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Il Foglio Rassegna Stampa
03.01.2017 Quello che l'Italia può fare nella lotta al terrorismo secondo il generale Mario Mori
Estratti dal suo libro 'Oltre il terrorismo'

Testata: Il Foglio
Data: 03 gennaio 2017
Pagina: 2
Autore: Mario Mori
Titolo: «Prima che possano nuocere»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 03/01/2017, a pag. II, con il titolo "Prima che possano nuocere", alcuni brani del libro "Oltre il terrorismo", del generale Mario Mori.

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Mario Mori

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La copertina (G-Risk ed.)

In una fase in cui la fine della Guerra fredda ha riaperto la possibilità per molti paesi di riprendere iniziative fino a pochi anni orsono impensabili, noi che negli anni del nostro pieno sviluppo economico, pur nell’ambito dell’appartenenza all’alleanza occidentale, riuscivamo tuttavia a fare una politica che ci vedeva protagonisti assoluti nel bacino del Mediterraneo, siamo ora incerti e indecisi. Quasi che, disponendo improvvisamente di buoni margini d’indipendenza operativa, non fossimo più capaci di progettare nuovi indirizzi strategici e scelte innovative. La fase attuale delle relazioni internazionali, iniziata con la caduta del muro di Berlino e proseguita con la fine del confronto tra i blocchi per il crollo del regime sovietico, vede l’egemonia della superpotenza americana non più nelle condizioni di fronteggiare tutti i focolai di crisi pena il collasso economico. Perciò l’America, costretta a forme di disimpegno laddove i suoi interessi potevano ritenersi non essenziali ovvero demandabili a paesi alleati, ha lasciato aperta per molti Stati la possibilità di riacquistare iniziativa in campo strategico.

Da ciò sono derivate una serie di crisi, punteggiate da conflitti più o meno estesi, che hanno coinvolto e tuttora caratterizzano i cinque continenti. Dietro queste lotte si delineano chiaramente gli interessi di una serie di potenze a dimensione regionale, a suo tempo già protagoniste di periodi di assoluta preminenza strategica, che mirano a raggiungere quegli obiettivi di natura politica ed economica che in passato ne hanno caratterizzato gli indirizzi geopolitici e alimentato gli sforzi. Si può dire che l’area del Mediterraneo è forse la regione geografica dove questa situazione è più accentuata, anche perché culture e organizzazioni sociali differenti qui si confrontano, confliggendo e cercando di compenetrarsi in un continuo succedersi di fasi mai pienamente definite. Gli Stati della penisola italiana sono stati sempre coinvolti in questa situazione, talvolta come protagonisti talaltra come comprimari indispensabili. Anche quando il potere effettivo era nelle mani di altre nazioni, infatti, le diversificate realtà politiche nazionali sono sempre riuscite a condurre una propria strategia che, pur nell’ambito degli interessi di alleanze anche complesse, riusciva a ritagliarsi spazi d’indipendenza e d’iniziativa.

Si pensi alla storia delle nostre Repubbliche marinare, in particolare quelle di Venezia e Genova, le cui politiche permettevano loro cospicui vantaggi economici come mantenere empori e basi commerciali finanche nella capitale del loro principale nemico, il Sultano di Costantinopoli, pur in un contesto dominato dal confronto tra l’Impero Ottomano e le potenze cristiane, e senza per questo venire meno alle loro scelte di campo. Si pensi anche all’attività dei banchieri fiorentini che, con il sostegno del governo cittadino, si facevano arbitri della politica europea, prestando denaro con alti tassi d’interesse ai vari regnanti che si contendevano il dominio continentale. Si consideri, infine, la plurisecolare vicenda del “piccolo” Ducato del Piemonte che, sulla base di una propria e ben definita linea strategica di volta in volta appoggiata agli interessi di ben più potenti alleati, divenne Regno arrivando fino a realizzare l’unificazione italiana. Nel periodo dei blocchi contrapposti che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, l’Italia ha potuto assumere una condotta specifica mantenendo un filo diretto con le varie nazioni del bacino del Mediterraneo.

