Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/01/2017, a pag. 2-5, con il titoli "Intelligence politicizzata e falle nella sicurezza, ecco perché la Turchia è fuori controllo", "Imam, slogan e proteste, la Turchia che odia il Natale", l'intervista di Marta Ottaviani a Ali Ozcan e il commento; da LIBERO, a pag. 1-9, con il titolo "Attentato contro chi festeggia il Capodanno", l'analisi di Carlo Panella
L'attentato alla discoteca di Istanbul non è da attribuire ai curdi ma al terrorismo islamico dell'Isis. Un chiaro segnale - l'ennesimo - per i cristiani, una dichiarazione di guerra da parte del terrorismo islamico, che da sempre ha fatto sua la massima "prima il sabato, poi la domenica", prima colpire gli ebrei, poi, i cristiani. Il grido è sempre lo stesso: AllahU Akbar.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Marta Ottaviani: 'Intelligence politicizzata e falle nella sicurezza, ecco perché la Turchia è fuori controllo'
Marta Ottaviani
Nihat Ali Ozcan
Un Paese ormai fuori controllo. Un’emergenza terrorismo che però parte da forze dell’ordine e una intelligence che non sono più quelle di una volta. La Turchia attraversa una fase di instabilità destinata a durare. Nihat Ali Ozcan, uno dei massimi esperti di sicurezza nel Paese, spiega come il quadro internazionale non aiuti la Mezzaluna, ma come le responsabilità siano anche politiche.
Nihat Ali Ozcan, la Turchia inizia il 2017 nel sangue, con un attentato in un posto simbolico. Che idea si è fatto dell’attacco al Reina?
«Per la matrice dell’attacco è sicuramente jihadista, probabilmente legata a Isis. Ma non sottovaluterei né al-Nusra né tutti quei movimenti eversivi con connotazione religiosa che stanno sorgendo in Turchia e che si ispirano allo Stato islamico pur non facendone parte e che adesso nel Paese contano su decine di adepti. Non tutti potenziali attentatori, ma sicuramente segmenti della popolazione sempre più radicalizzati, che potrebbero decidere di colpire anche in modo più circoscritto».
In un mese quattro attentati, di matrice diversa. Che cosa sta succedendo alla Turchia? Possibile che Ankara non sia più in grado di controllare il suo territorio?
«Da almeno due anni la Turchia è sotto tiro da diverse sigle terroristiche. C’è il terrorismo di matrice curdo-separatista con cui Ankara ha sempre dovuto fare i conti. Negli ultimi due anni c’è stato un aumento significativo del terrorismo di matrice jihadista. La situazione non è semplice, ma ci sono anche delle responsabilità precise se si è finiti a questo punto».
Quali?
«La politicizzazione della sicurezza e dell’intelligence, per esempio. E non solo dal golpe fallito dello scorso 15 luglio, dopo il quale sono stati messi in galera o rimossi migliaia fra poliziotti e militari. Il fenomeno è attivo da almeno 10 anni. Generali, graduati delle forze armate, ispettori, dirigenti o anche solo semplici agenti venivano sollevati dai loro incarichi, oppure spostati in reparti dove le loro competenze potevano servire a poco. A questo si devono aggiungere gli scambi di intelligence a intermittenza da tempo a causa dei contrasti in politica estera con alcuni Paesi chiave per la stabilità dell’area».
Sembrerebbe così che la sicurezza in Turchia faccia acqua da tutte le parti. Come se ne esce?
«Una soluzione sul breve termine mi pare impossibile. Ankara sta dimostrando di avere serie difficoltà a contrastare il terrorismo, di qualsiasi tipo esso sia. Manca un piano strategico a largo spettro, ci sono delle mancanze nei protocolli di sicurezza ed errori elementari. A furia di dare la caccia ai seguaci di Fethullah Gulen (ex alleato e ora avversario di Erdogan, accusato di essere il mandate del golpe fallito dello scorso 15 luglio, ndr), si è trascurato tutto il resto».
Perché sempre la Turchia?
«Sostanzialmente per tre motivi. Il primo è la presenza di tipi di terrorismo diversi, il che significa target diversi e più possibilità che si verifichino fatti di sangue. Il secondo è che in Turchia, grazie alla crescita economica degli scorsi anni, hanno aperto la loro sede numerose aziende estere con relativa presenza di stranieri sul territorio. Il terzo è che con la sua politica estera il Paese si è creato molti nemici, ma c’è anche un altro aspetto da non sottovalutare».
Quale?
«La posizione geografica può essere un punto a favore, ma anche un guaio. E la Turchia con la sua posizione è il rifugio naturale per i foreign fighters provenienti dalla Siria, con tutto quello che ne consegue sulla sicurezza del Paese. L’attentato al Reina purtroppo non sarà l’ultimo».
