo più palese si manifesta dopo un attentato, quando gli islamisti non riescono a trattenere l’entusiasmo per gli infedeli ammazzati. Con frasitipo “noi siamo i più forti”, “prima i francesi e poi gli italiani”, “li dobbiamo far fuori tutti”, “deve scoppiare tutta l’Italia”, eccetera. Poi ci sono i contenuti dei sermoni delle preghiere collettive e le esortazioni al jihad. Ascoltarli tutti è un compito immane, se si considera che gli istituti censiti fino a ora sono stati 190, dove il numero dei carcerati che si sono autoproclamati imam sono 148: quasi tutti maghrebini, in maggioranza tunisini, a accezione di qualche iracheno. E nelle loro esortazioni durante le preghiere, oltre a istigare violenza contro i loro carcerieri, spiegano ai loro fratelli che solo all’interno dell’islam vi è certezza perché “i cristiani e gli ebrei vengono maledetti da Allah”. I casi paradigmatici studiati e riportati nella relazione sono diversi. E spiegano bene come avviene la radicalizzazione che comincia col proselitismo, facendo leva sulla rabbia e sulla disperazione dei carcerati più fragili, soprattutto se isolati e/o con lunghe condanne da espiare. Una volta avvicinati alle pratiche religiose, i “leader” cominciano un graduale indottrinamento della sharia che conduce le loro prede ad allontanare i famigliari e chiunque non accetti i comportamenti ossessivi dell’islamismo per poi arrivare alla meta finale: convincere i detenuti reclutati ad aspirare alla guerra santa, una volta espiata la pena. In Europa, o recandosi nelle terre del Califfato. Talvolta però la conversione all’islam radicale può essere coatta, imposta con minacce di ritorsioni. Insomma il processo di radicalizzazione non si basa solo sul proselitismo, come avviene all’esterno, ma si innesta sui codici violenti della galera. Altri segnali del processo di radicalizzazione sono le affissioni alle pareti delle celle di manifesti che inneggiano all’Isis, manoscritti trovati durante le perquisizioni con mappe su luoghi sensibili da attaccare in Europa e persino appelli da parte dell’Isis a colpire gli agenti penitenziari. Per questo motivo si osservano soprattutto i detenuti molto violenti, come lo era Anis Amri, lo stragista di Berlino. Con un’attenzione particolare anche ai 18 convertiti, tutti italiani tranne un serbo, che generalmente sono più fanatici. Fra questi anche un siciliano, arrestato per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, convertito dal compagno di cella, marocchino. Il monitoraggio non basta però a far uscire allo scoperto i radicali mimetizzati. Basta sfogliare le schede allegate al rapporto di alcuni dei soggetti attenzionati. Come ad esempio Karim Ayadi, tunisino classe 1968, arrestato a Lodi per spaccio, che si era sempre comportato in modo corretto finché un giorno ha aggredito un compagno di cella perché non si comportava come un buon musulmano. O Hamouna Bessid, somalo, classe 1989, che dopo aver aggredito altri detenuti o aver urlato Allahu Akbar, aggrappato alle grate, rivolto verso la sezione dei detenuti comuni marocchini, ha improvvisamente cambiato il suo comportamento. Ha smesso di fare l’imam, ha cominciato a seguire corsi di rieducazione. Perché? Semplice: dopo l’allarme emerso sul fronte islamista nelle carceri, molti sono entrati in un cono d’ombra.
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