Questo sia per la delega conferitagli dai paesi alleati in virtù della sua storia (fatta di costanti relazioni con i paesi che affacciano sul mare nostrum), ma anche per le iniziative realizzate autonomamente con un mondo, quello arabo in particolare, che ha sempre compiuto un preciso distinguo tra la politica delle grandi potenze ex coloniali, e degli Stati Uniti in particolare, e il nostro modo di relazionarci meno aggressivo e invadente. Ne è un esempio l’indirizzo assunto dall’Eni di Enrico Mattei che, definendo le intese col mondo arabo nello specifico settore energetico su di un piano di più equa ripartizione degli utili, aveva messo in crisi il dominio delle società anglo-americane di settore e conferito all’Italia un vantaggio in campo economico tale da farne per anni la potenza dominante nell’area mediterranea.

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Con la fine dell’epoca dei blocchi contrapposti e col ripresentarsi della possibilità per molte nazioni di definire scelte non più condizionate da remore e vincoli di alleanza, la politica italiana ha progressivamente perso di efficacia. Eppure, il momento appare molto favorevole. Nell’evidente impossibilità delle grandi organizzazioni internazionali quali Onu, Nato e Unione europea di produrre iniziative di rilevanza generale, l’Italia dovrebbe ripensare una politica che da un lato esalti la sua posizione di socio fondatore dell’Unione dell’Europa e la renda promotrice di una ripresa dell’idea politica che ne animò lo spirito dei padri costituenti, dall’altro confermi e rivitalizzi la sua centralità mediterranea. L’attenzione verso il mondo arabo, e più in generale per quello costituito dai paesi del nord Africa, dell’area sub-sahariana e del Medio Oriente, non può che essere incrementata, se non altro per le opportunità offerte dalle sue immense potenzialità energetiche e per le occasioni economiche che quel macrocosmo in rapida espansione può offrire alla nostra produzione, basata essenzialmente su attività di trasformazione. Oltre a ciò, mantenere rapporti corretti che non devono essere condizionati nelle loro valenze strategiche da singoli episodi di crisi (che quando si verificano devono essere trattati con un equilibrio rispettoso delle sensibilità altrui) consente anche quella maggiore collaborazione nel campo della sicurezza che è garanzia indispensabile per un’azione di contrasto veramente efficace e aderente alle esigenze nazionali. In Europa, l’uscita della Gran Bretagna dalla Comunità degli Stati europei, se indubbiamente danneggia la consistenza strutturale dell’Unione, al contempo offre all’Italia più ampi margini di manovra per sollecitare un’accentuazione del processo aggregante per quei paesi realmente convinti della bontà dell’unificazione, e consente altresì a Roma di porsi quale elemento di cerniera rispetto agli altri partner, orientando la politica comunitaria a forme di più aperta collaborazione con le nazioni extraeuropee.

La particolare e rinnovata attenzione manifestata alla fine del suo mandato da parte del presidente americano Barack Obama nei confronti dell’Italia, è chiaramente il frutto delle problematiche connesse alla Brexit e alle esigenze per gli Stati Uniti di potere disporre di un interlocutore di fiducia nell’ambito dell’organizzazione europea. Questa situazione, se ben sfruttata, potrebbe ampliare le potenzialità operative della nostra politica estera. Se, quindi, l’Italia può e deve sviluppare passi che valgano a farle riprendere un’iniziativa politica nelle aeree di suo interesse strategico, anche nel campo della sicurezza le nostre istituzioni dovranno assumere un atteggiamento che sottenda una linea d’azione proattiva: anziché aspettare finché possibile l’attacco dei terroristi, individuarli nelle loro basi, infiltrarli e, ancor meglio se la situazione lo consente, neutralizzarli prima che possano nuocere. Cioè, possibilmente, quando ancora sono al di fuori del nostro territorio. Se tutti sembrano convenire sul fatto che il confronto con il terrorismo jihadista è una guerra, sia pure di tipo asimmetrico, allora è indispensabile comportarsi come si opera quando si è in tempo di guerra: cercare l’iniziativa e, una volta raggiunta, mantenerla. Ovviamente, essendo in questo caso noi i depositari dell’eccesso di forza, si dovrà scegliere un tipo di strategia che porti a contrastare il nemico con operazioni che tengano conto della sua dimensione e della sua articolazione sul territorio, decidendo di volta in volta la tipologia e i limiti del nostro attacco.