LA STAMPA - Marta Ottaviani: "Imam, slogan e proteste, la Turchia che odia il Natale"
La prova: una immagine di violenza contro Babbo Natale, diffusa in Turchia
«Müslüman Noel kutlamaz», «Müslüman yilbasi kutlamaz». Un musulmano non può festeggiare il Natale. Un musulmano non può festeggiare il Capodanno. Lo dicono da anni in Turchia, sempre più forte da quando Recep Tayyip Erdogan prese il potere per la prima volta nel 2002, così vicino, ma per come è degenerato il Paese, così irrimediabilmente lontano. Ma quella che fino a pochi anni fa sembrava la presa di posizione di un gruppo di fanatici, forse un po’ troppo avvezzi al folklore, adesso è diventata la versione ufficiale della Diyanet, l’Autorità per gli Affari Religiosi, l’organo che gestisce l’amministrazione del culto islamico nel Paese.
La denuncia era arrivata due giorni fa dal quotidiano «Cumhuriyet», uno dei tre rimasti nel Paese a non essere controllati dal presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan.
Nel sermone di venerdì 30, a ridosso del Capodanno, 80 mila imam hanno invitato a non «assumere atteggiamenti contrari alle loro usanze e agli ambienti di provenienza», con esplicito riferimento ai festeggiamenti per l’arrivo del 2017, invitando i fedeli a diffondere il messaggio perché nessuno assumesse atteggiamenti non consoni all’Islam. Non solo. Nel sermone si sottolineava come il periodo fra Natale e Capodanno, celebrato a livello globale, rischiasse di corrompere lo spirito del popolo turco.
Che, per dire la verità, era già «corrotto» da un pezzo e con somma gioia di gran parte della popolazione. Le celebrazioni dell’Anno Nuovo in Turchia sostituiscono quelle del Natale, ma solo e unicamente negli aspetti formali e per l’afflato consumistico. Nella Mezzaluna, da metà novembre, le strade delle maggiori città, soprattutto Istanbul, si ricoprono di luci con i motivi pagani più frequenti del Natale e ci restano fino a inizio marzo. Nelle case della gente si fa l’albero, il 31 dicembre ci si scambia i regali. Il più gettonato e legato alla tradizione autoctona è il melograno di porcellana rosso. Ma l’offerta si è arricchita a dismisura, facendo diventare l’Yilbasi, il Capodanno, appunto, un surrogato del Natale in piena regola.
La pratica ha sempre avuto dei nemici nel Paese. Ma o erano elementi che non destavano preoccupazione, perché nettamente in minoranza, o stavano zitti perchè se c’era una cosa che proprio ai turchi non dovevi toccare erano le celebrazioni del 31 dicembre, con quell’atmosfera da finto Natale annessa.
Poi, con il passare degli anni, le pressioni della Turchia più conservatrice sono diventate sempre più tangibili, insieme con una radicalizzazione della società. E se prima nell’occhio del ciclone c’era solo il 25 dicembre, che è lavorativo, e l’Yilbasi lo lasciavano stare, con il passare del tempo ha iniziato a essere sempre più messo in discussione anche quest’ultimo, fino alla degenerazione di quest’anno. Nelle settimane precedenti la presa di posizione della Diyanet, sono partite campagne di ogni tipo. Da quelle sui social, a quelle per le strade. In molti quartieri di Istanbul sono comparsi cartelli con la scritta «Müslüman Noel kutlamaz», oltre a manifestazioni alle quali hanno preso parte centinaia di persone, soprattutto giovani sotto i vent’anni, non solo nella conservatrice Fatih, ma anche sull’Istiklal Caddesi, il viale pedonale per eccellenza di Istanbul, da sempre luogo prediletto della movida e passata nel giro di due anni da meta preferita dei turisti occidentali a luogo di passeggio di quelli sauditi. Il quotidiano Milli Gazete, organo della destra islamica, la mattina del 31 ha invitato tutti a ricordare che fra i doveri del buon musulmano non c’è quello di festeggiare il Capodanno. Oltre agli islamici ci si sono messi anche gli ultranazionalisti, contrari al Capodanno e Natale perché di sangue ed etnia turca e quindi musulmani. Ad Aydin, gli Alperen Ocaklari, gli «eredi» dei Lupi Grigi, hanno addirittura simulato un pestaggio di Santa Claus che, per una macabra ironia della sorte era originario proprio della Turchia, con la sua casa divenuta attrazione turistica.
