Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/01/2017, a pag. 8, con il titolo "Da Berlino al Bosforo, gli attentatori jihadisti non sono più kamikaze", la cronaca di Giordano Stabile; da LIBERO, a pag. 1-12, con il titolo "Mezza Turchia sorride per la strage di Istanbul", l'analisi di Carlo Panella ; dal CORRIERE della SERA, a pag. 2, con il titolo "Andrò via da questa città che è sempre più islamica", l'intervista di Francesco Battistini alla scrittrice turca Esmahan Aykol.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Giordano Stabile: "Da Berlino al Bosforo, gli attentatori jihadisti non sono più kamikaze"
Giordano Stabile
Non ci sono più i kamikaze di una volta. Gli ultimi due attacchi dell’Isis, a Berlino e a Istanbul, hanno ricalcato ogni dettaglio delle stragi precedenti, di Parigi, Bruxelles o Nizza. Tranne uno. I killer non si sono immolati contro il fuoco della polizia o innescato la cintura esplosiva di ordinanza. Sono fuggiti. Forse per colpire ancora. O per cercare di rientrare nel Califfato e continuare in un modo o nell’altro la loro jihad.
La seconda ipotesi è la più probabile per Anis Amri, il tunisino che si è lanciato con un Tir sul mercatino di Breitscheidplatz. Se voleva uccidere ancora, poteva farlo a Berlino. La rotta verso Sud indica la ricerca di una via di uscita. Dell’uiguro che ha sparato al night club Reina sappiamo ancora poco, sembra comunque che anche lui si stia nascondendo. Due casi sono ancora pochi per indicare un cambio di rotta, ma può essere.
Per l’Isis è un fatto inedito. Anche i killer di Charlie Hebdo, i fratelli Kouachi, erano fuggiti dopo il massacro, ma la loro «formazione» era più legata ad Al-Qaeda. La dottrina Isis degli attacchi in Europa prevedeva l’uso obbligatorio dei kamikaze per ragioni propagandistiche e ideologiche: «Voi amate la vita, noi amiamo la morte». Uniche eccezioni erano i leader che dovevano pianificare altri attacchi e gli artificieri, più difficili da sostituire.
Dei gruppi di fuoco del 13 novembre 2015 a Parigi, solo Salah Abdeslam ha evitato di farsi uccidere. La circostanza che abbia gettato la cintura esplosiva in un cassonetto per darsi alla fuga non è però stata confermata. Il suo era soprattutto un ruolo logistico, procurare rifugi e auto, e quindi è possibile che il piano prevedesse la sua sopravvivenza.
I killer in fuga da Berlino e Istanbul sono una novità. Ma non è l’unica nella macchina di morte e di propaganda dell’Isis. Da alcuni mesi gli analisti notano un cambio di tono nei video di reclutamento. In particolare in quelli diretti all’Asia centrale, che sta diventando il bacino di adepti più promettente. Se nel 2015 i filmati erano centrati sull’esibizione della violenza, con bambini che sparavano alla nuca dei prigionieri, ora invitano uomini e donne a venire nel Califfato per trovare protezione e una vita davvero «islamica».
Sono video di «famiglie felici», che mostrano compassione e generosità fra camerati al fronte, enfatizzano la presunta giustizia sociale all’interno del Califfato, la «purezza» religiosa, l’educazione improntata alla sharia per i figli. Una propaganda «di pace», quasi di «amore per la vita» che ha come target le popolazioni più povere e discriminate dell’Asia centrale, soprattutto quelle della valle di Fergana, un’area arretrata che attraversa Uzbekistan, Kirghizistan, e Tagikistan e dove vivono 15 milioni di persone.
Le sconfitte subite in Iraq, e la chiusura della frontiera fra Turchia e Siria, hanno ridotto del 90 per cento l’arrivo di foreign fighters. È probabile che l’Isis stia cercando nuove strategie per attirare reclute, civili e militari. Il fascino della morte da kamikaze, e le 72 vergini che attendono i «martiri» in Paradiso, forse non bastano più.
LIBERO - Carlo Panella: "Mezza Turchia sorride per la strage di Istanbul"
Carlo Panella
Una immagine della strage nel night club Reina di Istanbul
La notizia più sconvolgente del «giorno dopo» dell'attentato al night club Reina di Istanbul è che in Turchia a molti è piaciuto e che non pochi l'hanno approvato, come testimoniano i tanti tweet e pagine Facebook entusiasti. La ragione della popolarità di quel macello è semplice: ha punito i «blasfemi cristiani» che festeggiavano una festività deprecata da una massiccia campagna scatenata nelle ultime settimane dalle massime autorità religiose della Turchia, col pieno avvallo del Akp, il partito di governo di Erdogan.
