IC7 - Il commento di Dario Peirone
Dal 27 novembre al 3 dicembre
La fiducia nel futuro spegne anche gli incendi
In questo periodo giungono notizie dolorose per Israele. Una nuova forma di terrorismo basata su incendi devastanti. L’Europa che continua imperterrita a votare assurde risoluzioni all’ONU. Paesi (come la Francia) che insistono a chiedere le famose “etichettature” sui prodotti israeliani. Per fortuna, Israele è un paese che guarda sempre al futuro.
Proprio al futuro è diretto il nuovo progetto di ORT. ORT (http://en.ort.org.il/) è la più grande rete educativa in Israele, che comprende 205 scuole superiori, istituti tecnici e collegi universitari in tutto il paese. La maggior parte delle scuole ORT si trova in periferie ed in zone abitate da popolazione con problemi socio-economici, molte quindi in quartieri arabi o ortodossi. Eppure, ORT ha voluto lanciare un programma per la formazione di capitale umano qualificato per l’innovazione, che ha attirato grande interesse anche in Europa. Israele e l'Unione Europea, infatti, condividono il problema della sempre maggiore carenza di lavoratori qualificati nel campo della scienza e della tecnologia, con conseguente calo della produttività. Secondo un rapporto interno dell'UE, quattro aziende europee su 10 hanno segnalato difficoltà a reperire personale preparato nel campo scientifico-tecnologico, dell’ingegneria e della matematica. In Israele, secondo il Ministero dell'Economia, ci sarebbe bisogno di altri 10.000 dipendenti nei settori hi-tech. Mentre la crescita dei paesi sviluppati dipende sempre più dall’innovazione, un recente studio dell'OCSE mostra che i suoi paesi membri, tra cui Israele, stanno generando sempre meno lavoratori esperti nell’alta tecnologia. "Il problema risiede in un modello d’istruzione superato”, secondo il direttore di ORT Zvi Peleg.
La sua proposta è il programma iSteam, basato su un avvicinamento globale alle materie scientifico-tecnologiche fin dalle scuole primarie, con un approccio interdisciplinare. ORT ha sviluppato il curriculum iSteam come modello educativo che include l'innovazione, la scienza, la tecnologia, ma anche l'arte e la matematica. Tra i partner del progetto ci sono fondi di venture capital come Pitango e il Peres Center for Peace, la banca Hapoalim e la Israel Aerospace Industries.
Una missione di funzionari della Commissione Europea è appena tornata da una visita in Israele. “Stiamo portando l'esperienza che abbiamo acquisito da iSteam a un vertice a Bruxelles la prossima settimana, per mostrare ai nostri paesi partner e gli Stati membri dell'UE il successo di questo programma in Israele ", ha detto il capo delegazione. "Vedo Israele come un caso di eccellenza nel mondo, è per questo che l'Unione europea vuole incoraggiare sempre più Israele a partecipare ai nostri programmi d’istruzione." Alla faccia di boicottatori, diplomatici revisionisti e odiatori di professione.
Questo bel progetto sull’istruzione e l’innovazione mi ha fatto ricordare di Erel Margalit, uno dei protagonisti della Startup Nation. Creatore del fondo JVP (Jerusalem Venture Partners), citato più volte nel famoso libro di Senor e Singer, negli ultimi vent’anni è stato uno dei grandi innovatori nell’economia israeliana (non solo a livello tecnologico ma anche sociale). Ora è in politica nel partito laburista. Ricordo bene quando lo invitai a Torino alcuni anni fa, passando con lui due giorni ricchi di incontri e visite ai luoghi d’innovazione della città. Già allora aveva una visione del Medio Oriente fuori dagli schemi che siamo soliti sentire. “In questa regione la vera sfida non è tra ebrei e arabi. La vera sfida è tra gli estremisti – comunque si chiamino, ISIS, Al Qaeda o Hezbollah, o le fazioni militanti di Hamas – e coloro che sono disposti a resistere e lottare contro di loro”.
La sua ricetta: collaborazione su progetti concreti. “Sul piano politico, ogni volta che si parla di un accordo in Medio Oriente tra israeliani e palestinesi, si discute solo di ciò a cui Israele deve rinunciare, per arrivare alla soluzione dei due stati. Ma una questione centrale dovrebbe riguardare anche quello che Israele potrebbe guadagnare in termini di benessere, e più in generale i benefici che potrebbe ottenere tutta la regione da una situazione in cui i paesi lavorano insieme, invece che isolati l’uno dall’altro”. Vedere Egitto e Giordania che collaborano a spegnere gli incendi nel nord di Israele mi fa pensare che forse aveva ragione. Questa visione (da vero discepolo di Shimon Peres) non l’ha abbandonato, infatti ora è in tour all’estero per mobilitare risorse verso nuovi progetti.
“Invece di fermarsi a guardare il grande afflusso di capitali in Iran e preoccuparsi soltanto, possiamo agire e fare qualcosa”, ha dichiarato di recente in una conferenza negli USA. “Creiamo diversi grandi progetti regionali intorno a temi comuni, come acqua, agricoltura ed energia. Questi sono temi adatti per attirare capitali internazionali. Sto invitando i governi a creare una piattaforma condivisa di discussione, e voglio convincere imprenditori, dirigenti e leader accademici del Medio Oriente a individuare alcuni di questi grandi temi, per dar vita ad un processo grazie al quale possano diventare progetti concreti”. Come quando lo avevo conosciuto a Torino, trovo il suo entusiasmo contagioso. Purtroppo, però, vedere su twitter le espressioni di felicità da parte di giovani arabi perché Israele sta bruciando, mi fa perdere molta fiducia. Anche in questo caso, tuttavia, non passa molto tempo e una speranza riesce a farsi strada. Si diffonde in maniera virale un post di un ragazzo egiziano, Hussein Aboubakr. Hussein è musulmano, ha partecipato alle rivolte di Piazza Tahrir, ma con l’avvento di Morsi ha dovuto fuggire e andare negli Stati Uniti, dove è ricercatore di…lingua e cultura ebraica!
Hussein scrive su facebook: “Ci sono persone che in questo momento stanno letteralmente celebrando gli incendi in Israele e non è difficile indovinare quale sia il loro background etnico e religioso. Nella Bibbia ebraica, c'è una famosa storia di re Salomone e di due donne che stavano litigando per un bambino, ognuna sostenendo che fosse il suo. Il re Salomone decise di usare un espediente e finse di voler tagliare il bambino in due, poi in base alla reazione delle donne emise la sua sentenza; la donna che aveva accettato l’uccisione del bambino, infatti, non poteva essere la madre, mentre la vera madre era colei che aveva rifiutato la sentenza ed era disposta a rinunciare al piccolo per salvargli la vita. Io non sono re Salomone, ma mi pare chiaro chi è contento di bruciare la terra e chi sta cercando di salvarla. E quindi è chiaro a chi appartiene”. Davvero, quando si tratta di Israele bisogna sempre avere fiducia nel futuro.
Dario Peirone, Ricercatore di Economia e Gestione delle Imprese - Dipartimento di Economia e Statistica, Università di Torino