Appare ovvio che il compito principale spetti anzitutto all’intelligence, che però dovrà ottenere direttive inequivoche dal potere politico, perché a questo punto del confronto la risposta non potrà essere fiacca e timorosa, né soprattutto dovrà consentire spazi di pietosa tolleranza, dal momento che in guerra non si può perdonare il nemico che ti assale e che vuole annientarti, mentre occorre attaccarlo per renderlo inoffensivo. Alla parte attiva delle misure di contrasto deve, inoltre, abbinarsi un complesso di predisposizioni volte a ridurre al minimo l’efficacia degli attacchi che potenzialmente ci potrebbero essere rivolti contro e che, per la violenza e la frequenza con cui si sono manifestati altrove, preoccupano tanto la nostra opinione pubblica.

Posto che un complesso di strumenti difensivi tali da garantire in maniera assoluta la sicurezza non esiste, si possono comunque adottare una serie di misure che valgano a evitarne la maggior parte, e comunque quelli con più alti coefficienti di dannosità. Per ottenere questo deve essere ben chiaro che, oltre ai costi economici e a quelli sociali, ogni cittadino dovrà adattarsi a rinunciare a una parte dei propri spazi di libertà individuale, adeguando la propria vita a un regime di relazione dove comportamenti obbligati e controlli di prassi o a sorpresa - che in casi normali egli non giustificherebbe e che lo irriterebbero molto - diventeranno abitudinari. Questo mettendo anche in conto che, malgrado ciò, la sicurezza assoluta non sarà comunque raggiunta e che qualche falla continuerà a manifestarsi. Tutti noi abbiamo un chiaro esempio di come, nel caso di un’accentuazione delle manifestazioni terroristiche, potrebbe diventare la nostra esistenza: ce lo fornisce la realtà quotidiana della società israeliana, impegnata nella sua quotidiana battaglia per la sopravvivenza. È giunto il momento che anche il resto del mondo occidentale si avvii verso questa obbligata forma di vita e che anche il nostro, come gli altri governi europei, informi puntualmente i propri cittadini su ciò che li aspetta, qualora si continuasse a pensare che il terrorismo islamico è un problema di altri e non anche nostro. In tale ottica, occorrerà chiarire che poche modeste limitazioni personali messe in campo oggi, potranno evitare drastici condizionamenti domani.

Dobbiamo, infine, individuare con assoluta chiarezza anche il limite oltre il quale il prezzo che si può pagare per la nostra quiete è stato superato e diventa indispensabile intervenire con tutti i mezzi per ristabilire, senza ulteriori tolleranze, condizioni di vita coerenti con i nostri principi. Di questo indirizzo complessivo, il governo italiano si dovrebbe fare sostenitore e promotore anche a livello internazionale, prima che siano gli eventi a imporre simili decisioni. La strategia delineata in questo volume si fonda su un postulato irrinunciabile: se i gruppi terroristici sono sufficientemente individuati, e quindi aggredibili, una risposta proattiva non vale e diventa del tutto inefficace se, oltre al singolo e alla formazione jihadista, l’opera di dissuasione e contrasto non è portata con decisione anche e soprattutto contro chi diffonde, arma e finanzia il terrorismo.

Le nazioni che hanno diffuso e tuttora sostengono il terrorismo sono ben conosciute. Nella prima parte di questo libro è stato sufficientemente delineato il ruolo dell’Arabia Saudita quale paese originatore e propalatore del fenomeno nell’area di diffusione della religione musulmana e anche oltre. Il tutto nasce dal pensiero wahhabita che, unito all’altra concezione fondamentalista rappresentata dal salafismo, costituisce l’insostituibile base ideologica e religiosa della galassia jihadista. Nata come manifestazione interna al mondo musulmano con lo scopo di abbattere i governi corrotti che avevano tradito i principi posti a base dell’Islam, la teoria di Mohammed Ibn Abd al-Wahhab è divenuta uno strumento per realizzare una politica di espansione i cui ritorni strategici non sono stati forse chiaramente pensati e definiti, ma che almeno nel breve periodo mirano ad allontanare le spinte eversive contro la dinastia dei Saud e, nel contempo, ampliano l’area di radicamento del credo sunnita nel secolare scontro con l’altra concezione musulmana rappresentata dallo sciismo.

L’iniziativa saudita, messa in atto con la guerra in Afghanistan contro l’occupazione russa, è proseguita con l’invasione ideologica della Cecenia e di altre aeree dei continenti asiatico e africano, fino a giungere a costituire basi significative anche in Europa, specie nella regione balcanica. A queste operazioni si sono sommate quelle di altre nazioni arabe quali il Qatar che, pur partendo da finalità diverse (perché originate da valutazioni esclusivamente politiche), hanno sortito gli stessi esiti pratici moltiplicando attraverso sostegni operativi e consistenti finanziamenti le espressioni di terrorismo di tipo jihadista. Questa linea d’azione sta però rischiando di sfuggire di mano ai suoi ideatori, se è vero che 15 dei 17 elementi che hanno portato a termine l’attacco dell’11 settembre sono stati successivamente identificati come cittadini sauditi.