«Müslüman Noel kutlamaz», «Müslüman yilbasi kutlamaz»: «un musulmano non può festeggiare il Natale; un musulmano non può festeggiare il Capodanno», questi gli slogan ripetuti ossessivamente dalla Diyanet, l'Autorità per gli Affari Religiosi, l'organo che gestisce l'amministrazione del culto islamico nel Paese. Mehmet Gormez, il direttore della Diyanet ha quindi ordinato che nel sermone di venerdì 30 gli 80 mila imam di altrettante moschee della Turchia invitassero i musulmani a non «assumere atteggiamenti contrari alle loro usanze e agli ambienti di provenienza», con esplicito riferimento ai festeggiamenti per l'arrivo del 2017, che «rischiano di corrompere lo spirito del popolo turco».
Alla campagna dell'Islam di Stato, si è poi aggiunta quella, ancora più aggressiva, degli Alperen Ocaklari, gli eredi dei Lupi Grigi, iper nazionalisti e musulmani, che hanno affisso manifesti in cui un vigoroso turco in costume tradizionale stende con un vigoroso pugno in faccia un povero Santa Claus, incuranti del fatto che San Nicolò, Santa Claus, nacque proprio in Turchia e che la sua casa è meta di pellegrinaggi. In alcuni quartieri di Istanbul, poi, vi sono stati episodi di violenza e manifestazioni con centinaia di aderenti contro la celebrazione di Yilbasi, il Capodanno, mentre molti negozi che tradizionalmente vendevano gli addobbi per gli alberi di Natale hanno cessato di venderli. Va tenuto presente che in Turchia il giorno di Natale non è ovviamente una festività, è un giorno feriale, ma nel corso degli ultimi decenni la festività di Yilbasi ha attecchito al punto tale che gli alberi di Natale in suo onore venivano preparati settimane prima e la notte del 31 dicembre è sempre stata occasione di grandi festeggiamenti.
Ma per l'Islam fondamentalista seguito da Erdogan e dalla sua Akp, non solo quello jihadista, l'albero di Natale è un idolo venerato e quindi rappresenta il peggior peccato che possa compiere un musulmano, ma addirittura lo stesso calendario gregoriano, che Ataturk introdusse, è abusivo, è «cristiano» e quindi da rigettare. Per i musulmani infatti, siamo nel 1438, gli anni che intercorrono dal 622, anno dell'Egira, la fuga di Maometto dalla Mecca. In apparenza i conti non tornano (1438 più 622 fa infatti 2060) per la semplice ragione che secondo le prescrizioni di Maometto l'anno va calcolato sui cicli della luna ed è quindi di 354 giorni, più un giorno bisestile ogni tre anni. Così, festeggiare il 31 dicembre è doppio segnale di apostasia e di cedimento alle usanze idolatriche dei cristiani.
Dunque, l'attentato del 31 dicembre arriva al culmine di una poderosa e intollerabile campagna anti cristiana che ha coinvolto tutta la Turchia sotto la regìa del governo che ha dato precise istruzioni alle autorità religiose che controlla. Da qui, l'apprezzamento per la strage del Reina espressa in Rete o in tante, troppe coscienze. Definitivo e irrecuperabile passo per l'allontanamento della Turchia di Erdogan dall'Europa. Segnale pericolosissimo dell'allargamento a grandi strati popolari del più basso sentimento anticristiano.
Ben cosciente di questo retroterra, l'Isis, non per la prima volta, ha dato prova di sapere ottenere consenso per le sue stragi (fenomeno che si era già largamente verificato nella comunità araba e islamica in Francia dopo gli attentati a Charlie Hebdo e del Bataclàn). La rivendicazione dell'Isis della strage del Reina, giunta ieri, è infatti chiarissima: «Per continuare le operazioni benedette che lo Stato Islamico sta conducendo contro la protettrice della croce, la Turchia, un soldato eroico del Califfato ha colpito uno dei più famosi night club dove i cristiani celebravano la loro vacanza apostata». Dunque, punizione della «apostasia» dei cristiani, ma anche avvertimento di sangue ad un governo turco che, nonostante le sue condanne delle festività cristiane, si è alleato in Siria con la «Santa Madre Russa» del cristianissimo Vladimir Putin per combattere i jihadisti e l'Isis stessa. Dunque, una rivendicazione che illustra meglio di un manuale i disastri della politica di Erdogan, che da un lato prepara il terreno per un consenso popolare alle infami e sanguinose punizioni dei «cristiani» messe in atto dall'Isis, e dall'altro non riesce a garantire minimamente la sicurezza dei suoi cittadini puniti con una serie ormai infinta di attentati a causa delle sue giravolte nella politica estera e nella guerra civile siriana: prima a fianco dei jihadisti e ora dei «cristiani» russi che li bombardano.
