Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/11/2016, a pag. 9, con il titolo "Donald nella tana del New York Times: 'Sfortunatamente vi leggo tutti i giorni' ", la cronaca di Gianni Riotta; dal FOGLIO, a pag. I, con il titolo "Il business dei siti che ti spiegano se stai leggendo una cialtronata oppure una cara, vecchia notizia vera", il commento di Daniele Raineri.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Gianni Riotta: "Donald nella tana del New York Times: 'Sfortunatamente vi leggo tutti i giorni' "
Gianni Riotta
Donald Trump con una copia del New York Times
Gli Stati Uniti non devono impegnarsi nella costruzione delle altre nazioni; la guerra in Siria va fermata, secondo una strategia che conosce solo lui e non intende spiegare; fosse per lui, sarebbe tranquillamente in grado di gestire il governo americano e le proprie aziende; Obama si è comportato molto bene, lo stima, e lo ha avvertito di un grande problema da risolvere, che però non può rivelare; legge sempre il «New York Times», suo malgrado, perché senza vivrebbe vent’anni di più.
La lite con le tv
Eccovi alcuni estratti della prima intervista in live tweeting mai fatta da un presidente eletto degli Stati Uniti. Ieri mattina Trump aveva in programma un incontro con i vertici del «New York Times», dopo la lite del giorno prima con i capi delle grandi televisioni americane, a cui aveva rinfacciato di essere dei «bugiardi e disonesti», che non avevano capito nulla di cosa stava avvenendo nelle elezioni presidenziali, perché avevano gli occhi tappati dalla loro partigianeria a favore di Hillary Clinton.
Verso le sei del mattino il presidente eletto ha fatto sapere al mondo via Twitter che l’appuntamento era annullato: «Hanno cambiato le regole in corso, non sono stati gentili, non vado più». Il «Times» aveva risposto, altrettanto pubblicamente, che le regole erano sempre rimaste le stesse: incontro con i vertici, ma almeno in parte on the record, a differenza di quanto era accaduto con i capi delle televisioni. Quindi possibilità di riportare quello che diceva. Qualche ora dopo Trump ci ha ripensato, ed è entrato nei corridoi della «Grey Lady», la signora in grigio, il giornale di riferimento degli Stati Uniti. È passato davanti ai ritratti dei suoi predecessori e di altri grandi uomini del passato, per sedersi intorno a un tavolo con l’editore Arthur Sulzberger, il ceo Mark Thompson, il direttore Dean Baquet (un nero), Tom Friedman, Maureen Dowd, e tutti i reporter che hanno coperto la sua campagna e lo seguiranno alla Casa Bianca.
Siccome la storia mediatica del momento è che Trump usa i social per scavalcare i vecchi mezzi di comunicazione, e rivolgersi direttamente al popolo, il «Times» lo ha preso in parola e si è rivolto direttamente al popolo. Eric Lipton e Mike Grynbaum hanno rivelato la lista dei presenti e il tono. «Se vedete qualcosa che non funziona nella mia amministrazione, venite a dirmelo. Arthur può chiamarmi quando vuole», ha cominciato Donald.
La diretta su Internet
Poi Maggie Hamerman e Julie Davis hanno cominciato il diluvio dei tweet di cronaca. Sul conflitto di interessi: «Presumo che dovrei fare un blind trust, farò qualcosa. Però sarei perfettamente in grado di gestire contemporaneamente la Casa Bianca e le mie aziende». Su Steve Bannon, consigliere strategico accusato di razzismo: «Breitbart, il suo sito, è soltanto un mezzo di informazione. È conservatore, ma fa il vostro stesso lavoro. Quello che state dicendo su Bannon è totalmente ingiusto. Se avessi il minimo sospetto che fosse un razzista, non lo assumerei». Sui neonazisti che hanno gridato «Hail Trump» a Washington: «Li ripudio». Sul rapporto con l’establishment repubblicano: «Lo Speaker della Camera Paul Ryan e il leader del Senato Mitch McConnell mi amano. Anche il leader democratico, Charles Schumer, mi piace». Su Barack Obama: «Mi piace, ha detto cose belle di me, e io di lui. Mi ha spiegato qual è secondo lui il problema principale, ma adesso non posso dirvelo». Sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo: «Non credo che dobbiamo fare i nation builder», i poliziotti del mondo e i costruttori delle democrazie, come all’epoca di George W. Bush e i neocon. Sulla Siria: «Dobbiamo risolvere il problema. Io ho un’idea diversa da quella di tutti gli altri». Sul Medio Oriente: «Amerei essere la persona che fa la pace tra israeliani e palestinesi». Alle 2,15 del pomeriggio l’incontro finisce, e comincia una nuova era nella storia delle comunicazione e degli Stati Uniti.
IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Il business dei siti che ti spiegano se stai leggendo una cialtronata oppure una cara, vecchia notizia vera"
Daniele Raineri
Trump e il New York Times
Roma. Considerato che le informazioni sono una merce utile di scambio e che come ogni merce utile possono essere di qualità eccellente o pessima – e quindi potreste pure dare retta al ministero siriano del Turismo che vi invita a visitare Aleppo, ma in realtà è ancora troppo presto per passarci le vacanze – ci sono siti che fanno affari combattendo contro la disinformazione, che in questo campo è la bassa qualità. Business Insider ha appena intervistato Brooke Binkowski, che è il direttore editoriale del sito gratuito in lingua inglese Snopes, uno dei più seguiti tra quelli dedicati a smontare le notizie finte e le cialtronate che girano in rete. Snopes esiste da vent’anni ed era nato con l’obiettivo di smentire – oppure confermare, quando c’erano le prove – le leggende metropolitane, ovvero quelle piccole fiabe contemporanee nate per colpire il nostro cervello e fare leva sulle nostre paure, tipo: è vero che alcuni piccoli esemplari di coccodrillo scaricati nel water da padroni poco sensibili oggi sopravvivono e vanno a caccia nella rete fognaria di New York? (risposta: no, non è vero). In genere si trattava di storie e di fotografie, spesso modificate con il computer, febbrilmente scambiate via mail con gli amici negli anni che hanno preceduto l’avvento dei social media.
Brooke Binkowski
Poi è arrivato Facebook, le leggende metropolitane hanno preso la forma di notizie politiche con una capacità di diffusione rapidissima e il potere di formare l’opinione pubblica e oggi Snopes ha una decina di dipendenti e si mantiene grazie al numero alto di visite e agli introiti pubblicitari – come i siti che spargono bufale, ma funziona all’opposto: attrae chi vuole capirci qualcosa. Binkowski dice che alcuni dei suoi reporter hanno scelto questo tipo di lavoro perché sono soltanto insofferenti alle inesattezze, e che altri, come lei, lo fanno per ideologia: “Credo che la luce del sole – a cui esporre le notizie – sia il miglior disinfettante possibile e credo nel potere della verità. In tutta onestà, la maggior parte delle bufale sono incredibilmente facili da smontare, perché sono ovviamente delle stronzate. Spesso i siti inseriscono un dettaglio inverosimile dentro il pezzo come per mettere le mani avanti e avvertire: questa è satira, non fateci causa”. Binkowski dice però che i social media non sono il problema, il problema è piuttosto il basso livello a cui sono scesi i media tradizionali. Il pubblico ha perso fiducia in loro e quindi ora vale tutto. Le ragioni per cui è successo sono familiari: il settore è diventato più duro, molte redazioni non hanno più le risorse per fare il lavoro nel modo giusto.
“Quando sei alla quinta storia del giorno e non c’è più un caporedattore perché è stato licenziato e non c’è nessuno che fa fact-checking e quindi devi fare da solo su Google, finisci per scrivere idiozie”. Il vecchio Snopes assegnava alla leggenda metropolitana di turno un pallino verde, giallo o rosso a seconda del livello di credibilità. Oggi scompone la notizia, tipo “Ecco la mail che prova che Hillary Clinton forniva armi all’Isis”, e spiega con pazienza cosa c’è di vero e cosa no (nel caso preso in esempio: è un falso). Ci sono poi siti più sofisticati, come l’inglese – ma ha collaboratori da tutto il mondo – Bellingcat, che raccoglie un seguito così largo da essere diventato protagonista di duelli a distanza con il ministero della Difesa russo a Mosca. Per esempio: il ministero mette su internet alcuni video di bombardamenti eseguiti in Siria contro lo Stato islamico e Bellingcat, grazie alle mappe satellitari a cui ormai possono accedere tutti, dimostra che gli aerei russi hanno invece bombardato altri posti in Siria, dove lo Stato islamico non è presente. Un altro esempio: grazie a un’analisi dei video e dei social media russi, (che sono frequentati anche dai soldati, e pure loro caricano foto su internet) Bellingcat ha trovato il sistema lanciamissili Buk su cingoli che nel luglio 2014 ha attraversato il confine con l’Ucraina, ha abbattuto l’aereo di linea MH17 con 298 passeggeri a bordo e poi è tornato in Russia – conclusioni che poi con metodi simili sono state confermate dalla commissione d’inchiesta olandese (come la maggior parte delle vittime) che si sta occupando del caso.
Le versioni alternative fornite dalla Russia, come per esempio la presenza di caccia ucraini, sono state smentite con metodo una dopo l’altra – anzi, come si dice nei titoli che impazzano su Facebook: “Sono state asfaltate”. Bellingcat è un sito a tendenza pedagogica, ovvero tende a insegnare ai lettori come verificare le notizie – dai primi passi base, come controllare l’autenticità di un’immagine con Google images (il motore di ricerca che ti dice se un’immagine che credevi nuova è invece risalente a un paio di anni fa e se, per esempio, la foto dell’attentato che tu credi fresca di pochi minuti non si riferisce a tutt’altro fatto) fino al marchio di fabbrica del sito, identificare la località di un sito grazie alle mappe satellitari e a pochi punti di riferimento. Che però resta senz’altro un’attività più noiosa rispetto a leggere: “Un editoriale del New York Times chiede di assassinare Donald Trump”.
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