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Il Foglio Rassegna Stampa
30.12.2016 Unirsi agli sciacalli: Bibi, Obama, Kerry, Abu Mazen
Commenti di Paola Peduzzi, Redazione

Testata: Il Foglio
Data: 30 dicembre 2016
Pagina: 1
Autore: Paola Peduzzi-La redazione
Titolo: «Il prezzo di una amicizia-Bibi, Abu Mazen e i due stati»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 30/12/2016, a pag.1, due analisi, Paola Peduzzi sul rapprto Usa-Europa e un redazionale sull'illusione dei due stati.

Paola Peduzzi: " Il prezzo di una amicizia"

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Paola Peduzzi

Milano. Che prezzo ha, in termini di coerenza, alleanze ed eredità politica, la soluzione a due stati per la questione israelo-palestinese? Barack Obama ha fissato il prezzo molto in alto: non ha niente da perdere, non ha elezioni in vista, non ha un partito da salvare (è a pezzi in ogni modo), ha soltanto un'eredità in politica estera da forgiare, all'ultimo, mentre risuona potentissima l'assenza americana nella tregua siglata in Siria. Così Obama ha alzato la posta: s'è astenuto all'Onu sulla risoluzione 2334 che condanna la politica degli insediamenti di Israele e ha fatto sì che il suo segretario di stato, John Kerry, sacrificasse sull'altare di una strategia moribonda — i due stati —un'alleanza esistenziale per l'America e per Israele. Kerry ha parlato di amicizia, nel suo discorso, stabilendo che gli amici — gli alleati — devono dirsi "le verità più dure", perché la lealtà è questo: saper dire a un amico quando sbaglia. Ma il punto non è tanto dirsi la verità, quanto in quali circostanze dirsele. Nel 1980, quando all'Onu accadde una cosa simile e il presidente americano era Jimmy Carter (una doppia astensione su due risoluzioni contro gli insediamenti e la politica dei rifugiati palestinesi, a poche settimane dalla fine della presidenza), il Washington Post scrisse un editoriale molto citato in questi giorni che s'intolava: "Unirsi agli sciacalli". Il Post aveva sostenuto Carter nella campagna contro Reagan, incarnava la visione liberal dell'America e del mondo, ma in quell'editoriale fu fermo con il presidente democratico: mostrare la "dura verità" in un consesso come quello dell'Onu, "un branco di nemici di Israele", equivale a unirsi a quel branco, e a metterlo prima dell'amicizia. Ci sono molti consessi in cui mostrare perplessità, l'Onu non è tra quelli. Il prezzo della propria eredità per Obama è il più alto immaginabile, ed è per questo che ha deciso di utilizzare questo ultimo mese di presidenza per ribadire una politica che è da sempre uguale e allo stesso tempo per criticare la politica "molto di destra" del governo Netanyahu, ostaggio dell'agenda dei settlers. Una dichiarazione puramente politica, che in termini tecnici potrebbe essere definita un'ingerenza, ma che vuole sottolineare una differenza presso l'elettorato americano (l'unico che abbia mai contato per Obama): noi democratici vogliamo la pace, coi repubblicani si vedrà. Il Partito democratico non ha apprezzato affatto il lascito del presidente uscente (che ha ignorato il partito per otto anni). Ci sono state critiche da parte di deputati e senatori democratici per l'astensione all'Onu e per il discorso di Kerry: per un partito che deve ricostruire la propria identità dopo una sconfitta elettorale brutale, la divisione su Israele è un fardello invero pesante. Poi c'è l'Europa, il pubblico più simpatetico nei confronti di Obama. A Parigi, il 15 gennaio, si terrà un incontro voluto dal presidente (uscente pure lui) François Hollande con una settantina di paesi per rilanciare il processo di pace. Per i palestinesi si tratta di una prova generale per quella risoluzione che sognano da sempre, e che (persino) l'Amministrazione Obama non ha concesso, sul riconoscimento dello stato palestinese da parte di tutto il mondo, escluso Israele. Per l'Europa, che ha elogiato il discorso di Kerry, è l'occasione di poter dire la propria, dopo aver perso la voce — e taciuto — su tutti gli altri dossier del Mediterraneo. Così il fatto che la strategia dal prezzo alto sia moribonda non conta poi un granché

