Riprendiamo da PANORAMA di oggi, 15/12/2016, a pag. 70, con il titolo "Come si vive in Israele circondati da nemici", il servizio di Luciano Tirinnanzi.
Luciano Tirinnanzi
Un tratto di confine tra Israele e Libano
Quando atterro all'aeroporto di Tel Aviv, il forte vento mi ricorda che in queste settimane Israele è preda di una serie d'incendi che hanno messo a dura prova il Paese. Lo capisco meglio quando raggiungo l'albergo, dove vigili del fuoco di diverse nazioni affollano la hall. La solidarietà è palpabile: russi e ucraini insieme, azeri, alcuni europei. Persino i palestinesi sono giunti per dare una mano. La brutta notizia arriva mentre sono a colloquio con il ministro della Pubblica sicurezza, Gilad Erdan, astro nascente della politica israeliana: «In parte sono certamente dolosi», alcuni palestinesi hanno persino tentato di dare fuoco alla caserma dei pompieri di Haifa. «Le indagini sono ancora in corso» dice cupo il ministro «ma sappiamo già che è così».
Ecco Israele, penso mentre arriva il pullman, patria dei paradossi e delle contraddizioni. Parto per il confine col Libano, culla di Hezbollah, il «partito di Dio» sciita oggi impegnato in Siria in appoggio al regime di Assad. Pochi giorni prima c'è stata una grande parata militare, con carri armati per le strade e soldati in uniforme. Definirli terroristi, come fanno Usa, Ue e Lega araba, è riduttivo. «Sono il principale problema d'Israele» ripetono come una litania qui «perché desiderano la nostra completa distruzione».
Superata Metullah, un dito di terra nella punta nord d'Israele, arrivo a pochi passi dalle prime roccaforti di Hezbollah. E l'estremo punto d'osservazione dell'Idf (Israel defense forces), da dove le forze armate controllano le pendici del Golan e la frontiera libanese. Oltrecortina si trova il villaggio fantasma di Kfar Kela, apparentemente disabitato. Solo qualche raro camion si muove veloce lungo il confine, che altro non è se non una sofisticata rete elettrificata. Qui dovrebbe operare l'Unifil, la forza d'interposizione Onu, ma non c'è nessuno. «Dove sono i caschi blu?» chiedo al maggiore Amsalem, che mi accompagna. «Passano di rado, giusto per pattugliare il confine». In cima al monte c'è una fortificazione. «Quella è Nabi El Aradi, una base militare libanese, ma non escono quasi mai, qui comanda solo Hezbollah». Mi chiedo se non sia pericoloso stare qui. «Non ultimamente» rassicura il maggiore. «In queste settimane la maggior parte dei miliziani sono impegnati oltre il Golan, gli altri si dedicano al traffico di droga». In quest'area passano le metanfetamine e la marijuana che i narcotrafficanti libanesi producono in grandi quantità più a nord, nella valle della Bekaa, anch'esso territorio di Hezbollah.
Un tunnel di Hamas
Due giorni dopo, al quartier generale dell'Idf, edificio orwelliano di oltre 20 piani, il generale Amikam Nurkin, prossimo comandante dell'Aviazione, mi mostrerà una cartina delle attività di Hezbollah nell'area. Chaqra, ad esempio, una quarantina di chilometri a sudovest rispetto a Metullah, è una sequenza di depositi di armi, pezzi d'artiglieria, tunnel e postazioni di fanteria. L'Idf ne ha mappato l'attività. Secondo il generale, il vero conflitto deve ancora iniziare: le forze armate si preparano a una guerra entro i prossimi cinque anni. «Non possiamo farci trovare impreparati, sappiamo che Hezbollah si sta riorganizzando, come Hamas nella Striscia di Gaza. Noi siamo la prima linea di tutto».
Lascio le alture con la sensazione di un territorio dai bordi troppo incerti. Anche la frontiera siriana, del resto, è contestata: il maggiore Amsalem non ha saputo dire con precisione dove finisca Israele e inizi la Siria. La sera del 28, a cena col portavoce del ministero degli Affari esteri, Emmanuel Nahshon, discutiamo di altri confini incerti: quelli con la Palestina. Chiedo ingenuamente come possano esservi due Stati, quando sulla cartina ce ne sono almeno tre: Gaza e la Cisgiordania non confinano tra loro. «La soluzione c'è» dichiara sicuro. «Prevede tunnel o ponti sopraelevati per connettere le due regioni, che distano tra loro solo 40 km. Si può fare». Obietto che un Paese ha bisogno di continuità territoriale, ma lui insiste: «Nel mondo vi sono molti esempi simili di discontinuità». Cito Kaliningrad, l'enclave russa in Europa, e lui annuisce. Gli ricordo come quello sia un problema per Europa e Nato, visto che Mosca vi ha appena piazzato dei missili balistici. Intanto arriva il pesce San Pietro, specialità locale. Non c'è più tempo per rispondere.
