Riprendiamo dalla STAMPA, a pag. 9-10, con il titolo "'Peshmerga', il film simbolo di speranza", il commento di Francesca Paci ; con i titoli "Così nel Nord dell'Iraq il Kurdistan costruisce la sua indipendenza", "Cacceremo i jihadisti da Mosul e ridisegneremo il Medio Oriente", cronaca e invervista a Ari M. Harsin di Giordano Stabile.
Francesca Paci: "'Peshmerga', il film simbolo di speranza"
In attesa dell'uscita del film nelle sale italiane, ecco la recensione di Francesca Paci. La pellicola descrive la resistenza dei combattenti curdi lungo la frontiera dell'Iraq settentrionale.
Francesca Paci
Bernard-Henri Lévy
C’è un ragazzo in mimetica che si arrampica su un pendio, urla un nome, la telecamera alle sue spalle arranca, un’esplosione invade l’aria e poi si parla di feriti, si corre, si spara, un uomo sorride a chi, immagina, prima o poi vedrà il filmato e con lo sguardo bambino dice «Viva il Kurdistan». «Peshmerga», il documentario girato nel 2015 da Bernard-Henri Lévy risalendo la piana di Ninive al seguito dell’offensiva anti-Isis, inizia trascinando lo spettatore nella guerra che i curdi siriani e iracheni combattono sul terreno da quando non c’era copertura aerea né coalizione internazionale. «Spero che a fronte dell’impegno contro il Califfato i curdi ottengano finalmente il loro Stato», confida Lévy. Le sue riprese raccontano un’avanzata molto concreta, con i blindati che si fanno largo tra le pecore e i soldati che interrogano le mappe sorseggiando tè.
La locandina del film
Sebbene le immagini delle vittime siano ridotte al minimo si respirano polvere e sangue lungo la narrazione di «Peshmerga». «I curdi non hanno il culto della morte che caratterizza i fanatici, amano la vita», osserva la voce fuori campo commentando le foto dei caduti, martiri sacrificatisi non per il Paradiso celeste ma per quello terreno, per la patria curda. I protagonisti di Lévy, che con il film è riuscito a portare i comandanti curdi al cospetto di Hollande e a farli dotare di maschere contro le armi chimiche, sorridono, accolgono donne e bambini in fuga dall’Isis. C’è speranza, ci sono giovani che rinnovano qui la lotta dei nonni contro Saddam, ci sono villaggi riconquistati dove sono rimasti solo i cani come Lévy ricorda di aver visto a Sarajevo, Grozny, Misurata. Ci sono i funerali, tappe necessarie prima dello sprint di quegli stessi peshmerga che oggi assediano Mosul.
Giordano Stabile: "Così nel Nord dell'Iraq il Kurdistan costruisce la sua indipendenza "
Giordano Stabile
Peshmerga curdi
Le nuove frontiere sono riconosciute dai trattati di pace. Ma vengono costruite in tempo di guerra. Mentre la battaglia di Mosul entra nel secondo mese, i bulldozer dei peshmerga curdi lavorano a pieno ritmo fra Bartella e Tall Kayf, lungo un arco a circa venti chilometri di distanza dalla roccaforte dell’Isis. Costruiscono un terrapieno alto tre-quattro metri e, a ridosso, una nuova strada che porta direttamente alle cittadine appena liberate. Una «circonvallazione» che una volta finita la guerra potrà collegare Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, ai territori curdi più a Ovest. Ma potrà segnare anche la nuova frontiera di un Kurdistan indipendente.
Il terrapieno e la strada sono «provvisori» e servono a proteggere, ufficialmente, le truppe curde a guardia del territorio riconquistato dai colpi di mano dell’Isis. Il provvisorio, però, in Iraq diventa spesso definitivo. E per i curdi la distruzione dello Stato islamico rappresenta un’occasione storica. Esattamente come la caduta di Saddam Hussein. Allora, nel 2003, i peshmerga erano entrati anche a Mosul, assieme alle avanguardie della 101a divisione americana. Oggi, in base agli accordi con Baghdad, i curdi non hanno mire dirette su Mosul.