Sono iniziati anche i primi episodi di intolleranza. A Eminonu, quartiere sul Corno d’oro con il bazar all’aperto più grande di Istanbul e che un tempo da inizio novembre si riempiva con le luminarie finto natalizie più improbabili, le botteghe che espongono decorazioni e luci sono diminuite. E qualcuno, che proprio non voleva rinunciare al finto Natale, è stato preso a male parole.
LIBERO - Carlo Panella: "Attentato contro chi festeggia il Capodanno"
Carlo Panella Erdogan: ha quello che ha seminato
Poche centinaia di metri separano il night club Reina che si affaccia sul Bosforo, nel quale la notte del 1 gennaio un jihadista armato ha fatto un massacro sparando ad alzo zero sulla folla, dallo stadio Arena Vodafone di Besiktas, davanti al quale il 10 dicembre, un autobomba e un kamikaze fecero 38 vittime, ma pare proprio che i due fatti di sangue abbiano ben diversi autori. L'attentato allo stadio è stato rivendicato dal gruppo curdo Tak, ancora più estremista del Pkk, invece, quest'ultimo pare abbia tutte le caratteristiche di un'azione dell'Isis, già responsabile dei 40 morti dell'attentato all'aeroporto dì Istanbul del 28 giugno. Attribuzione legata al target ben diverso.
Davanti allo stadio, l'obbiettivo erano chiaramente i poliziotti del servizio d'ordine (28 uccisi), tipico degli attentati curdi, mentre al night club Reina e all'aeroporto le vittime prescelte sono stati civili e turisti, tipico target dell'Isis, come già al Bataclan e a Parigi il 13 novembre 2015. Al night club Reina infatti, è stata evidente la volontà di uccidere chi pratica "attività peccaminose" e condannate dalla sharia come "il ballo promiscuo" e la musica, bandita dalla più rigida legge islamica.
In attesa di una rivendicazione - che spesso non arriva - il dato certo è che la Turchia vive l'ennesima giornata di sangue, l'ennesimo attentato che sfregia Istanbul, così come da due anni in qua sono state sfregiate più volte la capitale Ankara, Goziantep e altre città turche. E questa senza dubbio la conseguenza del contagio siriano, malamente gestito dal presidente Tayyp Erdogan. Da cinque anni infatti, la Turchia è il retroterra logistico e politico della guerra civile siriana, affrontata con un atteggiamento ondeggiante e spesso irresponsabile da un Erdogan che in una prima fase, dal 2011 al 2015 con l'obiettivo di provocare la fine del regime di Assad, ha favorito il transito di decine di migliaia di jihadisti attraverso la frontiera con la Siria tanto che è stata documentata addirittura una grossa fornitura di armi ai jihadisti attraverso la frontiera, sotto la protezione dei Servizi turchi. Ma dal 2015 in poi, questa cinica e mal calcolata complicità con i jihadisti si è ribaltata in un contrasto diretto, incluso un intervento militare turco di terra nel nord della Siria.
Nel 2016 poi, a seguito del fallito colpo di Stato di luglio, Erdogan ha addirittura ribaltato la sua strategia estera ed ha finito per allearsi con Putin, sino ad allora suo diretto avversario nella crisi siriana - del quale aveva addirittura abbattuto un jet mesi prima - nel sostanziale appoggio a Assad, consolidato dal triumvirato Russia-Iran-Turchia che ha sancito l'espulsione degli Usa dal Medio Oriente (grazie alla pessima politica di Obama) e conseguito la conquista della strategica Aleppo. Nel corso di queste giravolte strategiche, Erdogan è riuscito nel capolavoro di moltiplicare i suoi nemici interni ed esterni e di fornire sempre più motivazioni ai jihadisti per "punire a morte" il suo Paese.
Anche perché dal 2014 in poi ha intrecciato le sue strategie ondivaghe sulla Siria con la scelta di cercare una soluzione solo militare della questione curda, contrapponendo all'avventurismo suicida del Pkk una repressione feroce. Repressione che gli è stata molto utile per vincere le elezioni politiche, ma che ha ripiombato la Turchia nella guerra civile interna con migliaia di morti. La clamorosa uccisione a favor di telecamera da parte di un poliziotto dell'ambasciatore russo ad Ankara, è prova del caos incontrollato che regna oggi in Turchia, come della totale inefficienza delle forze di sicurezza turche. Anche in questo, è palese la responsabilità diretta di Erdogan che dopo il golpe fallito di luglio ha arrestato centinaia di generali e dirigenti dei Servizi, della polizia, della magistratura rendendo caotico e inefficace tutto il sistema di sicurezza interna. La facilità con cui un solo uomo ha potuto compiere il massacro di Capodanno ne è sconcertante prova.
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