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini: 'Andrò via da questa città che è sempre più islamica'
Francesco Battistini
Esmahan Aykol
Se ne andrà. Se non ora, quando potrà: «Vedo che le cose non fanno che peggiorare. Penso che lascerò Istanbul...».
Per sempre? «È da un po’ che me lo dico. Il giorno sta arrivando. Mi rattrista molto, ma se la situazione rimane questa, sarà inevitabile. Magari non nel futuro immediato. Ma nemmeno troppo in là. Dipende da quando capirò che non sono più in grado di vivere in questa Turchia».
C’è da immaginare che abbia già programmato la via di fuga... «Ci vorrà qualche anno per sistemare tutto, ma ho già individuato il posto dove andare ad abitare: in Sicilia, a Catania. Il mio editore è siciliano. E conosco un po’ di gente. E poi ci sono stata per i festival letterari, ho incontrato gente del mondo universitario, trovo che ci sia una vita culturale molto vivace e piacevole. Mi ricorda l’ambiente d’Istanbul com’era un tempo, quand’era più moderna».
Non sarà solo per quest’ultima strage... «Anche. Ma c’entrano molte cose. In Italia, la vita per le donne è più semplice. In Sicilia, ho la sensazione d’essere più libera. Non è facile essere una donna sola a Istanbul. Specie quando cammini per strada. Due mesi fa sono stata molestata: faceva caldo, camminavo alle undici di sera nella strada principale d’Istanbul, e a un certo punto mi sono accorta che ero l’unica donna. Mi sono spaventata. Questa Turchia islamizzata e fondamentalista è una minaccia continua, per chi è donna».
Ce ne vorrà per fare gli scatoloni. La casa di Esmahan Aykol, a due passi da piazza Taksim, è tutta libri e memorie. Divisa fra la Turchia dov’è nata e la Berlino dove ha vissuto, in fondo non s’è mai sentita né di qui, né di là. Come la protagonista di «Hotel Bosforo», il suo giallo più famoso: «Se osserva l’Istanbul degli ultimi dieci anni, vedrà che s’è trasformata in una città molto più mediorientale. Anche i turisti: per strada non sento più parlare lingue europee, solo arabi».
L’Occidente qui ha già perso? «Istanbul ha perso già da molto tempo la sua faccia europea e laica. L’immagine della città ormai è islamica. Abbiamo mantenuto una vocazione al melting pot, ma nel mondo musulmano. Gli arabi comprano case, aprono negozi. Nelle strade, l’80% dei passanti è maschio. E le poche femmine, per tre quarti, sono velate. Il terrore però non fa distinzioni: più di metà delle vittime erano arabe».
Ci si aspettava questo attacco? «Sì. A Taksim, in aeroporto, in un night club. O magari in qualche città dell’Anatolia, dove la tradizione delle feste è più forte. Tutti i miei amici sono rimasti a casa e anch’io, qui in centro, a mezzanotte mi sono affacciata alla finestra e non ho visto più d’una decina di persone. Avere paura, era un’ovvietà».
Il terrore cambierà la linea di Erdogan? «Ci vuole una svolta. Ma non ci credo. Ci sono stati molti attacchi terroristici negli ultimi due anni e niente è cambiato. Le cose vanno peggio ogni giorno. Erdogan sa solo mandare in prigione i giornalisti».
Quant’è grande l’area sociale che simpatizza per lo Stato islamico? «Molto più di quanto si pensi. Non incontro spesso i religiosi, siamo mondi separati. Pensano sia peccato parlare con me e mi evitano. Qui sono gli abiti a fare la differenza».
Conta anche quel che si scrive? «È pericoloso. La scorsa settimana hanno arrestato Ahmed Sik, uno dei migliori giornalisti del Paese. I miei libri sono venduti più in Europa che in Turchia, e forse questa è una delle ragioni per cui gl’islamisti non si preoccupano di me. Sono gente primitiva: presidiano il territorio, non importa di come la Turchia sia percepita in Europa o negli Usa».
C’è la sensazione che qualcosa si muova. «L’opposizione a Erdogan è più forte rispetto all’inizio del 2016. La gente si sta organizzando. Sono più ottimista».
Ma lei se ne va... «I giorni dell’opposizione sono cominciati solo ora. Sono ottimista per il lungo termine. Anche per l’Islam: prima o poi tornerà alla sua vera natura, alle mitezze del settimo secolo, e abbandonerà questa follia jihadista. Nell’immediato, però no. Il terrorismo colpirà ancora: vedo giorni peggiori di questi».
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