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Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli A destra: Donald Trump Cari amici, Trump ha vinto le elezioni. E’ una vera e propria rivoluzione. Può piacere o meno, ma il messaggio dell’elettorato americano è chiarissimo. Quel complesso ideologico, prima che politico, che ha governato il mondo ancor prima di Obama, negli ultimi trent’anni, a partire da Clinton marito, non è più accettabile. I risultati che ha ottenuto questo approccio politico sono giustamente sembrati pericolosi e dannosi alla maggioranza degli americani, come lo appaiono anche da tempo a buona parte degli europei. L’estremismo antioccidentale e filoislamico di Obama appare sonoramente sconfitto. Ma, come scriveva di recente Caroline Glick (http://www.jpost.com/Opinion/Column-One-Trumps-true-opponent-471671) Trump si opponeva non solo ai democratici, ma anche all’establishment del suo partito. Quel che è accaduto è qualcosa di più di una mera alternanza di partiti, non è neppure solo il rifiuto di una candidata che appariva inadeguata e corrotta, ma la chiusura di un’epoca, di un modo di concepire il rapporto fra l'America e il mondo. Basta terzomondismo masochistico, basta accettazione delle sconfitte come buone e giuste, basta prevalenza di un’ideologia socialisteggiante sugli interessi concreti del paese. Basta con l’idea che la globalizzazione economica, frutto dello straordinario successo economico e tecnologico degli stati che hanno adottato dopo la seconda guerra mondiale o mantenuto da prima il liberalismo economico e la libertà politica, richieda l’abbandono della loro identità. Come l’Unione Sovietica e il socialismo reale sono stati sconfitti per l’azione di Tatcher e Reagan, liberale e non compromissoria, così deve avvenire oggi per l’islamismo e le altre minacce di regimi autoritari. Ci sarà tempo per analizzare nei dettagli questa svolta che non è esagerato definire storica e che avrà certamente grandi conseguenze anche da noi in Europa, sommandosi a Brexit.
L’affermazione di Trump è tanto più notevole per il fatto di essere stata apertamente osteggiata dalla quasi totalità dei media, degli opinion leader, anche della parte più “per bene” o continuista del partito repubblicano, in testa la famiglia Bush. Noi che critichiamo i media ogni giorno per il loro approccio in grande maggioranza ideologico e antisionista al Medio Oriente, abbiamo visto in opera una macchina di demonizzazione di Trump, dei suoi elettori e delle sue ragioni, che ha raggiunto livelli grotteschi, anche perché completamente inutili. Ci sarebbe da fare un’antologia di questi messaggi, dalla battuta di Clinton sui “disgraziati” che votano Trump, a quelle di Obama su Trump “antiamericano” e addirittura “inumano”, alle infinite opinioni che miravano non a discutere i programmi del candidato repubblicano, ma la sua persona e quella dei suoi elettori. E’ una lezione molto interessante, che mostra quanto sia futile la pretesa di superiorità di media e opinion leader, quanto sia comico il tifo politico dei giornali, in cui quelli italiani non si sono mostrati secondi a nessuno. Bisognerà vedere come Trump costruirà la sua amministrazione e quali politiche seguirà. Certamente per Israele sarà un amico infinitamente migliore di quanto fosse Obama (che in realtà era nemico) e anche di Hillary Clinton che al di là delle posizioni personali era circondata da antisionisti più o meno mascherati: le dichiarazioni di Trump, la posizione storica del suo vicepresidente che è sempre stato un militante pro-Israele, le storie della sua famiglia lo dimostrano. Ma da questo atteggiamento a riformulare completamente la politica americana corre un lungo e difficile lavoro. E’ difficile dire come si porrà davvero Trump, dovendo decidere davvero e non semplicemente dichiarare posizioni di principio di fronte alla Russia, alla Cina, alla scissione nel mondo arabo, all’Europa. Certamente gli automatismi dell’amministrazione, il pensiero e la pratica politically correct, salteranno e questo è un bene. Si tratterà di vedere il nuovo disegno strategico che li sostituirà, se si tratterà semplicemente di isolazionismo di un’America che vuole risolvere i suoi problemi interni, o di una nuova leadership per il mondo. Si apre per il momento un periodo pericolosissimo, che durerà fino all’insediamento della nuova amministrazione, fra più di due mesi, il prossimo 20 gennaio. Obama, la cui tendenza a decidere da solo e in spregio ai contrappesi costituzionali (per esempio evitando di sottoporre l’accordo con l’Iran all’approvazione del Senato, com’è previsto per qualunque trattato), potrebbe tentare dei colpi di coda per “legare le mani” al suo successore. Per esempio potrebbe non opporre più il veto che gli Usa hanno sempre usato per neutralizzare una mozione antisraeliana al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che è già pronto, concordato fra Francia e Autorità Palestinese. E’ vero che oltre a eleggere Trump gli americani hanno confermato un Congresso tutto a maggioranza repubblicana; ma nel sistema americano, soprattutto nel modo in cui lo interpreta Obama, il presidente è piuttosto autonomo nelle decisioni di politica estera. Il fatto di essere delegittimato e isolato potrebbe indurlo a maggior rigore ideologico, non alla ragionevolezza. Vedremo come si comporterà Obama e che farà quella grandissima parte di America ufficiale (e anche di Europa) che non solo ha lavorato in questi mesi per la sconfitta di Trump, ma l’ha sommerso di disprezzo, ostentando superiorità. Anche questa sarà un’osservazione interessante, perché nei prossimi mesi avremo anche noi le nostre elezioni che potranno essere segnate dalla rivoluzione di Trump: in Austria, finalmente a dicembre, poi l’anno prossimo in Olanda, in Germania, in Francia. In tutti questi paesi vi sono forze che possono aspirare a raccogliere la spinta di Trump, anche se sono molto diverse fra loro. Una cosa è certa: il metodo della democrazia ha il senso di accogliere il cambiamento e organizzarlo, senza l’uso della forza. Quella di Trump è una rivoluzione, corrisponde a una forte aspettativa degli elettori, che era stata ignorata, anzi disprezzata e derisa dalle élites politiche e mediatiche. Per fortuna l’America non è la Germania Est, descritta da quella battuta di Brecht in cui, visto il dissenso generale, il comitato centrale del partito comunista decide di cambiare il popolo. Qui è il popolo che ha deciso di cambiare il governo. God bless America.
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