Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 06/01/2017, a pag. 5, con il titolo "Dialogo fra religioni e denunce private, così si contrasta la seduzione terrorista", il commento di Lorenzo Vidino.
L'articolo di Lorenzo Vidino è incompleto. Quello che manca è una riflessione fondamentale: perché in Italia il terrorismo islamico non ha ancora colpito? L'Italia è terreno ideale per l'addestramento dei terroristi, che qui si preparano per poi andare a fare attentati altrove (finora). Gran parte della magistratura mette in libertà i fermati "perchè non hanno ancora commesso alcun attentato", un luogo ideale per addestrarsi.
Quando i terroristi islamici vengono fermati non sono condannati ma semplicemente espulsi ( a spese dell'Italia) per poi rientare clandestinamente (vedi Anis Amri). In questo modo il problema non viene risolto, ma soltanto allontanato dall'Italia. Come accaduto già in più occasioni, i terroristi espulsi compiono attentati altrove. Fino a oggi è stato così, vedremo se continuerà in questo modo oppure comincerà l'attacco all'Italia del terrorismo islamico. Se la nostra lotta al terrorismo diventerà effettiva.
Ecco l'articolo:
Lorenzo Vidino
Corano e moschetto, terrorista islamico perfetto
Dopo gli attentati di Berlino e l’uccisione di Anis Amri a Sesto San Giovanni si è parlato di una eccezionalità italiana, sia per quanto concerne l’intensità di fenomeni di radicalizzazione sia per quanto riguarda la risposta del sistema. È infatti vero che il fenomeno della radicalizzazione jihadista nel nostro Paese non sia paragonabile per dimensioni alla maggior parte dei Paesi del Centro-Nord Europa.
L’Italia non ha registrato né mobilitazioni di massa verso aree di conflitto né attacchi della portata di quelli verificatisi altrove. Ed è innegabile che il nostro sistema antiterrorismo, pur non perfetto, abbia funzionato meglio di altri.
Ciononostante, si possono osservare sul nostro territorio dinamiche che, pur su scala ridotta e con qualche specificità, replicano quelle viste in altri Paesi europei. In sostanza, anche in Italia è presente una scena jihadista informale. Circa 110 soggetti sono partiti dal nostro Paese per unirsi allo Stato Islamico ed altre formazioni jihadiste. E nelle nostre carceri centinaia di detenuti sono monitorati come radicalizzati (lo stesso Amri lo era stato quando detenuto in Sicilia). La maggior parte degli esponenti della scena jihadista italiana non sono riconducibili a un profilo comune, divergendo tra loro dal punto di vista del background socio-culturale, familiare, del profilo anagrafico e del sostrato religioso. I processi di radicalizzazione e mobilitazione sono altrettanto eterogenei. In alcuni casi entrambi avvengono nell’arco di anni, in altri di settimane. Alcuni si radicalizzano da soli, la maggior parte in piccole comunità virtuali e/o nello spazio fisico. Alcuni riescono a stabilire contatti con organizzazioni quali lo Stato Islamico e altri, per scelta o per incapacità, rimangono non affiliati. In certi casi soggetti che appartengono a questa scena hanno cercato, finora fermandosi o venendo fermati alle parole, di compiere attacchi in Italia.
È difficile prevedere come si svilupperà la scena jihadista autoctona e se, per esempio, colmerà il gap con gli altri Paesi europei, crescendo in dimensione e sofisticatezza. Ma è proprio in prospettiva futura che è necessaria una riflessione sull’approccio alla radicalizzazione del nostro Paese. Tra gli addetti ai lavori vi è infatti una crescente consapevolezza dell’inadeguatezza di un’azione di contrasto basata esclusivamente sulla repressione. Per quanto le misure tradizionalmente utilizzate dall’antiterrorismo, quali arresti ed espulsioni, si siano dimostrate estremamente efficaci nel prevenire atti di terrorismo nel nostro Paese, è ormai opinione largamente condivisa che tali strumenti debbano essere affiancati da politiche volte a prevenire la radicalizzazione stessa attraverso azioni non repressive.
Questo tipo di approccio è pressoché inesplorato in Italia ma molto comune in molti Paesi europei. Proprio per questo lo scorso agosto il governo aveva formato una commissione di 19 esperti, che ho avuto l’onore di coordinare. Ieri, alla presenza del Presidente del Consiglio e del ministro dell’Interno, abbiamo consegnato uno studio che traccia le linee guida di un potenziale approccio italiano alla prevenzione della radicalizzazione.
La strategia prevede un insieme di iniziative di contro-narrativa per contrastare l’attrattività del messaggio jihadista, in particolare sul web. E include misure di «ingaggio positivo», quali dialoghi interreligiosi o programmi volti a sviluppare il pensiero critico e la resilienza all’estremismo nei giovani musulmani che vivono nel nostro Paese. Ma la proposta chiave è quella di creare un sistema di interventi sui singoli individui miranti alla de-radicalizzazione. Seguendo un modello comune in vari Paesi europei, è auspicabile infatti la creazione di un sistema attraverso il quale soggetti in fase di radicalizzazione vengono segnalati da esponenti della società civile ad autorità preposte il cui compito non è, salvo ne sussistano gli estremi, quello di arrestarli e/o espellerli, bensì quello di cercare di distoglierli dal credo jihadista.
Fondamentale per la riuscita di questi programmi è il coinvolgimento di una pluralità di attori pubblici e privati. Dal lato pubblico possono e devono svolgere un ruolo non solo i tradizionali attori della comunità antiterrorismo (forze dell’ordine, intelligence, magistratura inquirente), ma anche i servizi socio-sanitari, la scuola, la polizia locale e potenzialmente altri ancora. La società civile gioca un ruolo ugualmente importante, sia essa rappresentata dal mondo del volontariato e dell’associazionismo, dalle comunità islamiche o dalle famiglie.
L’esperienza dei vari Paesi europei ha dimostrato che l’implementazione di tali politiche è estremamente utile ma, al tempo stesso, densa di problematiche, che variano dalle difficoltà nella scelta di partner a diverse questioni etiche, dall’esigenza di formare chi gestisce i programmi a misurarne l’efficacia. Tali esperienze hanno inoltre reso chiaro, come è istintivamente comprensibile, che gli interventi funzionano solo in certi casi (si parla di iniziative di riduzione, non eliminazione della minaccia).
Nonostante queste limitazioni, è ormai chiaro agli addetti ai lavori che iniziative di prevenzione siano necessari complementi agli strumenti tradizionali dell’antiterrorismo, ai quali si vanno ad affiancare, non volendo certo sostituirle. Il contrasto al terrorismo di matrice jihadista, infatti, sarà una sfida generazionale che mieterà i più importanti successi non tanto attraverso le pur fondamentali operazioni militari e di «law enforcement» contro vari gruppi jihadisti, ma allorché l’ideologia che alimenta l’intero movimento avrà perso l’attrattività che al momento possiede. Dati gli scenari globali e le loro ripercussioni nel nostro Paese, il momento è quanto mai propizio per una seria riflessione sull’opportunità di creare anche in Italia una strategia di prevenzione alla radicalizzazione.
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