Poche ore prima ho visitato lo Ziv Hospital Center, nella cittadina di Safed, sulle montagne della Galilea che digradano lungo il confine con la Siria. Qui un'équipe medica guidata dal professor Alexander Lerner cura i feriti della guerra civile. L'ortopedico bielorusso fa miracoli con arti lacerati dalle bombe, ossa esplose e frammenti di schegge che infieriscono sui muscoli dei pazienti. Lo spettacolo è straziante. Dall'inizio del 2013, oltre 700 profughi siriani sono stati ricoverati in ospedali civili israeliani e negli ospedali da campo dell'Idf.Tra le vittime di guerra in cura a Ziv, ci sono anche combattenti. Non è chiaro come siano arrivati qui. Mi ritrovo a parlare con due di loro. Entrambi ventenni, hanno la barba lunga da salafiti e un cappello nero per il freddo. Sono qui da due mesi. Vietato fotografarli. Dicono di essere del Free syrian army, ma non paiono convinti. Il primo è spaurito e si sente solo. Chiede se posso aiutarlo. Ha perso i contatti con la famiglia. Non tornerà a combattere perché il comandante l'ha abbandonato «nel bel mezzo di un bombardamento». Il secondo è sorridente e fiero, ansioso di raccontare la sua storia. La sua famiglia è fuggita da Damasco, riparando a Quneitra. È stato ferito alle gambe da un razzo, a Daraa. Vuole torture sul campo prima possibile «per uccidere Bashar Al Assad». Crede nel Califfato? Risponde convinto: «Si». Imbarazzato, l'interprete dice che c'è un errore di traduzione.
Il 29 novembre, anniversario della risoluzione Onu che nel '47 inaugurò il piano di ripartizione della Palestina, raggiungo il confine con Gaza. Faccio tappa a Sderot, tra le più bersagliate dai razzi di Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla la Striscia. Dal 2005 a oggi, ha lanciato più di 11 mila razzi su Israele. Molti su Sderot. Di conseguenza, la città è «mostrificata»: ogni fermata dell'autobus ha bunker tascabili in cui ripararsi al suono delle sirene. Ogni palazzo è dotato di un'ala anti-razzo. Il cemento rende tetri persino gli asili. Oltre 5 milioni di cittadini israeliani sono esposti alla minaccia dei razzi (ormai anche Tel Aviv e Gerusalemme), perciò l'Idf ha creato Iron dome, un si-sterna d'intercettazione antimissilistico altamente tecnologico. Ma la verità, dicono i residenti, è che verso Sderot partono razzi ad altezza uomo che neanche Iron dome può intercettare. Come si può vivere così? «Non cederemo mai ai terroristi» è la risposta corrente. «Resistiamo contro di loro anche per voi in Occidente».
«Loro» abitano per lo più a Gaza City, quasi 2 milioni di anime ostaggio di Hamas. Dal nostro punto di osservazione, una collina circondata da filo spinato a meno di un chilometro dalla frontiera, si vedono grandi caseggiati e una moschea da cui proviene la voce del muezzin che annuncia l'ora della preghiera. Un graduato del comando Sud dell'Idf indica i villaggi di Beit Hanoun e Jabàlya. «Da lì partono i razzi e molti dei tunnel. Meglio non avvicinarsi troppo, però. I cecchini si divertono a tirare in questa direzione». Al momento non c'è molta attività. «Il fronte più caldo è al confine con l'Egitto». Mi spiega che l'Isis, presente nella Striscia, tenta incursioni giornaliere nel Sinai. Sul lato israeliano, invece, «i droni hanno rilevato che Hamas si sta addestrando per azioni future. Sappiamo dall'intelligence che scavano nuovi tunnel. Il paradosso» aggiunge «è che li fabbricano col cemento che gli forniamo noi, sfruttando la luce elettrica della centrale di Askhelon».
I tunnel sono grandi abbastanza da poterli percorrere in moto. Sotto i miei piedi c'è una rete sotterranea che si estende per chilometri fin dentro Israele. «La tattica è sempre la stessa, sbucano all'improvviso in gruppi di una dozzina e tentano di rapire i civili dei kibbutz, ma soprattutto soldati. Per loro sono più preziosi». Il perché è chiaro: sono merce di scambio per negoziare. «Vedi quei caseggiati bianchi? Sono punti di osservazione. Anche adesso ci guardano». Domando come mai non li distruggano. «A che serve? Li ricostruiscono in pochi giorni, almeno così li possiamo controllare». Così appare la realtà ai confini d'Israele, dove ogni certezza è sfumata. L'ultimo bastione dell'Occidente, l'argine all'islamismo militante, è un luogo condannato a un eterno e ripetitivo presente, senza troppe illusioni di un futuro migliore.
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