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Informazione Corretta Rassegna Stampa
14.11.2016 IC7 - Il commento di Giacomo Kahn: Perché Trump merita almeno un piccolo credito di fiducia
Dal 6 al 12 novembre 2016

Testata: Informazione Corretta
Data: 14 novembre 2016
Pagina: 1
Autore: Giacomo Kahn
Titolo: «IC7 - Il commento di Giacomo Kahn: Perché Trump merita almeno un piccolo credito di fiducia»

IC7 - Il commento di Giacomo Kahn
Dal 6 al 12 novembre 2016

Perché Trump merita almeno un piccolo credito di fiducia

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Donald Trump

Commentare i giornali della scorsa settimana, quella segnata a livello planetario su tutti media del mondo dalla clamorosa vittoria di Donald Trump, può apparire relativamente facile ma in realtà è quanto mai difficile. Infatti troppo è stato detto, infinite sono state le analisi, le interviste, i commenti in un diluvio spesso di ovvietà e banalità che hanno nascosto la verità che i cosiddetti ‘esperti’ di politica estera e di affari internazionali non hanno voluto ammettere: il personaggio Trump era poco conosciuto, se non addirittura ignorato in Europa.

E’ perciò difficile non scivolare nel rischio di una banalizzazione e quindi bisogna partire onestamente dall’ammettere che Trump è un enigma che dovrà essere giudicato non solo dalle parole già espresse (spesso sgradevoli, politicamente scorrette, ruvide, irrispettose, addirittura razziste), ma soprattutto dalle azioni concrete, dalle politiche che lui e il suo staff metteranno in campo.

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Ronald Reagan

Anche se in modo profondamente diverso, un’analogo scetticismo, una feroce ironia proveniente dall’establishment, un senso di malcelata superiorità del mondo intellettuale, venne da una parte dell’America e da molti osservatori stranieri, quando fu eletto l’attore Ronald Reagan (anche lui come Trump, prima democratico e poi del partito repubblicano e anche lui il presidente più anziano eletto a 69 anni, primato che ora spetta a Trump con 70 anni). In un passaggio del discorso di investitura (20 gennaio 1981), Reagan indicò quella che sarebbe stata la strada della sua politica economica: «Nella crisi presente, lo stato non è la soluzione al nostro problema; lo stato è il problema». Sotto la sua presidenza fu tagliata del 25% l'imposta sul reddito, ridotti i tassi d'interesse, aumentate le spese militari, ridotta la spesa sociale, aumentata la liberalizzazione dei mercati, ma crebbe anche il deficit e il debito pubblico. Quell’attore di Hollywood, che inizialmente così tanto scandalizzò i benpensanti, fu così decisivo nelle scelte economiche che dal suo nome nacque un neologismo, fu creata una nuova parola (inserita anche nell’enciclopedia della Treccani): il ‘reaganismo’, per indicare una rivoluzione politica, economica, culturale e del costume. Celebre fu il tormentone televisivo (lanciato da Roberto D’Agostino, nel programma di Arbore ‘Quelli della notte’) dell’ “edonismo reaganiano”, un nuovo stile di vita, un cambiamento di costume con la scomparsa degli hippy degli anni’ 60 e ‘70 e la nascita degli yuppy, giovani professionisti urbani, molto aggressivi, affamati di soldi e di successo.

Oggi ci troviamo - analogamente all’elezione di Reagan – ad affidarci a colui che per la stragrande maggioranza degli scettici osservatori era considerato inaffidabile, populista, reazionario, quasi un pazzo-visionario. Ci vorrà quindi molto tempo per ‘digerire’ i risultati elettorali e per superare il sentimento di scoraggiamento, di sorpresa, di incredulità, anche di rabbia che sta attraversando le giovani generazioni e settori della società americana. Ma ci vorrà soprattutto molta autocritica, un profondo bagno di umiltà da parte di chi credeva di avere l’America dalla sua parte. Questo processo di analisi è stato ben sintetizzato da un editoriale del New York Times, uscito il giorno dopo l’election day: "Nessuno aveva previsto una notte elettorale come questa. L'aver sbagliato bersaglio in questo modo significa molto di più dell'aver sbagliato i sondaggi, perché si é trattato dell'incapacità di percepire la ribollente rabbia di una parte così vasta dell'elettorato americano, che si sente abbandonato all'interno di una ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di lavoro voluta dall'establishment di Washington, da Wall Street e dagli organi di informazione".

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Trump non ha vinto solo contro il candidato democratico Hillary Clinton, ha vinto contro il suo stesso partito Repubblicano che oggi incassa la maggioranza in tutti e due i rami del Congresso, ma ha vinto anche e soprattutto contro Obama – mai si era visto un presidente degli Stati Uniti partecipare così attivamente alla campagna elettorale – che è il vero sconfitto, così come sconfitta esce la politica obamiana segnata in campo internazionale da una politica non reattiva, selettiva, non da grande potenza ‘bastione della democrazia’; una cautela, un modesto e controllato attivismo preoccupato dalle conseguenze delle sue scelte, sintetizzato nella frase pronunciata dallo stesso Obama in una intervista: «Don’t do stupid shit» - “Non fare cose stupide”. Affermazione che però non ha evitato ad Obama di inanellare una serie di insuccessi a cominciare dal suo discorso di riconciliazione con il mondo arabo, pronunciato nel 2009 all’Università del Cairo: sappiamo poi come è andata con un mondo arabo molto più aggressivo, estremista e jihadista che minaccia costantemente l’Occidente.

Poi c’è la questione siriana. Obama aveva perentoriamente minacciato Assad di non usare le armi chimiche, la celebre ‘linea rossa da non superare’, pena la reazione americana: Assad le ha usate e Obama si è liquefatto come neve al sole. Per non parlare della frantumazione libica dove l’America ritirandosi – sempre in base al principio obamiano che ‘la democrazia non si impone ‘ – ha lasciato spazio a bande e gruppi tribali in guerra gli uni contro gli altri e tutti contro occidentali, americani ed israeliani.

Non parliamo poi delle relazioni di Obama con Israele (netto il fastidio personale che provava verso Netanyahu), condizionate dalla convinzione che l’ostacolo alla pace non è il rifiuto palestinese a riconoscere Israele, quanto la presenza degli insediamenti, nell’illusione mendace che se questi improvvisamente scomparissero non ci sarebbero più problemi e gli israeliani vivrebbero senza più minacce mortali. Ma quando mai. Vi è poi l’accordo sul nucleare iraniano firmato sapendo bene che esso è solo un pezzo di carta che sposta la gestione di una minaccia globale alle generazioni che verranno.

A prescindere poi da tutti gli aspetti di politica interna, è questa l’eredità che Obama lascia al suo successore. Diamo perciò almeno per ora a Trump un piccolo credito di fiducia quanto meno per la forza dello slogan della sua campagna elettorale: “Make America Great Again” - “Rendiamo l’America di nuovo grande”. Una bella promessa. Poi vedremo come e se la manterrà.

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Giacomo Kahn, direttore mensile Shalom


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