Redazione- "Bibi, Abu Mazen e i due stati"

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Institute for National Security Studies, Tel Aviv

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Roma. Elogio funebre, requiem: sono questi i termini usati dai giornali americani per descrivere il discorso del segretario di stato americano. Secondo John Kerry, "la soluzione a due stati è in pericolo". Per l'Amministrazione Obama in uscita, "la continua crescita degli insediamenti minaccia la pace". Il governo israeliano ha reagito duramente a queste parole: il premier, Benjamin Netanyahu, ha parlato di una "grande delusione", arrivata dopo la prima astensione dell'America al voto di una risoluzione dell'Onu contro gli insediamenti. Tra lo scambio di accuse, cresce l'impressione che la soluzione a due stati, "sostenuta da gran parte del mondo, non sia più plausibile", ha scritto il New York
Times. Il premier Netanyahu e la sua controparte palestinese, il presidente Abu Mazen, sono formalmente impegnati a costruire una strada per la soluzione a due stati. Tuttavia, in Israele la destra più oltranzista - senza la quale Netanyahu non avrebbe una coalizione di governo - chiede la sua archiviazione. E un recente sondaggio ha rivelato che i due terzi della popolazione palestinese non credono più in quella strada ll gruppo palestinese che controlla Gaza, Hamas, continua intanto a non riconoscere l'esistenza d'Israele. "La maggior parte dei politici e del pubblico israeliano sostiene la soluzione a due stati, ritiene che sia nell'interesse di Israele. Ma allo stesso tempo, questa maggioranza non pensa più che sia fattibile", spiega al Foglio Shlomo Brom, ricercatore rlell'Institute for National Security Studies di Tel Aviv, e negli anni Novanta negoziatore tra israeliani e palestinesi. "E' per questo motivo che una minoranza politica a destra, convinta che i Territori occupati debbano essere israeliani, ha il potere d'influenzare il discorso politico". Netanyahu ha sostenuto per la prima volta la necessità di due stati per due popoli in un discorso all'Università di Bar-Ilan, nel 2009. Un suo consigliere disse allora che aveva "attraversato un Rubicone personale", andando contro la sua stessa storia politica. E' però accusato di mantenere una posizione ambigua: sostegno alla soluzione a due stati con la comunità internazionale, accondiscendenza a chi nella sua coalizione spinge per un ampliamento degli insediamenti in casa. A poche ore dal voto nel 2015, quando per i sondaggi esisteva un rischio di non ottenere un terzo mandato consecutivo (non c'era quel rischio), Netanyahu disse a un sito israeliano che sotto la sua supervisione non ci sarebbe mai stato uno stato palestinese: "Chiunque crei uno stato palestinese e conceda territori oggi sta semplicemente dando una base per attacchi all'islam radicale", aveva spiegato dopo tre guerre contro Hamas a Gaza e una stagione di continui lanci di razzi dalla Striscia contro Israele. "Non ho cambiato posizione - ha detto a metà dicembre all'americana Cbs - Due stati per due popoli. Questo è il mio focus" . Benché abbia "ufficialmente appoggiato la soluzione a due stati e capisca che sia nell'interesse di Israele, Netanyahu opera contro la sua messa in pratica", spiega Brom. Condivide i timori dell'establishment della sicurezza, ossia che un disimpegno dalla Cisgiordania possa diventare un'opportunità per i gruppi radicali di attaccare Israele. Ed è troppo debole politicamente per imporre una soluzione a due stati: il suo ministro dell'Istruzione e rivale politico Naftali Bennett ha detto in queste ore: "La Palestina uscirà dall'agenda" con l'arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump.

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