Tra Bashiqa e Kirkuk
Altrove però i confini del Kurdistan si allargano a vista d’occhio. Nei villaggi attorno a Mosul, come Bashiqa appunto, dove è forte la componente etnica curda e yazida. E in un’ampia fascia di territorio a Sud-Ovest di Kirkuk. La stessa Kirkuk è stata presa nell’estate del 2014, quando lo Stato iracheno era sul punto di collassare e le colonne con le bandiere nere dell’Isis erano a pochi chilometri da Baghdad. A Kirkuk, come a Mosul, i curdi sono una minoranza, attorno al 20%: un referendum dovrà stabilire se la città vorrà far parte del Kurdistan. E tutto dovrà essere deciso da una complessa trattativa sugli assetti futuri dell’Iraq, subito dopo la distruzione del Califfato.
I rapporti di forza conteranno molto. L’Iraq del premier Haider al-Abadi è riuscito a ricostruire il nucleo duro dell’esercito. E si è posto in una posizione di equilibrio fra gli alleati, Stati Uniti e Iran. La realizzazione di un Iraq unito e federale sembra però ancora una chimera. La provincia sunnita dell’Anbar è stata riconquistata al prezzo della distruzione quasi totale di Ramadi e Falluja. Le milizie sciite, Hashd al-Shaabi, hanno un ruolo preponderante nel controllo del territorio. Sono state escluse dalla conquista di Mosul, ma stanno occupando la parte occidentale della provincia di Ninive. Il risultato è un esodo massiccio delle popolazioni arabo-sunnite. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Center di Ginevra, gli sfollati interni iracheni hanno raggiunto i 4 milioni. A ciò si aggiunge l’esodo verso l’estero. Se i cristiani iracheni, dal 2003 al 2015, sono passati da 1,5 milioni a 200 mila, anche gli arabo-sunniti diminuiscono. Secondo cifre ufficiose a Baghdad sono scesi dal 50 al 20% della popolazione.
In questo rimescolamento, innescato dalla follia brutale dell’Isis, il Kurdistan è diventato l’entità irachena più solida. I peshmerga hanno ricevuto blindati, missili anti-tank, artiglieria leggera. Centinaia di istruttori occidentali, in primis italiani, hanno trasformato una forza guerrigliera in un vero esercito che può contare su 160 mila uomini. Gli stessi arabi, sunniti e cristiani, vedono come più sicuro il Kurdistan di Baghdad o dell’Anbar. Il governo di Erbil sostiene di aver accolto «un milione» di sfollati in due anni. «Le nostre sono istituzioni laiche», sottolinea la leadership del Kdp, il partito del presidente Massoud Barzani al potere. Come dire, niente derive settarie che invece incombono su Baghdad.
L’alleanza con la Turchia
Dal 2003 Erbil ha cambiato volto. Il boom petrolifero l’ha trasformata in una metropoli piena di mall all’americana, grattacieli, mega alberghi come il Diwan. Ora il calo del greggio ha frenato quest’orgia edilizia e asciugato le casse del governo, che fatica a pagare gli stipendi. Ma le prospettive restano solide. Barzani è riuscito a portare dalla sua parte la Turchia, nemico storico dei curdi, con l’avvio di stretti rapporti economici, l’esportazione del petrolio attraverso un oleodotto che passa per l’Anatolia, l’apertura del mercato curdo ai prodotti turchi. Ankara non dimentica poi che Barzani è stato suo alleato negli Anni 90 contro il Pkk.
L’alleanza con la Turchia significa però seppellire il sogno del grande Kurdistan, quasi realizzato fra il 1920 e il 1923, fra il Trattato di Sèvres che aveva creato il primo Kurdistan indipendente, e quello di Losanna, che lo aveva cancellato. A Erbil vanno con i piedi di piombo. Prima il Kurdistan iracheno. Poi, in base ai nuovi equilibri in Siria, forse quello siriano, il Rojava, che sta prendendo forma ma è egemonizzato dai guerriglieri dello Ypg, alleati del Pkk, già in marcia verso Raqqa. Più in là per ora, nemmeno con i sogni, non si va.
