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Il Manifesto Rassegna Stampa
23.11.2016 Michele Giorgio si accorge del muro libanese, ma non perde occasione per attaccare Israele
Doppio standard e menzogne in serie: niente di nuovo sul quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 23 novembre 2016
Pagina: 9
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Anche in Libano muro della vergogna per i palestinesi»

Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 23/11/2016, a pag. 9, con il titolo "Anche in Libano muro della vergogna per i palestinesi", il commento di Michele Giorgio.

Michele Giorgio si accorge che i Paesi arabi hanno, nei confronti dei "fratelli palestinesi", una politica di rifiuto e ostilità. Nell'articolo - che ha come oggetto principale la costruzione di una barriera antiterrorismo e di separazione con il campo profughi palestinesi Ain Al Hilwe in Libano - però Giorgio non perde occasione per accusare Israele, come da copione sul Manifesto. Commette poi una grave omissione, non scrivere che nei paesi arabi ai profughi palestinesi è sempre stata impedita qualsiasi integrazione, ma scriverlo darebbe una nuova dimensione del rapporto palestinesi-paesi arabi, una verità che è bene tenere nascosta, conoscerla renderebbe difficile continuare ad accusare Israele.

I due paragrafi finali sono esempi della solita ricostruzione rovesciata dei fatti: "al posto di blocco di Qalandiya è stato ucciso un palestinese che avrebbe tentato, secondo le autorità israeliane, di accoltellare un soldato". Niente di nuovo: porre in primo piano i morti (arabi) palestinesi, non citare che si tratta di terroristi fermati un attimo prima di colpire, mettere in dubbio la dinamica stessa del fatto ("avrebbe tentato"). Così si esprime la propaganda filoterrorista e contro lo Stato ebraico del giornale comunista.

Ecco l'articolo:

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Michele Giorgio

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La costruzione del muro a Ain Al Hilwe, Libano. Una immagine che non compare mai sui nostri media. Come mai?

Circondati da muri, nella loro terra e ora anche in un Paese arabo. È il destino dei palestinesi, in particolare dei profughi. L'esercito libanese ha iniziato a costruire un muro di cemento alto diversi metri e torri di guardia intorno ad Ain al Hilweh (Sidone) il più grande, con circa 80mila abitanti, dei campi profughi palestinesi nel Paese dei Cedri. Un muro che ufficialmente dovrà impedire che i ricercati, specialmente i jihadisti in fuga, trovino rifugio nel campo ma che ben rappresenta la condizione degli oltre 400mila rifugiati palestinesi in Libano, di fatto segregati nei loro campi, esclusi da decine di lavori, costretti a sopravvivere grazie agli aiuti umanitari internazionali e locali.

L'avvio dei lavori della barriera intorno a Ain al Hilwe, progettata nei mesi scorsi e che sarà completata in 15 mesi, coincide con l'ascesa alla presidenza del Libano dell'ex generale Michel Aoun, che non ha mai nascosto la sua storica avversione per la presenza dei palestinesi. E non è insignificante che tutte le formazioni politiche libanesi, incluse quelle che si proclamano dalla parte dei diritti dei palestinesi, siano rimaste in silenzio rispetto a una costruzione che trasformerà in una enorme prigione Ain al Hilwe. Tacciono anche l'Olp e Hamas.

Sono deboli e isolati i palestinesi in Libano, non in grado di impedire la realizzazione di questo "muro della vergogna". Anzi hanno dovuto fingere di aver coordinato il progetto con le autorità libanesi. «Il muro è stato costruito al di fuori del campo e lontano dalle aree abitate, queste costruzioni servono a risolvere problemi di sicurezza", si è affannato a spiegare il generale Mounir al Maqdah, capo della sicurezza palestinese ad Ain al Hilwe. Anche al Maqdah però ha dovuto riconoscere che il muro avrà un effetto negativo sugli abitanti del campo. «Le implicazioni psicologiche di questo muro saranno negative e difficili da superare* ha ammesso, aggiungendo che l'esercito ha accettato alcune modifiche al percorso della barriera e alle posizioni delle torri di guardia. In rete però le proteste sono aumentate con il passare delle ore.

Sui social non pochi hanno paragonato il muro di Ain al Hilwe a quelli costruiti da Israele in Cisgiordania, al confine con l'Egitto e a quello che correrà lungo il confine orientale della Striscia di Gaza. A distanza di nove anni dalla distruzione del campo profughi palestinese di Nahr al Bared (Tripoli), rimasto per mesi sotto il fuoco dell'artiglieria dell'esercito libanese intenzionato a stanare i jihadisti di Fatah al Islam che vi si erano rifugiati, anche Ain al Hilwe paga il conto della penetrazione di gruppi di islamisti radicali che approfittano del vuoto di sicurezza che regna nel campo profughi. Le formazioni palestinesi, a cominciare da Fatah, hanno provato senza successo ad impedire che i jihadisti creassero delle basi nel campo. E in questi ultimi tempi non sono mancati gli scontri a fuoco con morti e feriti. Nel giugno 2015 uno dei leader di Fatah, Talal Balawna, fu assassinato da "sconosciuti", un'uccisione che ha anticipato gli scontri armati di due mesi tra Fatah e Jund al Sham, andati avanti per più di una settimana. Jund al Islam da allora ha fatto il bello e il cattivo tempo ad Ain al Hilwe, fino all'arresto due mesi fa da parte dell'intelligente libanese del suo fondatore, Imad Yasmin, che è anche un leader dello Stato islamico. Un clima di cui i profughi sono le vittime e che invece ha contribuito ad alimentare la propaganda dei tanti che in Libano considerano i campi palestinesi un "problema" da risolvere anche con le maniere forti.

Ad alcune centinaia di chilometri di distanza da Ain al Hilwe, nel Neghev, centinaia di abitanti del villaggio beduino palestinese di Um al-Hiran lottano contro la demolizione delle loro case, ordinata nel 2015 dalla Corte Suprema di Israele. Le ruspe ieri hanno preso posizione ai bordi del villaggio protette da ingenti forze di polizia mentre gli abitanti, sostenuti da volontari stranieri e attivisti della sinistra israeliana, si sono distesi sul terreno nell'estremo tentativo di salvare le loro case. Nel frattempo i loro avvocati hanno presentato un nuovo ricorso. Per le autorità israeliane Um al-Hiran sarebbe un villaggio illegale e al suo posto è prevista la costruzione di un centro abitato ebraico, Hiran. È una beffa amara per gli abitanti beduini che furono spostati di autorità in quella zona nel 1956, dopo essere stati sgomberati dalle loro terre di origine. I progetti nel Neghev (Piano Prawer) prevedono l'evacuazione di decine di migliaia di beduini che vivono in centri non riconosciuti dallo Stato.

In Cisgiordania, dove ieri al posto di blocco di Qalandiya è stato ucciso un palestinese che avrebbe tentato, secondo le autorità israeliane, di accoltellare un soldato, si attende l'avvio di nuovi progetti per l'espansione delle colonie israeliane con la benedizione di fatto di Donald Trump. Il neo presidente ha detto in diverse occasioni di non considerare gli insediamenti coloniali un ostacolo alla pace.

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