La recente decisione del Congresso degli Stati Uniti - assunta malgrado il parere contrario del presidente Obama - che estende anche ai paesi stranieri l’applicabilità della legge contro gli sponsor del terrorismo (JASTA), con la conseguente possibilità concessa al privato cittadino di richiedere il risarcimento dei danni patiti a seguito di attentati, appare come una prima concreta indicazione nel senso sopra auspicato. E la reazione molto risentita dell’Arabia Saudita dimostra l’efficacia della decisione. Se questo esempio troverà conferma in altre iniziative prodotte nella stessa direzione e sarà seguita da altre nazioni, appare scontato che il governo di Riad insieme con gli altri paesi che lo hanno seguito in questo indirizzo, dovrà modificare il proprio orientamento. Anche perché la non facile situazione interna, perverso frutto di ritorno della capillare diffusione del movimento wahhabita nel paese, sta creando seri problemi di sopravvivenza alla dinastia dei Saud. Il consesso internazionale, comunque, non può consentire impunemente che le sue organizzazioni sociali siano messe sotto scacco da una tendenza assolutista e del tutto minoritaria anche nel mondo musulmano, che complica inesorabilmente le relazioni mondiali e provoca gravi e diffuse situazioni d’instabilità politica, da cui deriva parzialmente anche la recente ripresa della conflittualità tra Stati Uniti e Russia a livelli che ricordano i tempi della Guerra Fredda. I paesi che sostengono il wahhabismo devono essere indotti a desistere dalla diffusione di questa teoria ricorrendo a pressioni di tipo politico ed economico, perché altrimenti si corre il rischio che alleanze tra Stati mossi da un complesso d’interessi antitetici possano indurre a risolvere militarmente ogni contenzioso sfruttando questa specifica crisi. Il sistema di alleanze delle nazioni sciite raggruppate intorno alla Repubblica iraniana con il sostegno della Russia, venutosi a creare a seguito della crisi siriana, è un chiaro indicatore di come la situazione potrebbe evolvere al peggio, in particolare se si considera la delicatezza strategica del contesto di questo ipotetico conflitto.

La spinta eversiva del wahhabismo rende dunque indispensabile la sua sconfitta attraverso una politica concertata che coinvolga a pieno titolo anche i paesi musulmani. In tale ambito, l’Italia può giocare quel ruolo primario che gli deriva dal passato, quando il nostro paese si è distinto per essere sempre stato aperto al dialogo con le nazioni islamiche, specie quelle arabe ma anche iraniche. Il governo nazionale dovrebbe quindi sviluppare un’azione precipua che, pur nel rispetto dell’alleanza atlantica, definisca accordi e indirizzi comuni al di fuori dell’ambito NATO e che la porti a rappresentare quella funzione di ponte con l’area mediterranea e orientale che costituisce un caratteristico e consolidato indirizzo geopolitico, peraltro attuato anche in anni recenti della nostra storia. L’area rappresentata dai paesi MENA - acronimo che sta per Medio Oriente e Nord Africa e che comprende gli Stati mediorientali e del Maghreb - forte di più del 6% della popolazione mondiale, dovrebbe quindi costituire il nostro principale obiettivo strategico, in grado di consentirci il recupero di quegli ambiti d’indipendenza operativa che la storia e le tradizionali relazioni internazionali c’impongono.

Con indirizzi generali di questo tipo sarà possibile ottenere anche risultati in settori specifici quali la sicurezza, estendendo le intese oltre che a livello politico, economico e tecnologico, anche alla cooperazione tra le Forze di Polizia e dell’Intelligence. Non si tratta di venire meno ai nostri vincoli storici col mondo occidentale. Significa riprendere quei margini d’iniziativa che altri hanno già assunto e ribadire un ruolo d’indipendenza politica che dal dopoguerra a oggi solo raramente siamo stati capaci di avere. La storia ci fornisce costantemente questa lezione: i problemi vitali non si risolvono con le misure parziali, ma con decisioni chiare e coerenti che, quanto più puntuali sono, meglio e con minori ritorni negativi sortiscono i loro effetti.

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