Giordano Stabile: "Cacceremo i jihadisti da Mosul e ridisegneremo il Medio Oriente"
Peshmerga curdi
«Dopo la battaglia di Mosul ci troveremo nella stessa situazione di un secolo fa, quando è finita la Prima guerra mondiale e sono stati ridisegnati i confini del Medio Oriente. Nessuno può illudersi che tutto tornerà come prima, che l’Iraq resti un Paese unito». Ari M. Harsin è il coordinatore del comitato parlamentare dei peshmerga. In pratica il «commissario politico» delle forze armate del Kurdistan iracheno. Ex colonnello dell’artiglieria, fedelissimo del presidente Massoud Barzani. Ha rimesso la mimetica per partecipare alle ultime fasi della battaglia per la liberazione di Bashiqa, la scorsa settimana. Una vittoria strategica. Non solo per la campagna di Mosul. Anche per il nuovo Kurdistan che sta emergendo.
Che cosa cambierà con la battaglia di Mosul per l’Iraq e per il Kurdistan? Sta procedendo secondo i piani?
«Quali piani? Non c’è nulla di pianificato. Ovviamente ringraziamo i nostri alleati, Italia compresa, per l’aiuto e l’addestramento alle nostre truppe. Ma non ci sono piani né per la battaglia né per il dopo. Le cose stanno andando bene ma Mosul porterà molte sorprese, in tutti i campi. Non possiamo prevedere quanto durerà la battaglia. Dipende molto dai rapporti fra le varie parti delle coalizione. Prima di tutto quelle fra gli Stati Uniti e la Turchia. Ma di certo la fine della battaglia segnerà la fine dell’Iraq».
Perché? Non c’è spazio per un Iraq federale, con una grande autonomia per il Kurdistan, come ora?
«Premetto che un conto è quello che si desidera, un conto è la realtà. Ma dal nostro punto di vista la fine della battaglia di Mosul coinciderà con la fine dello Stato iracheno, a livello geografico e politico. Ci vedo molte similitudini con la situazione alla fine della Prima guerra mondiale, quando cambiarono tutti i confini del Medio Oriente. Siamo convinti che ora esistano tutte le condizioni per una piena indipendenza del Kurdistan. Bisogna prepararsi a negoziare e lottare affinché queste condizioni si trasformino in realtà. Con l’aiuto dell’Onu, l’Ue, gli Stati Uniti, la Russia, dei nostri vicini, come l’Iran. Credo comunque che siamo in una situazione favorevole come non mai».
La Turchia potrà mai accettare un passo del genere?
«Il Krg ha buone relazioni con la Turchia. E la Turchia riceve grandi benefici da queste relazioni, con scambi commerciali valutati in 10 miliardi all’anno. Ma il governo turco ha grandi problemi con il popolo curdo nel sud del Paese, e con la guerriglia del Pkk. Proprio per questo non ha grande interesse a bloccare il nostro processo verso l’indipendenza: allenterà le loro tensioni interne. E lo stesso vale per l’Iran. Un Kurdistan indipendente sarà un fatto di stabilità per i nostri vicini e porterà vantaggi economici e politici».
Come pensate di riuscire a realizzare il vostro sogno?
«Le racconto una cosa. Io sono un ufficiale di artiglieria. Due anni e mezzo fa, quando l’Isis ha preso Mosul, non avevamo niente. Cannoni, armi pesanti. Niente. Pochi mortai leggeri. Abbiamo dovuto aprire vecchie casse di munizioni, le uniche a disposizione. Sa quale era la data? 1956. Erano state inviate dagli americani, avanzi della guerra di Corea. Ora abbiamo un esercito. Già questo è un enorme passo avanti. Il resto verrà».
Come vede l’elezione di Donald Trump? Vi avvantaggerà e o vi danneggerà?
«Rispettiamo la scelta del popolo americano. Detto questo, con i terribili problemi che affronta il Medio Oriente c’è bisogno di un uomo forte alla Casa Bianca. Prima di tutto per continuare la lotta contro questa barbara organizzazione terroristica chiamata Isis. Per questo è importante liberare Mosul e Raqqa. Mosul è come la madre, Raqqa come il figlio. Sono legate dal cordone ombelicale. È giusto attaccarle allo stesso momento. Per il resto non credo che la politica americana cambierà molto. Un conto è la campagna elettorale, un conto governare il mondo».
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